mercoledì 28 ottobre 2015
Una storia del senso del pudore
Risvolto
Sei storie vere di nudità, usate come altrettante lenti per osservare la
natura umana. Lucy è stato uno degli ultimi ominidi ancora coperti da
una folta pelliccia, persa la quale ci siamo trovati nudi, costretti a
inventare insieme i vestiti e la vergogna. Lise è la turista danese in
shorts processata in Sicilia negli anni della rivoluzione sessuale. Eva
Herzigova e il suo Wonderbra sono un esempio emblematico del potere
seduttivo del corpo nella pubblicità. Inna è la leader delle Femen, le
femministe che manifestano in topless. Dita è la regina del burlesque,
una forma di spogliarello che nei secoli scorsi ha sovvertito i rapporti
di classe e di genere. Anthony è il politico americano che ha
compromesso la sua carriera per colpa degli autoscatti erotici. Noi
umani ci spogliamo ogni giorno, ma con la nudità abbiamo un rapporto
contraddittorio: nudo è bello ma anche brutto, è il simbolo del peccato
ma anche dell’innocenza, è pagano e sacro, edonista e ascetico.
Mostrarsi nudi significa esporre la propria umana fragilità, ma anche
offendere e provocare. Voglia di piacere, pudore, pregiudizi, norme
sociali, tendenze estetiche, appartenenze culturali si incastrano come
ingranaggi nel cervello di ognuno, spesso in modo diverso per uomini e
donne. Muovendosi tra psicologia e sessualità, storia del costume e
della morale, arte e moda questo libro illustra le tante facce della
nudità. La nostra condizione naturale con cui stiamo ancora imparando a
convivere.
Dalla foglia di fico all’eccesso di esibizionismo: tabù, censure e contraddizioni della nudità
Il millenario senso del pudore
Convenzioni Andiamo tranquillamente al mare in bikini, ma non usciremmo mai di casa in biancheria intima Vergogna Noi umani siamo gli unici a fabbricare vestiti e a vergognarci quando ce li togliamo
28 ott 2015 Corriere della Sera Di Pierluigi Battista © RIPRODUZIONE RISERVATA
Quando era ricoperta da una pelliccia naturale, un po’ più di tre milioni di anni fa millennio più millennio meno, l’umanità era ignara di qualcosa che somigliasse al «senso del pudore» e dunque aveva qualche cruccio in meno in cui avvitarsi e per cui soffrire come noi oggi che siamo glabri. Da quando siamo afflitti da questa condanna descritta da Anna Meldolesi, in un libro che ha per titolo Elogio della nudità ed è pubblicato in questi giorni da Bompiani, siamo invece imprigionati in una ragnatela di contraddizioni che non riusciamo più a sbrogliare.
Il senso del pudore è ambiguo, sfuggente, intimidatorio. «Andiamo tranquillamente al mare in bikini ma non usciremmo mai di casa in biancheria intima, anche se i centimetri di pelle sono gli stessi», scrive la Meldolesi. Ma vale anche per gli uomini: alcuni hanno addirittura la spudoratezza di mettersi gli orrendi slip in spiaggia, ma non uscirebbero da casa in mutande, anche con i più castigati boxer. L’analisi di questo senso del pudore è la missione del libro di Anna Meldolesi, che passa con grande disinvoltura da Lucy, «l’ominide fossile più famoso del mondo» fino a Facebook, che in un’epoca in cui la nudità sembra finalmente affrancata da remore pruriginose e tabù antiquati, finisce invece per vietare alle neomamme di farsi fotografare e postare mentre allattano i loro bambini dal seno ignudo. Passando per Eva Herzigova, famosa per la pubblicità del Wonderbra, ma che porta il nome della nostra progenitrice costretta, dopo aver mangiato il frutto proibito insieme al complice Adamo, a coprirsi con una foglia di fico.
Il lato più brillante del libro della Meldolesi è di passare dall’arco temporale dei milioni di anni a quello, misero misero, dei decenni. Pochi decenni fa, niente nell’evoluzione complessiva dell’universo e dell’avventura umana, un pretore siciliano usciva pazzo per gli hot pants esibiti da una turista nella torrida estate siciliana. Pochi decenni fa il topless era considerato il massimo della sfrontatezza e dell’impudicizia. Pochi decenni fa la nudità sprizzava una tale energia morbosa da ispirare a Dino Risi un film come Vedo nudo,». dove l’ossessionato Nino Manfredi scorge in una matita le sagome di una donna completamente spogliata: effetto collaterale del suo mestiere di creativo che vende le borse d’acqua calda con un invitante ed erotizzante «Sono morbida, sono calda, portami a letto con te, costo solo mille lire».
Pochi milioni di anni fa, cioè in una dimensione temporale in cui topless e mutande di varia foggia appaiono particelle minuscole e insignificanti, la biologia e la cultura umane, con la perdita della pelliccia, conoscono una svolta radicale: «Noi umani siamo gli unici della nostra estesa famiglia ad avere la pelle nuda, a fabbricare vestiti e a vergognarci quando ce li togliamo Perché? Perché l’evoluzione umana, scrive la Meldolesi, non è solo bipedismo e posizione eretta, pollice opponibile, o dieta a base di carne «che ha procurato ai nostri progenitori le energie necessarie per sostenere un balzo in avanti nelle prestazioni cerebrali», ma è anche «questione di peli persi e ghiandole sudoripare guadagnate». E poi evidentemente le femmine di tanti milioni di anni fa preferivano esteticamente ed eroticamente gli uomini senza peli con cui procreare, mica come adesso che vanno di moda gli hipster barbuti.
La nudità ha generato per gli esseri umani molte cose belle e molte cose brutte. La spinta a vestirci ha creato l’arte, la moda, le stoffe, l’elaborazione culturale. Ma ha anche creato nevrosi, angosce, frustrazioni. Ha modificato il nostro senso della bellezza e ha alimentato tabù paralizzanti. Ha messo in moto imponenti costruzioni filosofiche, ma ha anche lubrificato complicati sistemi repressivi e liberticidi. La nudità ha creato la censura. Ha sdoganato comportamenti narcisistici e con l’aiuto della tecnologia ha esasperato l’esibizionismo, come quello del politico democratico americano Anthony Weiner, citato da Anna Meldolesi, che si è fatto beccare mentre spediva alle ragazze foto del suo organo in erezione, sfondando la soglia del ridicolo e anche il muro dell’autodistruzione politica.
La Meldolesi si concentra soprattutto sull’ultimo secolo, dove i parametri del senso del pudore e della percezione del nudo sembra che si siano modificati con impressionante velocità e in modo molto radicale. Qualcuno avrebbe potuto immaginare che il seno di una mamma che allatta sarebbe diventato, nello psicotico mondo dei social network, più spudorato di una copertina di «Playboy», prima che i suoi responsabili decidessero di rivestire pudicamente le avvenenti conigliette, come richiesto dal mercato nell’epoca di YouPorn?
Il senso del pudore ha anche modificato la lingua, il lessico, la ricchezza del vocabolario. Purtroppo più del vocabolario inglese che di quello italiano. Gli inglesi infatti, con finezza a noi preclusa, distinguono naked da nude: non sono sinonimi, ma due stati d’animo, due opposti concetti filosofici attorno all’essere denudato. Naked allude idealmente a uno stato di «naturale innocenza», a una condizione di purezza primitiva, non contaminata dai vestiti della civilizzazione repressiva, dal tessuto inautentico di cui sono fatti gli imperativi sociali e i tentativi di comprimere la libertà dello stato di natura. Nude invece «si trova nell’arte». È una nudità «artificiale, stilizzata», eminentemente sociale. Non è poi così male, perché nude, la nudità consapevole, «mette le ali alla fantasia e all’eros», scrive Anna Meldolesi. Ma non c’è niente di statico, di immutabile, nei canoni estetici e morali che descrivono la nudità, che circoscrivono o dilatano il senso del pudore. Tutto cambia a velocità vorticosa, non c’è bisogno dei milioni di anni che sono stati necessari per svellere la pelliccia che copriva i nostri antenati. E per creare brividi e malizia attorno alla nudità. Quando le chiesero che cosa indossasse per andare a letto, Marilyn Monroe rispose: «Chanel n. 5». Altro che innocenza naturale.
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