lunedì 16 novembre 2015

Bernardo è quello sinistro, Ernesto ovviamente sempre quello destro. Tuttologi scatenati per l'union sacréé dell'Occidente. Unica controtendenza: Edgar Morin

I MUSULMANI DELLE NOSTRE CITTÀ ORA CI DICANO CON CHI STANNO 
16 nov 2015 Corriere della Sera di Bernard-Henri Lévy
Le democrazie per salvarsi devono combattere Significa intervenire militarmente nei territori dominati dall’Isis ma pure costringere i seguaci di Allah, che sono fratelli, a prendere posizione contro il neofascismo di matrice islamica
Rompere gli indugi I benpensanti diranno che invitare qualcuno a dissociarsi da un crimine che non ha commesso significa supporlo complice, ma non è così 
Ebbene, la guerra. Una guerra di nuovo tipo. Una guerra con e senza frontiere, con e senza Stato; una guerra due volte nuova perché mescola il modello deterritorializzato di Al Qaeda e il vecchio paradigma territoriale al quale l’Isis è tornato. Ma comunque una guerra. 
Di fronte a una guerra che né gli Stati Uniti né l’Egitto né il Libano né la Turchia né oggi la Francia hanno voluto, una sola domanda è valida: che fare? Come rispondere e vincere, quando questo tipo di guerra vi cade addosso? 
Prima legge. Dare un nome. Dire pane al pane, vino al vino. E osare formulare la terribile parola «guerra» che ha la vocazione, quasi la proprietà e, in fondo, la nobiltà e al tempo stesso la debolezza di essere respinta dalle democrazie oltre i limiti delle loro facoltà, dei loro punti di riferimento immaginari, simbolici e reali. 
Siamo a questo punto. Pensare l’impensabile della guerra. Accettare quell’ossimoro che è l’idea di una Repubblica moderna costretta a combattere per salvarsi. E pensarlo con tanta più pena in quanto nessuna fra le regole stabilite, da Tucidide a Clausewitz ai teorici della guerra, sembra applicarsi a questo Stato fantoccio che porta il conflitto tanto più lontano in quanto i suoi fronti sono incerti e i suoi combattenti hanno il vantaggio strategico di non fare alcuna differenza fra ciò che noi chiamiamo vita e ciò che loro chiamano morte. 
Le autorità francesi l’hanno capito, al livello più alto. La classe politica, unanime, ha avallato il loro gesto. Restiamo noi, il corpo sociale nel suo insieme e nel suo dettaglio: ciascuno di noi che, ogni volta, è un bersaglio, un fronte, un soldato senza saperlo, un focolaio di resistenza, un punto di mobilitazione e di fragilità biopolitica. È sconfortante, è atroce, ma è così e occorre urgentemente prenderne atto. 
Secondo principio. Il nemico. Chi dice guerra dice nemico. E il nemico bisogna trattarlo non solo come tale, cioè (lezione di Carl Schmitt) come una figura con cui si può, secondo la tattica adottata, giocare d’astuzia, fingere di dialogare, lottare senza parlare, in nessun caso transigere, ma soprattutto (lezione di Sant’Agostino, di San Tommaso e di tutti i teorici della guerra giusta) bisogna dargli il suo nome vero e preciso. 
Questo nome non è il «terrorismo». Non è una dispersione di «lupi solitari» o di «squilibrati». Quanto all’eterna cultura della giustificazione che ci presenta gli squadroni della morte come gente umiliata, ridotta allo stremo da una società iniqua e costretta dalla miseria a uccidere dei giovani il cui unico crimine è di aver amato il rock, il football o la frescura di una notte autunnale in un bar, è un insulto alla miseria non meno che alle vittime. 
No. Gli uomini che ce l’hanno con il dolce vivere e con la libertà di comportamento cara alle grandi metropoli, i mascalzoni che odiano lo spirito delle città come — è infatti la stessa cosa — lo spirito delle leggi, del diritto e della gradevole autonomia degli individui liberati dalle vecchie sudditanze, gli incolti cui bisognerebbe contrapporre, se non fossero loro estranee, le così belle parole di Victor Hugo quando gridava, durante i massacri della Comune, che prendersela con Parigi è più che prendersela con la Francia, perché significa distruggere il mondo: costoro conviene chiamarli fascisti. O meglio: islamo-fascisti. Meglio ancora: il frutto di un punto di incrocio che un altro scrittore, Paul Claudel, vede prospettarsi quando il 21 maggio 1935 nel suo Diario scrive, in uno di quei lampi di genio di cui solo i grandissimi hanno il segreto: «Discorso di Hitler? Si sta creando al centro dell’Europa una sorta di islamismo...». 
Il vantaggio dell’atto di nominare? Mettere il cursore dove conviene. Ricordare che con questo tipo di avversario la guerra deve essere senza tregua e senza pietà. Poi, costringere ciascuno, dappertutto, cioè nel mondo arabo-musulmano come nel resto del pianeta, a dire perché combatte, con chi, contro chi. 
Questo non significa naturalmente che l’Islam abbia, più di altre formazioni discorsive, una qualche affinità con il peggio. E l’urgenza di questa lotta non deve distrarci dalla seconda battaglia, essenziale, anche vitale, che è quella per l’altro Islam, per l’Islam dei Lumi, per l’Islam in cui si riconoscono gli eredi di Massud, di Izetbegovic, del bengalese Mujibur Rahman, dei nazionalisti curdi o di un sultano del Marocco che fece l’eroica scelta di salvare, contro il regime di Vichy, gli ebrei del suo regno. 
Ma ciò vuol dire due cose, o piuttosto tre. Innanzitutto, che le terre dell’Islam sono le uniche al mondo dove — poiché si reputa che la tormenta fascista degli anni Trenta non abbia oltrepassato il perimetro dell’Europa — ci si è dispensati dal fare il lavoro di memoria e di lutto che hanno compiuto i tedeschi, i francesi, gli europei in generale, i giapponesi. 
In seguito, che bisogna far apparire nettamente la separazione decisiva, primordiale, che contrappone le due visioni dell’Islam impegnate in una guerra mortale e che è, tutto considerato, e se si vuole mantenere assolutamente l’uso della formula, la sola guerra di civiltà che valga la pena. 
Infine, che la linea lungo la quale si affrontano gli affiliati di un Tariq Ramadan e gli amici del grande Abdelhawahb Meddeb, la verifica su ciò che, da un lato, può in effetti alimentare il «Viva la muerte» dei nuovi nichilisti e, dall’altro, del tipo di lavoro ideologico, testuale e spirituale che basterebbe a scongiurare il ritorno o l’entrata dei fantasmi, tutto questo deve essere prioritariamente opera degli stessi musulmani. 
Conosco l’obiezione. Sento già i benpensanti gridare che il fatto di invitare bravi cittadini a dissociarsi da un crimine che non hanno commesso significa supporli complici e, dunque, stigmatizzarli. Invece no. Infatti, quel «non in nostro nome» che aspettiamo dai nostri concittadini musulmani era quello degli israeliani che si dissociavano, quindici anni fa, dalla politica in Cisgiordania del loro governo. Era quello delle folle di americani che nel 2003 rifiutavano l’assurda guerra in Iraq. Era il grido, più recentemente, di tutti i britannici, fedeli o semplici lettori del Corano, i quali si addossarono la responsabilità di proclamare che esiste un altro Islam — dolce, misericordioso, amante di tolleranza e di pace — rispetto a quello nel cui nome si poteva pugnalare un militare in mezzo a una strada. 
È un bel grido. È un bel gesto. Ma soprattutto è il gesto semplice, di una buona guerra, che consiste nell’isolare il nemico, staccarlo dalle sue retrovie e far sì che non si senta più come un pesce nell’acqua in una comunità di cui, in realtà, egli è la vergogna. 
Infatti, chi dice guerra dice ancora, inevitabilmente, identificazione, emarginazione e, se possibile, neutralizzazione di quella parte del campo avverso che opera sul suolo nazionale. 
È quel che fa Churchill mettendo in prigione, quando la Gran Bretagna entra in guerra, oltre duemila persone, talvolta molto vicine a lui, come un suo cugino, numero due del partito fascista inglese, Geo Pitt-Rivers, che egli considera nemici interni. 
Ed è, fatte le debite proporzioni, quello che bisogna decidersi a fare bloccando, per esempio, i predicatori di odio; sorvegliando ancora più da vicino le migliaia di individui schedati «S», cioè sospetti di jihadismo; o convincendo i social network americani a non lasciare che gli appelli all’omicidio kamikaze prosperino all’ombra del primo emendamento. 
Il gesto è delicato. È sempre sull’orlo della legislazione d’eccezione. Per questo è essenziale non cedere né sul diritto né sul dovere di ospitalità che si impone, più che mai, di fronte all’ondata di rifugiati siriani in fuga, giustamente, dal terrore islamo-fascista. 
Continuare a ricevere i migranti e nello stesso tempo rendere inoffensivo il più gran numero di cellule pronte a uccidere... Accogliere a braccia aperte chi fugge dall’Isis e contemporaneamente essere implacabili con quelli fra loro che traessero vantaggio dalla nostra fedeltà ai nostri principi per infiltrarsi in terra di missione e commettervi i loro misfatti... 
Non è contraddittorio. È l’unico modo, innanzitutto, per non offrire al nemico la vittoria che si Nuova guerra Frontiere e Stati sono concetti mobili perché questi barbari mescolano il modello deterritorializzato di Al Qaeda al vecchio paradigma geografico aspetta, cioè di vederci rinunciare al modo di vivere insieme, aperto, generoso, che caratterizza le nostre democrazie. Ed è, lo ripeto, il modo di procedere inerente a ogni guerra giusta che consiste nel non lasciare amalgamare ciò che ha vocazione ad essere diviso; e nella circostanza mostrare alla grande maggioranza dei musulmani di Francia che non solo sono nostri alleati, ma fratelli concittadini. 
Poi, l’essenziale. La vera fonte di questo orrore dilagante. Lo Stato islamico che occupa un terzo abbondante della Siria e dell’Iraq e che offre agli artificieri dei possibili, futuri teatri Bataclan le retrovie, i centri di comando, i campi di addestramento. È come un tempo a Sarajevo, come all’epoca in cui i sedicenti esperti agitavano lo spettro di centinaia di migliaia di soldati che si sarebbero dovuti impiegare sul terreno per impedire la pulizia etnica, mentre in realtà basteranno, giunto il momento, poche forze speciali e qualche attacco aereo: sono convinto che le orde dell’Isis siano molto più coraggiose quando si tratta di far saltare il cervello a giovani parigini inermi rispetto a quando bisogna affrontare veri soldati della libertà; e penso dunque che la comunità internazionale si trovi di fronte a una minaccia che, se lo vuole, ha tutti i mezzi per fermare. 
Perché non lo fa? Perché dosare tanto meschinamente il nostro aiuto agli alleati curdi? E quale è la strana guerra che l’America di Barack Obama per ora non sembra voler davvero vincere? Lo ignoro. Ma so che la chiave del problema è qui. E che l’alternativa è chiara: no boots on their ground equivale a more blood on our ground.

LA BATTAGLIA CULTURALE CHE DOBBIAMO LANCIARE SENZA LE SOLITE IPOCRISIE
Se i moderati hanno le mani legate, bisogna stanare gli autoinganni e le falsità storiche che nutrono l’estremismo radicale
16 nov 2015 Corriere della Sera Di Ernesto Galli della Loggia
Da pagina 1 Perché ciò che lega le mani all’islamismo moderato — che senz’altro esiste ed è maggioritario — impedendogli regolarmente di farsi sentire e di opporsi alle imprese sanguinarie degli altri, è per l’appunto il ferreo ricatto della comunanza religiosa. Ed è sempre questo ricatto-vincolo che a suo modo crea nella gran parte dell’opinione pubblica islamica, nelle sterminate folle delle periferie come negli strati più elevati, se non una qualche tacita complicità, certamente l’impossibilità di dissociarsi, di schierarsi realmente contro. Ciò che a propria volta vincola in misura determinante anche l’azione dei governi di quei Paesi.
Ma se le cose stanno così, se per l’esistenza del terrorismo è decisiva l’esistenza di questo ampio retroterra costituito e cementato dal fortissimo ruolo identitario della religione, non è forse qui, allora, a proposito di questo ruolo, che l’Occidente dovrebbe impegnarsi in uno scontro, lanciare una sfida? Certe guerre non si vincono solo militarmente grazie alle armi (che pure sono importanti e vanno impiegate fino in fondo) ma anche con altri strumenti.
Non si tratta di dichiarare né una guerra tra civiltà né una guerra tra religioni. Bensì di iniziare un’analisi, una discussione dai toni anche aspri se necessario, sugli effetti che ha avuto per l’appunto il ruolo identitario della religione islamica sulle società dove essa storicamente è stata egemone, una discussione su che cosa sono queste società, e sulle vicende storiche stesse del mondo islamico, forse un po’ troppo incline all’oblio e all’autoassoluzione. Un confronto-scontro con quel mondo di carattere eminentemente culturale. In sostanza lo stesso confronto-scontro che la cultura laico-illuministica occidentale ha avuto per almeno due secoli con il Cristianesimo e con la sua influenza storico-sociale, ma che viceversa si mostra quanto mai restia ad avere oggi con l’Islam. Riducendosi così a menare scandalo, magari, per il mancato matrimonio dei gay a Roma ma in pratica a non dire nulla sulla loro impiccagione a Teheran, o sulla lapidazione delle adultere a Islamabad.
Il modo migliore per aiutare l’Islam moderato a liberarsi del ricatto religioso, delle sue paure di lesa solidarietà comunitaria, è proprio quello di incalzarlo a un confronto senza mezzi termini con un punto di vista diverso che non abbia paura della verità. Un punto di vista fatto proprio dai media, dagli scrittori, dagli intellettuali occidentali, che quindi chieda conto di continuo a quell’Islam del perché mai quasi sempre nel suo mondo le donne debbano essere tenute in una condizione di spaventosa inferiorità, perché nei suoi Paesi non si traduca un libro ( tranne il Mein Kampf e I Protocolli dei Savi di Sion, con tirature da capogiro), perché non ci sia mai un’importante mostra d’arte, perché costruire una chiesa o una sinagoga debba essere vietato, perché essi non abbiano sottoscritto se non parzialmente le dichiarazioni sui diritti dell’uomo, perché in genere si faccia così poco per debellare l’analfabetismo. Un confronto che chieda il suo giudizio su ognuna di queste cose, e crei l’occasione per ascoltarlo e discuterne. Dare per scontata l’esistenza di un Islam moderato ma poi non cercare un confronto con esso non ha senso.
Un simile confronto potrebbe anche servire a dissipare l’unilateralità vittimistica con cui troppo spesso l’opinione pubblica islamica, anche quella moderata, è portata a vedere il rapporto storico tra il mondo islamico stesso e quello cristiano. Potrebbe servire a ricordare, per esempio, che le Crociate furono soprattutto una debole e caduca risposta (per giunta limitata alla Palestina e poco più) alle immani conquiste militari realizzate dall’Islam nei tre secoli precedenti di territori in parte cristiani come il Nord Africa. O ricordare, per fare un altro esempio, che i massacri compiuti nel 1945 e in seguito dal colonialismo francese in Algeria non hanno avuto certo nulla da invidiare a quelli, ancora più efferati, commessi dalla Turchia mussulmana ai danni dei cristiani in Bulgaria a fine Ottocento.
Il terrorismo islamista e il suo richiamo religioso si nutrono in misura notevole degli autoinganni, dell’ignoranza della realtà storica, delle vere e proprie falsificazioni, che hanno più o meno largo corso nelle società che gli stanno dietro, e che da lì arrivano anche alle comunità islamiche in Europa. È di questi succhi velenosi che si nutre la formazione elementare di molti dei suoi adepti. Se a costoro si riuscisse a svuotare un poco l’acqua in cui nuotano, o a chiarirgli appena un po’ le idee prima che imbraccino un mitra, non sarebbe un risultato da poco.      

Dopo anni di accuse e invettive, le tesi della Fallaci e le battaglie sull'Islam della Le Pen o di Salvini vengono riprese da chi le condannava. Ovviamente cambiando le parole e facendo finta di niente 
Luigi Mascheroni Giornale - Lun, 16/11/2015 


LA COSCIENZA DELL’OCCIDENTE 
EZIO MAURO
L’UOMO che esce di casa venerdì sera per andare allo stadio, in un ristorante o in un teatro non sa di essere braccato da altri uomini che in quel momento stanno stringendosi addosso una cintura di esplosivo, nascondono i fucili in una borsa, nell’altra i mitra e le bombe. Camminano per le strade della stessa città, la vittima inconsapevole e il carnefice che la cerca. Uno esercita la sua libertà nella serata che apre un week-end d’autunno, sapendo che la città dove vive è fatta per lavorare ma anche per il tempo libero, è organizzata con strade, piazze, bar, treni e stazioni per far incontrare la gente, ragazzi e ragazze, amici, richiamati fuori casa dagli appuntamenti di una grande metropoli, ma anche semplicemente dalla voglia di vivere, insieme con gli altri.
È esattamente questo spazio della civiltà europea, questo rito banale della vita quotidiana che diventa bersaglio del fanatismo jihadista. Un costume collettivo, un esercizio minore, quasi inconsapevole ma costante di libertà. Ci attaccano perché siamo liberi, nella nostra autonoma scelta di incontrarci al bar, correre ad un incontro, avere in tasca due biglietti per un concerto: ma anche di riunire i nostri Parlamenti, studiare e lavorare, pregare o non pregare, protestare e dire no, e attraverso questi gesti esercitare il nostro status di cittadini.
CERCANDO così di costruire per i nostri figli un futuro migliore del nostro presente. In questo, i terroristi islamici vedono qualcosa di grandioso e di terribile, la traduzione quotidiana della democrazia, la sua materialità, addirittura la sua capacità di farsi vita. Hanno ragione. Noi non ci accorgiamo nemmeno più degli spazi di autonomia e di libertà che la democrazia ha aperto nella nostra vita associata, diventando costume condiviso e accettato. La democrazia “minore”, quella di cui ci nutriamo ogni giorno nello spazio a noi proprio, fuori dalle istituzioni, è infatti un insieme di garanzie reciproche che ci scambiamo mentre intrecciamo la nostra vita con le vite degli altri, è la forma quotidiana di regola civile che abbiamo dato alla nostra società vivendo, e per cui stiamo oggi morendo.
Nell’epoca in cui non c’è più quel “cuore dello Stato” che le Brigate Rosse cercavano uccidendo Aldo Moro (perché lo Stato nazionale non fronteggia gli urti della globalizzazione, e il potere vive altrove, nei flussi transnazionali della finanza e dell’informazione) gli jihadisti assassini confusamente sanno che qui è custodita l’anima universale che loro vogliono annientare, perché dà vita a ciò che hanno eletto come il loro nemico supremo e finale: la civiltà occidentale, culla, sede e testimonianza della democrazia dei diritti e della democrazia delle istituzioni. Questo è il bersaglio, perché questo è intollerabile, in quanto è l’ultimo universalismo superstite, dunque alternativo, l’unico modello di vita che resiste dopo la morte delle ideologie, e viene liberamente scelto ogni giorno da milioni di uomini e donne, riconfermato nei riti del venerdì sera, a Parigi come altrove. Se è così, non è da oggi che l’Europa è sotto attacco, e non lo è da sola. L’attacco è infatti a quella pratica e a quella testimonianza della democrazia che chiamiamo Occidente, e che tiene insieme in una comunità di destino Europa, Stati Uniti, Israele. Una pratica spesso infedele, ma costante; una testimonianza sovente bugiarda, tuttavia irriducibile e testarda. Per questo sono sempre stato convinto che dire “siamo tutti americani” dopo l’11 settembre fosse troppo facile, e troppo poco. Bisognava avere il coraggio di dire “siamo tutti occidentali”, passando dalla compassione alla condivisione, con il peso della responsabilità che ne consegue, anche per reggere il carico della risposta indispensabile per garantire la sicurezza dei cittadini, fino all’uso della forza militare se necessaria: naturalmente nel rispetto del diritto e della legalità internazionale, perché le democrazie hanno il diritto di difendersi ma hanno il dovere di farlo restando se stesse.
Ecco perché siamo coinvolti dal 13 novembre: perché lo eravamo dall’11 settembre. L’orrore di Parigi ci interpella non perché la Francia è vicina a noi, ma perché ciò che gli jihadisti cercavano al Bataclan lo possono trovare identico nelle notti italiane, nelle abitudini dei nostri week-end, nei riti dei ragazzi, nell’uguale costume di autonomia e di libertà. Certo c’è uno specifico francese, i 1500 islamisti partiti a combattere abiurando la Republique, e cresciuti dell’84 per cento nell’ultimo anno. Ma l’assalto è al nostro modo di essere e di vivere, a quel credo comune che ci rende liberi e che parte dalle piccole regole di convivenza per arrivare alla regola istituzionale, alla Costituzione. Per questo, occorre una coscienza comune dell’Occidente per rispondere alla sfida. Sul piano dell’intelligence soprattutto, sul piano militare se è necessario. Ma prima ancora sul piano culturale. Se l’attacco è alla nostra cultura, dovremmo essere consapevoli che ha un valore, e dovremmo difenderla. La svalutazione quotidiana della democrazia che noi occidentali facciamo nei nostri discorsi e nella nostra pratica, è distruttiva. Il rifiuto di distinguere, la tentazione di fare di ogni erba un fascio, sono cedimenti culturali colpevoli. Il disimpegno da ogni cosa pubblica, la scelta di non partecipare e rimanere ai margini sembra un gesto di ribellione ma è solitudine repubblicana, perché mentre io dico allo Stato che non mi interessa, nemmeno io interesso allo Stato: se l’esercizio dei miei diritti è esclusivamente individuale e non si combina con gli altri, se l’uso della mia facoltà di cittadino è soltanto personale e non esce di casa, lo Stato può infatti ignorarmi, e ridurmi a numero isolato nei sondaggi. La democrazia ha bisogno del cittadino per essere in salute: ne ha tanto più bisogno quando è sotto attacco.
Il patto di cittadinanza dovrà essere riformulato anche con l’Islam moderato che vive da noi, usufruisce delle nostre garanzie democratiche, usa le libertà di culto, di associazione e di espressione in cui noi crediamo per noi stessi e per gli altri: per queste ragioni e per quel che è accaduto oggi deve affermare pubblicamente la sua condanna dell’islamismo terroristico che trasforma una religione in ideologia di morte, deve dichiarare una scelta non equivoca per il quadro di valori e di regole della democrazia, separandosi per sempre dal terrore omicida.
Tutto questo è possibile, a patto di essere consapevoli della sfida e di ciò che noi siamo. I terroristi lo sanno, dovremmo saperlo anche noi. Nel vortice dell’asimmetria che abbiamo visto a Parigi uomini armati in agguato contro uomini in pace - nonostante le nostre colpe storiche e le nostre infedeltà gli “innocenti” eravamo noi occidentali. Dobbiamo ricordarlo per non diventare come loro, cedendo all’intolleranza e all’irrazionale. Ma difendendo un modo di vivere che ha dato forma a una cultura, a una civiltà democratica, a città come Parigi, che per queste ragioni oggi è la vera capitale dell’Occidente.


Dalle Crociate alla spartizione coloniale sono tante le ragioni dell’ostilità di Daesh verso il Vecchio Continente. L’ultima in ordine di tempo i raid contro il Califfato. In un libro dello stratega islamista Abu Bakr al-Naji le regole per destabilizzare attraverso il terrore. “Mirare all’economia”, “polarizzare”, “scatenare il caos”. Un piano già applicato con efficienza spietata in Siria e Iraq
Il manuale clandestino sulla gestione della ferocia
Ecco perché gli estremisti colpiscono l’Occidente
JASON BURKE
 PIÙ di dieci anni fa, uno stratega islamista di nome Abu Bakr al-Naji scrisse un testo destinato a esercitare un’influenza straordinaria all’interno del movimento islamista. È un documento che consente di spiegare non solo la strategia perseguita negli ultimi cinque anni dallo Stato islamico e dai gruppi che lo hanno preceduto, ma anche la nuova predilezione di Daesh (l’acronimo arabo dell’organizzazione) per una campagna di attentati sanguinari in Europa. Il saggio di Abu Bakr al-Naji è quasi sconosciuto al di fuori della cerchia degli addetti ai lavori.
L’Europa non è sempre stata un bersaglio dei militanti islamici. La prima ondata di violenze dell’estremismo islamista, negli Anni ‘80, lasciò quasi indenne l’Occidente. Solo negli Anni ‘90 i problemi del mondo islamico cominciarono a riversarsi sull’Europa. La Francia uno fu uno dei Paesi più pesantemente colpiti, perché la sua ex colonia, l’Algeria, precipitò in una guerra civile terrificante. L’apice arrivò nel 1994-1995, ma il numero di vittime, grazie al cielo, rimase contenuto.
Alla fine del decennio, al-Qaeda lanciò il suo nuovo brand di jihad globale, prendendo di mira il “nemico lontano”, gli Stati Uniti e l’Occidente, invece del «nemico vicino », i regimi locali del Medio Oriente. Il gruppo lanciò una serie di attacchi che culminarono negli attentati dell’11 settembre, che uccisero 3.000 persone. Seguirono gli attentati di Madrid e di Londra.
Lo Stato islamico, invece, è arrivato agli attacchi contro l’Occidente per una strada diversa. Al Qaeda, almeno in quella fase, non cercava di conquistare e conservare un territorio, ma perseguiva una strategia di istigazione, formulata da un uomo, Osama bin Laden, che aveva sempre nutrito interesse per i media e la propaganda.
Daesh non è altrettanto sofisticato nella sua strategia: il suo primo obbiettivo è conquistare territori e risorse fisiche, e i suoi attentati in Europa sono un’estensione del desiderio di rimanere fedele al proprio motto: persisti e allargati.
È qui che entra in gioco l’analisi strategica di Abu Bakr al-Nadji. La sua opera è stata soprannominata “Il management della ferocia” ed è un manuale per la fondazione di uno Stato islamico, e in prospettiva di un nuovo califfato. È stato pubblicato su Internet nel 2004 e continua a costituire un punto di riferimento per gli estremisti. Pare che sia una lettura raccomandata per i comandanti dell’Is.
Il testo descrive tre fasi di una campagna. La prima è la nikaya, in cui forze irregolari conducono una guerra non convenzionale che include tattiche terroristiche per distruggere il controllo delle autorità locali su una certa area. La seconda è il tawahhush, la creazione di una guerra civile
per destabilizzare la zona presa di mira. Infine c’è il tamkin, quando i guerriglieri prendono il controllo della zona e, offrendo a popolazioni disperate una forma approssimativa di sicurezza, riescono a imporre la propria autorità e consolidare una base più durevole.
Lo Stato islamico ha applicato questa strategia con spietata efficienza in Iraq, in Siria e in altri posti. Crea il caos attraverso la violenza e sfrutta ogni spaccatura, ogni tensione sociale in una certa comunità. Fa leva meticolosamente sulle rivalità settarie, etniche, economiche, tribali e di altro genere, per avere l’opportunità di prendere le parti di una fazione contro un’altra. Una volta che la polarizzazione è avvenuta, tutto quello che resta da fare è assicurarsi che la parte con cui si è schierato prevalga.
Ci sono molte ragioni che possono spiegare perché Daesh abbia optato per una strategia più globale, e in particolare perché abbia deciso di colpire l’Europa. C’è la lunga storia di presunta «ostilità» dell’Europa verso l’islam, che nell’immaginazione di Daesh va dalle Crociate alla spartizione coloniale del Medio Oriente, e più in generale del mondo islamico. C’è la tradizione europea di laicismo, libero pensiero, e «libertà di pensiero e immoralità decadenti e corrotte».
L’intervento della Francia accanto alla Gran Bretagna, gli Stati Uniti e alcune potenze arabe nella campagna di bombardamenti in Iraq e in Siria è un’altra ragione. È quella indicata nella dichiarazione diffusa sabato dall’Is. La difficoltà pratica di colpire gli Stati Uniti o gli interessi degli Stati Uniti è evidente: Al Qaeda ci ha provato per un decennio o più senza riuscirci; l’Europa è un obbiettivo meno pregiato, ma più accessibile.
Senza contare che Daesh, in Europa, può contare su una via d’accesso che negli Stati Uniti non ha: le centinaia di veterani che rientrano in patria. Dei 1.500 cittadini francesi che si ritiene siano andati a combattere in Siria e in Iraq, 140 sarebbero morti e circa 250 avrebbero fatto ritorno. Nell’ultimo anno, la polizia e i servizi di sicurezza d’Oltralpe hanno sventato almeno sei piani di attentati che coinvolgevano veterani della guerra siriana. Uno di questi attentati sventati prevedeva di colpire una sala concerti di Tolone, sulla Costa Azzurra.
In Italia la minaccia è minore, ma comunque presente. La settimana scorsa è stata sgominata una rete di militanti curdi, anche se pare che i loro obbiettivi fossero diplomatici inglesi e norvegesi. L’Italia, tra l’altro, ha un ruolo limitato nella campagna di bombardamenti. Il numero di italiani che sono andati in Siria o in Iraq a combattere è una frazione rispetto a francesi, inglesi o tedeschi. Eppure una minaccia rimane. Lo Stato islamico parla di conquistare (o quantomeno attaccare) Roma. Se Parigi probabilmente è l’obbiettivo primario, la possibilità che ci siano attentati in altre parti d’Europa non è da escludere.
Perché quello che l’Is sta cercando di fare è applicare la strategia delineata nel “Management della ferocia” al continente europeo.
Il testo dice ai militanti di estendere i loro attacchi per prosciugare le risorse del nemico, o prendere di mira «direttamente l’economia », perché questo porterà «debolezza economica», determinerà una carenza di quei «piaceri mondani di cui queste società sono assetate», scatenando a sua volta «una competizione per queste cose» e «disparità sociali che innescheranno contrapposizioni politiche e disunità in tutti gli strati della società».
Tutto questo contribuirà a creare l’elemento essenziale della frammentazione. «Quando si applica la ferocia, comincia a emergere una polarizzazione spontanea fra le persone che vivono nella regione in preda al caos», dice; e questo, unitamente al collasso dell’economia, mette Daesh nelle condizioni di espandersi nell’area presa di mira.
È questa la visione alla base della campagna scatenata contro l’Europa. Sta a tutti gli europei, ora, dimostrare che Daesh si sbaglia e che non ci sarà nessun collasso dell’economia, nessuna polarizzazione e nessuna guerra fra settori della società.

La guerra diventata routine nel nostro 11 settembre globale 
KAMEL DAOUD Repubblica 16 11 2015
Che cosa dire? La notizia mi è caduta tra capo e collo, di notte, a Brooklyn. Una paura nera, soffocante, secca. Perché sono algerino e so che cosa significa una guerra: la rovina dell’essere umano, la rottura, il trionfo degli accecamenti. Qualcosa che vedo delinearsi da anni nel cuore della gente per ucciderla. Perciò mi sono sentito braccato, con le spalle al muro, come se avessi la peste per la mia geografia: ero tra la gente che uccide e la gente che viene assassinata. A che cosa poteva servire ormai gente come me in tempo di guerra aperta? Il mio primo pensiero, dopo lo shock per i morti, è stato per la nazionalità dei kamikaze. Perché oggi il kamikaze uccide le sue vittime ma anche il suo paese d’origine.
La cosa più difficile era reagire. E non restava niente di sensato da dire. Le condoglianze sono trite e proclamare la propria indignazione era insufficiente, banale, come stringere la mano a un morto. L’umanità non aveva la mia pelle e il barbaro aveva i miei tratti. Tutta la tragedia dell’ostaggio. Ero un uomo bruno tra due rive, venditore di una visione del mondo che smentiva la deflagrazione. Quel grido l’avrei sentito spesso e mi terrorizzava, «Allah u akbar», Dio è grande. E adesso rimbombava di nuovo nella bocca degli assassini per far rattrappire il mondo portando con sé accuse, razzismi, diffidenza, insulti e cadaveri.
«Dio è grande» ti fa sentire piccolo e presagisce la morte, non l’estasi davanti a una divinità. Che cosa dire a quel paese che non abbia già sentito e che ormai non stenti a credere, nonostante i suoi uomini di buona volontà: che l’islam non è l’islamismo? Che i terroristi uccidono me quanto uccidono voi? Che uccidono più musulmani che occidentali (come per consolare confrontando i cimiteri)? Che non bisogna assomigliare agli assassini uccidendo la tolleranza e la benevolenza? Ma come parlare a gente che ha perso la ragione per la paura e per il dolore?
L’11 settembre universale ormai dura da un decennio e passa dall’aereo caduto alla guerra aperta. A New York, nell’ambiente dei giornalisti mi ha colpito la sorda routine della reazione dopo gli attentati di Parigi. Tutti si sono precipitati, hanno scritto, commentato, ma “a vuoto”, nella disarticolazione della stanchezza: come se l’indignazione o il grido non potessero più raggiungere i fatti. Come se non ci fosse niente da aggiungere alla fine del mondo, alla fine della frase. Tutto è già stato detto. La guerra è diventata routine.
Che cosa pensare? Prima di tutto la paura. Perché non c’è niente di peggio e di più inesorabile dell’effetto farfalla dell’attentato: si pensa alla propria pelle e a quelli che hanno la pelle dello stesso colore e che “pagheranno” per gli attentati in Francia e in Occidente: immigrati, rifugiati, espatriati, eccetera. Daesh ha colpito la Francia per ciò che essa rappresenta: la sua laicità e la sua diversità. Daesh sa che bisognava colpire precisamente lì per provocare conseguenze di rigetto, razzismo, isteria e la montata degli estremismi. Tutto grasso che cola per i futuri reclutamenti: il mostro si nutre di spaccature e di vecchi testi messianici. Un libro, un deserto, uno scopo. La serie di attentati non poteva avere senso se non colpiva il paese che ospita la più grande comunità musulmana d’Europa. Questo apre le porte al peggio. La Francia è ricca e fragile per le sue diversità. E quelle diversità soffriranno. La gente si chiuderà ancora di più. E Daesh finirà per aver ragione.
Poi gli attacchi portano i segni dell’organizzazione e della pazienza di uno Stato. Lo Stato islamico o un altro Stato canaglia che reagisce a pressioni internazionali diventate intollerabili. Si passa da «Assad deve andarsene» a «Hollande deve andarsene », dicono i sospettosi. Questo attacco è una cuccagna per i diavoli del mondo. Così la Francia è spinta a optare per una guerra interna contro i suoi, in nome dei suoi, per credere di difendersi. Gli attentati hanno ucciso 132 persone ma ne uccideranno di più, altrove, con un’Europa che chiuderà le porte ai rifugiati. Barricarsi dentro e sorvegliare il rumore dei passi attorno al proprio continente. Il ciclo nutrirà gli esclusi del mondo, gli islamismi rampanti tra la mia gente, e provocherà la guerra. Perché è in arrivo una guerra, è quasi inevitabile: al nord si fatica a capire come il sud sprofondi nella sinistra utopia di Daesh. Non è più uno Stato fantasmatico, ma un sogno di potenza e di vendetta che consuma intere generazioni. Dirlo così, brutalmente, irrita le persone di buona volontà che nella mia geografia lottano contro il Mostro, ma è una battaglia che stiamo perdendo. Semplicemente evitiamo di confessarcelo.
Che cosa fare degli islamisti o di fronte agli islamisti? È la vecchia domanda di un secolo troppo giovane. L’islamismo è un fascismo. La sua visione si basa su una presunzione mondiale, un totalitarismo subdolo e uno stratagemma di guerra: non può essere moderato, può solo essere paziente. Corrode l’umanità in nome di una religione, ma la religione è soltanto un mezzo. Non difende Dio: vuole sostituirlo. Che cosa fare, allora? Ucciderlo non fa che dargli ragione. Ha la meccanica del martire: più lo si uccide, più è eterno e più ha ragione. In certi casi la guerra al terrorismo è terrorismo a sua volta. È necessaria ma insufficiente. L’idea è di sradicare il terrorista oggi ma non può essere una vittoria se non gli si impedisce di rinascere domani. Perché non si nasce jihadisti. Jihadisti si diventa a forza di libri, di canali televisivi, di moschee, di disperazioni, di frustrazioni. Tutto viene da una matrice, da un paese, da un regno: non serve a niente lottare contro il Daesh straccione in Siria e stringere la mano al Daesh ben vestito dell’Arabia Saudita.
L’idea è di non fare il gioco degli islamisti, non nutrirli, ma soprattutto non lasciarli venire al mondo per ucciderci. L’idea di chiudere la Francia ai suoi cittadini o al resto del mondo è un riflesso previsto, ma non è quello giusto. Non c’è una zona offshore di fronte a questo fascismo e chiudere gli occhi non equivale a spegnere il fuoco. Ci sono solo impegni, umani, e chiusure. Daesh uccide, rompe, esclude, terrorizza, mente, approfitta, recluta la disperazione, separa e disumanizza. Bisogna sradicarlo dappertutto ma senza assomigliargli, in Francia o altrove. Possiamo farlo? A volte ne dubito, ma ho anche dei figli e quindi un dovere.


Denunciamo chi interpreta l’islam come violenza” 
FABIO GAMBARO PARIGI Repubblica 16.11.15
«Se ancora una volta la Francia è attaccata dal terrorismo islamico, significa che i nostri valori di libertà, uguaglianza e fratellanza esistono davvero e hanno un senso. Sono valori insopportabili per i terroristi, i quali vorrebbero annientare la democrazia e la laicità». Marc Augé è in collera. Il celebre antropologo, di solito molto misurato, non nasconde l’emozione di fronte ai massacri parigini. «Gli attacchi dell’altra sera esprimono una violenza indiscrimanata», spiega, «ricordano la violenza dei bombardamenti che colpiscono alla cieca, cercando di uccidere il maggior numero di persone. Sono atti di guerra che mirano a scatenare un terrore indiscriminato e generalizzato».
I luoghi scelti per i massacri hanno un significato?
«C’è effettivamente una simbologia negli obiettivi scelti dai terroristi. Attaccando lo stadio, una sala da concerto e i ristoranti volevano colpire il nostro modo di vivere, la nostra civiltà e la nostra libertà. Volevano distruggere la società dello spettacolo, del piacere e del tempo libero. Ma volevano anche trasmettere la gratuità di una violenza irrazionale che può colpisce chiunque e ovunque senza alcuna ragione. Speravano di moltiplicare il terrore e l’effetto paralizzante della loro azione».
Negli ultimi anni, la Francia è intervenuta in paesi lontani, dal Mali alla Siria. Ora la guerra le è piombata in casa...
«La Francia è in prima linea contro la follia dell’estremismo islamico. E si trova coinvolta nella guerra mondiale scatenata dai terroristi dell’Is. I fanatici della jihad però non nascono dal nulla. Dietro di loro c’è un’organizzazione, delle reti d’influenza, del denaro. E c’è una genealogia storica, politica e ideologica che occorre denunciare. Oggi riceviamo le condoglianze dell’Iran e dell’Arabia Saudita, due paesi che hanno a lungo finanziato e alimentato direttamente o indirettamente forme di terrorismo. Dovremmo rivedere le nostre relazioni diplomatiche con questi paesi. La realpolitik ha certo le sue giustificazioni, ma deve anche porsi dei limiti. Come pure dovremmo riflettere di più sulla dimensione religiosa di questa violenza, che di solito cerchiamo di minimizzare».
Cosa intende dire?
«Quando cerchiamo le cause di questa follia terrorista, parliamo sempre d’estremismo tendendo ad escludere o a minimizzare il movente religioso. Cerchiamo di distinguere la religione “buona” dalla sua lettura “cattiva”. Tutto ciò è vero, ma sono un po’ stanco di questo discorso. Occorre avere il coraggio di dire che nella religione c’è probabilmente qualcosa che autorizza questa violenza. Chi invoca la jihad fa parte di un movimento che vuole imporre la sua fede al mondo intero. E non appena una religione monoteista pratica il proselitismo diventa pericolosa. Come è accaduto per il cristianesimo durante l’epoca coloniale».
Vuol dire che si deve essere più fermi e vigili nei confronti di una certa lettura dell’islam?
«Bisogna evitare di trasformare una comunità religiosa in un capro espiatorio e in particolare non bisogna attribuire la responsabilità di simili atti ai singoli musulmani. Ma non si può ignorare che questa violenza cerca una giustificazione in alcune interpretazioni dell’islam, che vanno denunciate come gli Stati che le difendono in maniera diretta o indiretta ».
La Francia deve cambiare la sua politica d’impegno militare all’estero?
«Assolutamente no. La Francia ha fatto bene a intervenire, soprattutto in Africa, perché altrimenti un paese come il Mali sarebbe caduto nelle mani degli integralisti alleati dell’Is. Queste operazioni sono complicate e rese più ambigue dal nostro passato coloniale. Ma non sarà capitolando che vinceremo il terrorismo e l’orrore. Dobbiamo mantenere le nostre posizioni e i nostri impegni. Ad esempio, non sono d’accordo con chi ha proposto di annullare la conferenza internazionale sul clima che deve aprirsi tra poco a Parigi. Rinunciare sarebbe una sconfitta che alimenterebbe altre azioni di questo tipo».
Alcuni osservatori sostengono che questi attentati spianeranno la strada al Fronte Nazionale e alla sua politica aggressiva nei confronti dei musulmani e dell’immigrazione. Che ne pensa?
«Non ne sono sicuro. Certo c’è il pericolo di un successo del Fronte Nazionale, ma forse si può anche immaginare una reazione più democratica. Un’eventuale vittoria di Marine Le Pen sarebbe in realtà una vittoria dei terroristi, perché significherebbe che sono riusciti nell’intento di destabilizzare il paese. Spero che i francesi ne abbiano coscienza. Abbandonarsi alla politica della paura incarnata dal Fronte Nazionale sarebbe una sconfitta della democrazia. Che è esattamente ciò che auspicano gli uomini della jihad. Dalla collera che proviamo di fronte ai massacri di Parigi dobbiamo trarre la volontà di ribadire con forza i valori e i principi che difendiamo. La miglior risposta agli assassini sta nel riaffermare la democrazia che sola può difenderci dalla barbarie terrorista».

Il bersaglio perfetto del culto della morte 
IAN MCEWAN Repubblica 16.11.15
Il culto della morte ha scelto bene la sua città — Parigi, capitale laica del mondo, metropoli tra le più ospitali, eterogenee e affascinanti mai concepite. Il culto della morte ha scelto i suoi bersagli in questa città con accuratezza macabra e che si condanna da sola — tutto ciò che esecravano si trovava proprio lì davanti ai loro occhi in quella lieta serata di venerdì: uomini e donne tranquillamente insieme, vino, libero pensiero, risate, tolleranza, musica scatenata e satirica — rock and blues.
I seguaci del culto della morte sono arrivati armati di feroce nichilismo e di un odio che va al di là della nostra comprensione. Come corazza di protezione una cintura esplosiva, la loro idea di nascondiglio definitivo un aldilà virtuoso, dove la polizia non può arrivare. (Il paradiso dei jihadisti si sta rivelando una delle peggiori idee mai concepite dal genere umano; massacrare e bruciare in questa vita, l’eterno riposo in mezzo alla pacchianeria in quella successiva).
Parigi, frastornata e sommessa, si è svegliata e ha riflettuto sulle sue mutate circostanze. Quelli tra noi che l’altra sera erano fuori in città non hanno potuto che stupirsi dei capricci del caso, che lascia noi vivi e morti gli altri. Quando è iniziata la carneficina, mia moglie e io ci trovavamo in una veneranda istituzione parigina, lo stereotipo della bella vita senza pretese fin dal 1845. In quell’affascinante ristorante del Sesto arrondissement, ci si siede a tavole gremite di persone, in compagnia di estranei benintenzionati, visitatori e residenti locali in amichevole fusione. Con i nostri pouilly- fumé e filets d’hareng saremmo stati bersagli buoni come qualsiasi altro. Il culto della morte ha preferito l’Undicesimo e il Decimo arrondissement, appena un chilometro e mezzo più in là, e non ci siamo accorti di niente.
Oggi sappiamo. Quali sono adesso le mutate circostanze? La sicurezza sarà inasprita e Parigi dovrà diventare un po’ meno affascinante. La tensione cruciale tra sicurezza e libertà resterà una sfida. Le pallottole e le bombe del culto della morte torneranno, qui o da qualche altra parte, possiamo esserne certi. Gli abitanti di Londra, New York e Berlino vi prestano grande e inquieta attenzione. A gennaio eravamo tutti Charlie Hebdo. Oggi siamo tutti parigini e in un momento così cupo questo, quanto meno, è motivo d’orgoglio.

IL RUOLO DELL’ITALIA NELLA GUERRA NUOVA (MA SENZA RETORICA) 
STEFANO FOLLI
ALL’IMPROVVISO sembrano remoti e incomprensibili i battibecchi sull’Italicum e sul caso De Luca in Campania, che pure erano quasi il crocevia irrinunciabile della politica. A Parigi la storia ha fatto uno di quei salti che cambiano lo scenario forse per sempre. Tanto che i governi e i Parlamenti ne sono sopraffatti e faticano a trovare delle categorie culturali e un linguaggio idonei a descrivere la nuova realtà. La ricerca non è semplice né rapida, in Italia come nelle altre nazioni europee. Prevale inevitabilmente un certo grado di retorica e poi c’è la forza dell’abitudine: si va nei salotti televisivi a litigare per racimolare qualche voto in più presso chi ascolta. Ma intorno tutto è cambiato.
Ha ragione il presidente del Consiglio quando chiede a tutti senso di responsabilità e incontra i rappresentanti della maggioranza e dell’opposizione. Ma al tempo stesso questa evocazione della solidarietà nazionale dovrebbe, per essere credibile, rispondere almeno al quesito che poneva ieri Eugenio Scalfari: «Poiché bisogna sgominare l’Is e i suoi capi, qual è la guerra che dobbiamo fare e vincere?». È una domanda ancora senza risposta, ma il solo porla incrina i tabù consolatori in cui la politica di ogni colore ha vissuto per decenni. Peraltro, il senso di responsabilità che viene invocato può essere paragonato solo in parte al precedente storico degli “anni di piombo”, all’indomani del rapimento di Aldo Moro e della strage della sua scorta. Allora si creò un “fronte interno”, non privo di contraddizioni, che sopportò l’urto del terrorismo brigatista. Ma quello era un avversario meno inafferrabile rispetto a oggi, più dentro i canoni eversivi classici e quindi tale da essere sgominato con strumenti di indagine e di “intelligence” tradizionali. Viceversa, in questo malinconico autunno i temi della solidarietà e della responsabilità vanno riempiti di contenuti inediti per non apparire stantii sullo sfondo dell’Europa attonita. Altrimenti il risultato è quello che vediamo in queste ore. In Francia Marine Le Pen si è affrettata a sospendere la campagna elettorale, evitando almeno per ora polemiche dirette contro il governo di Hollande. In Italia il suo emulo Salvini è invece sempre in televisione per attaccare il ministro dell’Interno e un po’ tutti i cosiddetti “buonisti”. La differenza è che la Le Pen pensa di vincere le prossime elezioni presidenziali. Invece in Italia i leghisti puntano solo a guadagnare qualche punto percentuale restando nel recinto dell’opposizione, così da avere carte migliori da spendere al tavolo con Berlusconi. È una prospettiva del tutto diversa.
Quanto ai Cinque Stelle, di fronte alle grandi tragedie internazionali non hanno mai granché da dire. Oscillano fra il silenzio e il ricorso al repertorio del complottismo più ridicolo. Perciò, anche ammesso che si crei presto o tardi nel Paese un clima di solidarietà nazionale, non si capisce quale contributo verrà da loro, che pure rappresentano oggi la più importante forza d’opposizione. Ne deriva che, al netto della retorica, la questione di come reagire all’Is è tutta nel campo della maggioranza e dunque del governo.
Ieri il presidente della Repubblica, ricordando la povera Valeria Solesin, ha assicurato che «insieme a tanti Paesi amici risponderemo con intransigenza a questa micidiale sfida». Dove il richiamo all’”intransigenza” si accompagna alla necessità di coordinare ogni azione con il complesso dei “Paesi amici”. E del resto, nel momento in cui la Francia parla di “guerra totale” allo Stato islamico, è difficile credere che il governo di Roma possa o voglia sottrarsi agli impegni multilaterali. Certo, il punto di partenza non è esaltante. L’Italia è tendenzialmente esclusa dai tavoli in cui si discutono - pur senza decidere, di solito - questioni che pure la riguardano da vicino, come l’immigrazione. Qualche settimana fa sembrava che l’impiego di quattro bombardieri sui cieli dell’Iraq fosse il biglietto d’ingresso per essere ammessi in questo club europeo più ristretto. Ma poi non se ne è saputo più niente.
La verità è che la guerra ai terroristi fatta sul serio implica una serie di conseguenze anche dolorose. Quasi sempre si tratta di assumere una linea impopolare, talvolta nel solco di un implicito stato d’emergenza e tale da comportare persino la restrizione temporanea di qualche spazio di libertà. Una simile linea non è fatta per guadagnare voti, come possono invece sperare i populisti all’opposizione. E inoltre una guerra di tipo nuovo comporta forti spese per la difesa, per l’”intelligence”, per i controlli capillari di ordine pubblico. Il bilancio statale forse va rivisto, le priorità riconsiderate. La campana di Parigi suona per tutti e a tutti richiede maturità.


La tattica Il manuale clandestino sulla gestione della ferocia Ecco perché gli estremisti colpiscono l’Occidente

Dalle Crociate alla spartizione coloniale sono tante le ragioni dell’ostilità di Daesh verso il Vecchio Continente. L’ultima in ordine di tempo i raid contro il Califfato. In un libro dello stratega islamista Abu Bakr al-Naji le regole per destabilizzare attraverso il terrore. “Mirare all’economia”, “polarizzare”, “scatenare il caos”. Un piano già applicato con efficienza spietata in Siria e Iraq

JASON BURKE Corriere 16.11.15
PIÙ di dieci anni fa, uno stratega islamista di nome Abu Bakr al-Naji scrisse un testo destinato a esercitare un’influenza straordinaria all’interno del movimento islamista. È un documento che consente di spiegare non solo la strategia perseguita negli ultimi cinque anni dallo Stato islamico e dai gruppi che lo hanno preceduto, ma anche la nuova predilezione di Daesh (l’acronimo arabo dell’organizzazione) per una campagna di attentati sanguinari in Europa. Il saggio di Abu Bakr al-Naji è quasi sconosciuto al di fuori della cerchia degli addetti ai lavori.
L’Europa non è sempre stata un bersaglio dei militanti islamici. La prima ondata di violenze dell’estremismo islamista, negli Anni ‘80, lasciò quasi indenne l’Occidente. Solo negli Anni ‘90 i problemi del mondo islamico cominciarono a riversarsi sull’Europa. La Francia uno fu uno dei Paesi più pesantemente colpiti, perché la sua ex colonia, l’Algeria, precipitò in una guerra civile terrificante. L’apice arrivò nel 1994-1995, ma il numero di vittime, grazie al cielo, rimase contenuto.
Alla fine del decennio, al-Qaeda lanciò il suo nuovo brand di jihad globale, prendendo di mira il “nemico lontano”, gli Stati Uniti e l’Occidente, invece del «nemico vicino », i regimi locali del Medio Oriente. Il gruppo lanciò una serie di attacchi che culminarono negli attentati dell’11 settembre, che uccisero 3.000 persone. Seguirono gli attentati di Madrid e di Londra.
Lo Stato islamico, invece, è arrivato agli attacchi contro l’Occidente per una strada diversa. Al Qaeda, almeno in quella fase, non cercava di conquistare e conservare un territorio, ma perseguiva una strategia di istigazione, formulata da un uomo, Osama bin Laden, che aveva sempre nutrito interesse per i media e la propaganda.
Daesh non è altrettanto sofisticato nella sua strategia: il suo primo obbiettivo è conquistare territori e risorse fisiche, e i suoi attentati in Europa sono un’estensione del desiderio di rimanere fedele al proprio motto: persisti e allargati.
È qui che entra in gioco l’analisi strategica di Abu Bakr al-Nadji. La sua opera è stata soprannominata “Il management della ferocia” ed è un manuale per la fondazione di uno Stato islamico, e in prospettiva di un nuovo califfato. È stato pubblicato su Internet nel 2004 e continua a costituire un punto di riferimento per gli estremisti. Pare che sia una lettura raccomandata per i comandanti dell’Is.
Il testo descrive tre fasi di una campagna. La prima è la nikaya, in cui forze irregolari conducono una guerra non convenzionale che include tattiche terroristiche per distruggere il controllo delle autorità locali su una certa area. La seconda è il tawahhush, la creazione di una guerra civile
per destabilizzare la zona presa di mira. Infine c’è il tamkin, quando i guerriglieri prendono il controllo della zona e, offrendo a popolazioni disperate una forma approssimativa di sicurezza, riescono a imporre la propria autorità e consolidare una base più durevole.
Lo Stato islamico ha applicato questa strategia con spietata efficienza in Iraq, in Siria e in altri posti. Crea il caos attraverso la violenza e sfrutta ogni spaccatura, ogni tensione sociale in una certa comunità. Fa leva meticolosamente sulle rivalità settarie, etniche, economiche, tribali e di altro genere, per avere l’opportunità di prendere le parti di una fazione contro un’altra. Una volta che la polarizzazione è avvenuta, tutto quello che resta da fare è assicurarsi che la parte con cui si è schierato prevalga.
Ci sono molte ragioni che possono spiegare perché Daesh abbia optato per una strategia più globale, e in particolare perché abbia deciso di colpire l’Europa. C’è la lunga storia di presunta «ostilità» dell’Europa verso l’islam, che nell’immaginazione di Daesh va dalle Crociate alla spartizione coloniale del Medio Oriente, e più in generale del mondo islamico. C’è la tradizione europea di laicismo, libero pensiero, e «libertà di pensiero e immoralità decadenti e corrotte».
L’intervento della Francia accanto alla Gran Bretagna, gli Stati Uniti e alcune potenze arabe nella campagna di bombardamenti in Iraq e in Siria è un’altra ragione. È quella indicata nella dichiarazione diffusa sabato dall’Is. La difficoltà pratica di colpire gli Stati Uniti o gli interessi degli Stati Uniti è evidente: Al Qaeda ci ha provato per un decennio o più senza riuscirci; l’Europa è un obbiettivo meno pregiato, ma più accessibile.
Senza contare che Daesh, in Europa, può contare su una via d’accesso che negli Stati Uniti non ha: le centinaia di veterani che rientrano in patria. Dei 1.500 cittadini francesi che si ritiene siano andati a combattere in Siria e in Iraq, 140 sarebbero morti e circa 250 avrebbero fatto ritorno. Nell’ultimo anno, la polizia e i servizi di sicurezza d’Oltralpe hanno sventato almeno sei piani di attentati che coinvolgevano veterani della guerra siriana. Uno di questi attentati sventati prevedeva di colpire una sala concerti di Tolone, sulla Costa Azzurra.
In Italia la minaccia è minore, ma comunque presente. La settimana scorsa è stata sgominata una rete di militanti curdi, anche se pare che i loro obbiettivi fossero diplomatici inglesi e norvegesi. L’Italia, tra l’altro, ha un ruolo limitato nella campagna di bombardamenti. Il numero di italiani che sono andati in Siria o in Iraq a combattere è una frazione rispetto a francesi, inglesi o tedeschi. Eppure una minaccia rimane. Lo Stato islamico parla di conquistare (o quantomeno attaccare) Roma. Se Parigi probabilmente è l’obbiettivo primario, la possibilità che ci siano attentati in altre parti d’Europa non è da escludere.
Perché quello che l’Is sta cercando di fare è applicare la strategia delineata nel “Management della ferocia” al continente europeo.
Il testo dice ai militanti di estendere i loro attacchi per prosciugare le risorse del nemico, o prendere di mira «direttamente l’economia », perché questo porterà «debolezza economica», determinerà una carenza di quei «piaceri mondani di cui queste società sono assetate», scatenando a sua volta «una competizione per queste cose» e «disparità sociali che innescheranno contrapposizioni politiche e disunità in tutti gli strati della società».
Tutto questo contribuirà a creare l’elemento essenziale della frammentazione. «Quando si applica la ferocia, comincia a emergere una polarizzazione spontanea fra le persone che vivono nella regione in preda al caos», dice; e questo, unitamente al collasso dell’economia, mette Daesh nelle condizioni di espandersi nell’area presa di mira.
È questa la visione alla base della campagna scatenata contro l’Europa. Sta a tutti gli europei, ora, dimostrare che Daesh si sbaglia e che non ci sarà nessun collasso dell’economia, nessuna polarizzazione e nessuna guerra fra settori della società.

Le crisi mediorientali e il parallelo con l’Europa prima della pace 
BERNARD GUETTA Corriere 16.11.15
NON hanno suscitato altro che la riprovazione universale. Per la loro efferatezza, per la volontà di uccidere per uccidere, gli attentati di Parigi sono brutalmente tornati a riproporre la domanda su chi vuole cosa, e perché, in Medio Oriente, su quale sia la posta in gioco per un mondo le cui convulsioni proiettano schizzi di sangue fino in Europa.
Tentativo di risposta, quindi, in cinque punti e un appello.
Così come la cristianità è plurale, l’islam non è uno solo ma ce ne sono diversi. La lista sarebbe lunga ma le due grandi correnti musulmane, quelle coinvolte in Medio Oriente, sono lo scisma minoritario, quello che l’Iran, la vecchia Persia, ha adottato per differenziarsi dagli Arabi, e il sunnismo, il cui capofila è oggi l’Arabia saudita. Per i sunniti, gli sciiti sono degli eretici. Per gli sciiti, protestanti dell’islam e maestri dell’arte di discutere e interpretare i testi, i sunniti sono dei primitivi capaci solo di ripetere stentatamente il Corano e applicarlo alla lettera.
Tra questi due islam l’antagonismo è profondo come quello che in Europa divise cattolici e protestanti e, come nell’Europa di ieri, veste le rivalità per il potere. La vecchia Persia non ha mai perdonato agli arabi la distruzione del suo impero. L’Iran vuole riprendere il predominio sulla regione che gli è stato sottratto oltre un millennio fa. L’Arabia ormai saudita non intende lasciarsi defraudare del vantaggio acquisito allora e dagli anni ‘80 l’antagonismo è stato violentemente ravvivato dalla rivoluzione iraniana e dalla fine della guerra fredda.
Per gli iraniani, le monarchie petrolifere sono arcaiche, corrotte e vili come il regime imperiale che hanno rovesciato.
Per le monarchie del Golfo, la Repubblica islamica è più pericolosa e sovversiva di quanto non fosse il comunismo contro cui avevano fatto fronte comune insieme allo Scià, sotto l’egida degli Stati Uniti.
Questo è il primo punto, la radice di tutto. Il secondo è che, dopo la rivoluzione, l’Iran sciita ha saputo proiettarsi nel mondo arabo- sunnita ritagliandosi un corridoio che arriva fino alla frontiera settentrionale di Israele. Prima ha stretto un’alleanza privilegiata con la Siria, paese la cui popolazione è per oltre il 60% sunnita ma i cui dirigenti, la famiglia Assad, appartengono alla minoranza alauita, una branca dello sciismo.
Questa alleanza è solo accessoriamente religiosa. Si basa innanzi tutto su interessi convergenti in quanto permetterebbe ai siriani di affermare le loro pretese sul Libano, che considerano di loro appartenenza, e agli iraniani di avere un accesso diretto a quello stesso Libano dove gli sciiti, per tanto tempo relegati in secondo piano dai sunniti e dai cristiani, aspiravano a conquistare il posto cui gli dava diritto il loro progresso demografico.
È così che, terzo punto, gli iraniani sono diventati imprescindibili in Libano creandovi Hezbollah, la potente organizzazione politico- militare grazie alla quale gli sciiti libanesi sono diventati la prima forza politica del Paese. Ed è sempre così che l’Iran ha potuto far intervenire le truppe di Hezbollah in Siria quando le rivoluzioni arabe hanno suscitato contro Bashar al-Assad un’insurrezione democratica in cui i sunniti maggioritari erano naturalmente predominanti.
Dopodiché la Siria, quarto punto, non poteva che diventare un terreno di scontro irano- saudita. Con il rischio di perdere il suo corridoio in terre sunnite, l’Iran non poteva lasciar crollare il regime siriano. L’Arabia saudita, viceversa, non poteva lasciarsi sfuggire l’occasione di respingere l’Iran nelle sue frontiere, tanto più che l’intervento americano a Bagdad aveva offerto la guida dell’Iraq alla sua maggioranza sciita, mettendo così il paese nell’orbita iraniana.
Benché non apprezzi affatto la democrazia, la dinastia saudita ha preso le difese dell’insurrezione siriana mentre l’Iran accorreva in soccorso della dinastia Assad. Proprio come la Turchia, anch’essa sunnita, l’Arabia saudita aveva inizialmente sostenuto lo Stato islamico dell’Iraq e del Levante, Daesh, perché quell’organizzazione è prima di tutto un’alleanza tra due forze sunnite — i più fanatici degli islamisti siriani, liberati di prigione da Assad per fare da contrappeso all’insurrezione democratica, e vecchi ufficiali iracheni di Saddam Hussein, assolutamente non islamisti e assai poco musulmani ma radiati dai quadri dell’esercito iracheno perché sunniti.
L’Arabia saudita e la Turchia hanno rotto con Daesh quando si sono rese conto di essere anch’esse minacciate dal movimento proprio come il regime siriano.
I paesi sunniti sono oggi parte integrante della coalizione arabo-occidentale costituita per combattere Daesh per via aerea, ma la battaglia contro quel mostro sarà lunga perché ormai il mostro è diventato autonomo.
Alla testa di un immenso territorio siro-iracheno di cui vorrebbe fare un nuovo Stato sunnita a cavallo tra Iraq e Siria, Daesh ormai si è armato fino ai denti razziando i depositi degli eserciti siriano e iracheno e si è assicurato un tesoro di guerra grazie al contrabbando di petrolio e alle tasse che preleva nelle regioni che controlla e che dissangua. Oltretutto Daesh si è fatto scudo delle popolazioni urbane in seno alle quali i suoi combattenti si sono mescolati. Per queste tre ragioni è così difficile spezzare il movimento Daesh, ma se ha colpito consecutivamente la Russia, Hezbollah e la Francia, se esporta il terrore al di fuori dei suoi territori, è perché, militarmente e diplomaticamente, è stretto in una morsa.
Lo sforzo coordinato dei miliziani curdi e della coalizione arabo-occidentale gli impedisce di circolare tra le città che si è aggiudicato e frammenta lo Stato che cominciava a costruirsi. E soprattutto la recente volontà delle grandi potenze e dei Paesi della regione di cercare di raggiungere un compromesso sulla Siria minaccia Daesh che potrebbe ritrovarsi da solo contro il resto del mondo.
Alla luce di queste considerazioni, gli attentati di Parigi possono essere visti come un segno del panico che si impossessa di Daesh, purtroppo non come l’ultimo dei suoi crimini ma come uno degli ultimi. Daesh può essere ridotto nei dodici o quindici mesi a venire, a patto che russi e iraniani rendano davvero possibile un compromesso sulla Siria arrivando a estromettere Bashar al-Assad.
Non è più un’ipotesi esclusa ma non ci siamo ancora, e quand’anche ci arrivassimo, nel complicato Oriente resterebbero comunque molte questioni da sistemare.
Il conflitto israelo-palestinese è in un vicolo cieco. La gerontocrazia saudita ricorda sempre più quella dell’Urss morente. Lo Yemen è a ferro e fuoco. La battaglia politica tra conservatori e riformatori iraniani resta incerta e l’affermazione di Kurdistan autonomi in Iraq e in Siria rischia di riattizzare la questione curda in Turchia.
Il Medio Oriente è l’Europa di una volta, quella che precedeva la democrazia e la così fragile Unione di oggi.
Né i barbari né la complessità del Medio Oriente sono più grandi di quelli che così poco tempo fa erano i nostri.

Gilles Kepel, massimo studioso del radicalismo islamico sin dai primi anni Ottanta: «Sui social islamici reazioni fredde. Nulla a che vedere con la strage a Charlie Hebdo» 
Lorenzo Cremonesi, Corriere della Sera • 16 nov 15 
Isis vuole lo scontro frontale per la conquista dell’Europa. Non mi stupisce che possa aver lasciato un finto passaporto di immigrato siriano sui luoghi dei massacri di Parigi. Sa bene che ciò scatenerà i gruppi xenofobi della destra europea contro i migranti e contro il mondo islamico tout court. Per reazione, diversi settori tra i moderati musulmani saranno quindi spinti nelle braccia dei gruppi radicali, avvicinando la battaglia finale. È la stessa logica del tanto peggio tanto meglio che ha visto Bashar al Assad favorire Isis contro i gruppi moderati delle proteste nel 2011, o tra le due Guerre mondiali i comunisti guardare di buon occhio a nazisti e fascisti in quanto utili per far esplodere le contraddizioni del capitalismo e avvicinare lo scoppio della rivoluzione».
Con il consueto fare lucido e disincantato il professor Gilles Kepel analizza gli attentati nella capitale francese. La sua lunga esperienza di massimo studioso del radicalismo islamico sin dai primi anni Ottanta, sia in Medio Oriente che in Europa, lo spinge ora a guardare con attenzione al retaggio delle vicende coloniali algerine e all’estremismo di ritorno tra i figli degli immigrati in Francia. Un fenomeno che lui e i suoi studenti alla facoltà di Scienze Politiche definiscono «rétro-coloniale» e su cui sta scrivendo un libro.
Professore, la polizia francese ha identificato tra i terroristi il 29enne Omar Ismail Mostefai. Cosa le suggerisce?
«Mostefai è nato in Francia, figlio di immigrati algerini, noto per un passato costellato di piccoli crimini, da un paio d’anni era in contatto con i circoli radicali islamici. Le notizie su di lui sono già sui media. Ma è interessante notare che egli è il tipico rappresentante di questi franco-algerini di seconda, terza o quarta generazione, spesso disoccupati, poco scolarizzati, abituati a vivere di espedienti ai margini. Come lui sono stati tanti altri coinvolti in violenze, aggressioni e terrorismo negli ultimi tempi: quello che ha provato l’attentato al treno, quell’altro ad attaccare il padrone dell’azienda dove lavora, un terzo che aggredisce nei luoghi ebraici per farsi notare dai capi di Isis in Siria. Gli stessi aggressori di Charlie Hebdo in gennaio avevano nelle loro vicende personali rapporti più o meno diretti con la comunità e la storia algerine».
Erano prevedibili questi attentati?
«Erano stati previsti. La polizia, gli esperti, le autorità competenti li ritenevano inevitabili. Ma si pensava sarebbero stati sferrati al momento del summit Onu pianificato a Parigi a fine mese».
Similitudini e differenze con il terrorismo di gennaio?
«I luoghi sono simili, nella zona tra il decimo e undicesimo arrondissement, abitata da classe media, puntellata di uffici, ristoranti, caffè, con una cospicua presenza di popolazione di origine araba. Non si dimentichi che il Bataclan si trova a 500 metri dalla sede di Charlie Hebdo . E questo ci dice almeno una cosa: Isis non teme di tornare a colpire due volte negli stessi paraggi. I terroristi sanno che possono muoversi impuniti. La grande differenza è però che in gennaio i terroristi hanno colpito «nemici riconosciuti». Ai loro occhi c’era un motivo ben chiaro per sparare ai giornalisti del periodico che aveva offeso l’Islam e contro gli ebrei. E infatti sui social media di area islamica in Francia e all’estero hanno raccolto plausi e consensi massicci. Tutto diverso è però sparare alla cieca contro civili anonimi nei luoghi pubblici. È la prima volta che non si colpisce un obbiettivo preciso in Francia. Sono certo che alla fine i musulmani tra le vittime rispecchieranno le percentuali che ci sono nella popolazione, tra il 5 e 10 per cento».
Cosa significa?
«Probabilmente gli stessi responsabili di Isis si sono subito accorti di aver commesso un errore. Con i miei studenti che seguono i social media islamici abbiamo visto che le reazioni all’attacco sono state poche, per lo più fredde o negative. Nulla a che vedere con le masse di gennaio che plaudivano alla morte dei vignettisti «blasfemi», o che scendevano in piazza per dire che loro non erano Charlie Hebdo. Si spiega adesso così il comunicato di Isis, che racconta di avere colpito i «luoghi della depravazione dei crociati». A ben leggere, sembra quasi un tentativo un poco goffo di giustificarsi a posteriori».
E delle capacità militari dei terroristi?
«Sono un gruppo misto. Chiaramente le cinture bomba erano fatte in modo amatoriale. Credo che loro volessero causare molte più vittime, ma in un paio di casi hanno ucciso solo se stessi. Quelli che hanno sparato invece lo hanno fatto con la calma e la precisione di gente addestrata. I testimoni dicono che sembrava fossero in un videogioco».
Le conseguenze politiche ?
«In Europa portano acqua al mulino del campo anti-migranti. In Francia il Fronte nazionale è già in netta crescita e otterrà ottimi risultati alle elezioni regionali di dicembre e in vista delle presidenziali del 2017. Ma è esattamente ciò che Isis vuole. Più gli europei diventeranno xenofobi e più i musulmani simpatizzeranno per il Califfato. Isis vuole rompere qualsiasi fronte di solidarietà tra i musulmani ed il resto della popolazione. L’obbiettivo è la guerra totale, non il dialogo».



Hanno colpito la laicità Adesso la paura ci spinge all’estremismo” 
La psicoanalista Roudinesco: “L’islamismo seduce i più fragili Ma l’indebolimento dei valori repubblicani ha aperto la strada” 

Cesare Martinetti  Stampa

Cominciamo da una piccola frase presa dal «Journal du Dimanche». Racconta una testimone scampata al massacro del Bataclan: «Parlavano francese come me e te e ci hanno detto: questo è quello che voi fate in Siria e in Iraq…». Ecco, Madame Roudinesco: parlavano un francese impeccabile. I killer di venerdì sono figli di immigrati nati qui, come Ismaïl, il primo ad essere identificato: è dunque una guerra interna? «Dall’11 settembre non ragiono in termini di nemici interni o esterni ma di nuova forma di guerra in un mondo globale. L’islam fanatico offre una facile identità a ragazzi fragili, prima o seconda generazione di immigrati o francesi convertiti, poco importa. Sono i sintomi di un male che rischia di far riemergere tutti i peggiori demoni francesi». 
Con Elisabeth Roudinesco, psicanalista e storica della psicanalisi, tentiamo di scavare nel sottosuolo delle viscere emotive del Paese. Madame è appena rientrata dall’Italia dove ha presentato il «Freud nel suo tempo e nel nostro» edito da Einaudi e immersa tra i libri del suo studio non nasconde l’angoscia. «Siamo di fronte a una regressione radicale verso fenomeni religiosi ostili ai diritti dell’uomo. Le ragazze che spontaneamente mettono il burqa come una forma di rivendicazione secondo me esprimono una rifiuto fanatico dell’Illuminismo. Che si richiamino ad Al Qaeda o all’Isis poco importa e bisogna essere radicali nella lotta contro questa politica: non una guerra razzista agli arabi, ma all’integralismo religioso».
Perché colpiscono la Francia?
«Perché è una repubblica fondata sull’universalismo laico, sulla tolleranza e sul diritto di ciascuno di avere nel privato la sua religione. Anche Robespierre non ha spinto fino al fondo la lotta al clericalismo. Diceva: meglio Dio di una setta. E io sono d’accordo. Questa natura laica ci rende più fragili. Siamo il Paese dell’affare Dreyfuss: possiamo diventare i più antisemiti del mondo o essere al tempo stesso i più generosi, il Paese dei Lumi e insieme del peggio espresso nella collaborazione al nazismo».
Vuol dire che la Francia può facilmente scivolare nell’estremismo?
«Direi nel fascismo. Il crollo del comunismo ha fatto perdere alle masse l’illusione di un mondo migliore e ora il rischio concreto è che la classe operaia e il voto popolare si sposti tutto a destra come sta succedendo con Marine Le Pen che ha surrogato i valori di sinistra sostituendoli con dei falsi. È questa la nuova peste politica che non a caso si nutre e prende forza da ogni attacco dell’islam radicale. Si fan forza l’uno con l’altro».
Ma cosa è successo in Francia per provocare un tale desiderio di estrema destra?
«C’è stata una relativizzazione dei valori repubblicani, la rivoluzione è stata ridicolizzata, la resistenza anche, giornalisti e polemisti come Eric Zemmour o Michel Onfray hanno preso il posto degli intellettuali. C’è un’enorme responsabilità nella televisione che per puro bisogno di auditel ha costruito mostri trasformando in fenomeni mediatici personaggi che flirtano con l’estrema destra anche se vengono dall’estrema sinistra. Viviamo in un clima detestabile: si è arrivati persino a riabilitare Pétain».
Madame Roudinesco, lei ci sta dicendo che il massacro di venerdì è precipitato dentro un Paese in crisi nei suoi fondamenti. Come si esprime questa crisi?
«Con il terrore di perdere la famiglia, il padre, la nazione, tutto. Anche la caduta delle frontiere ha contribuito a far smarrire la bussola. Domina un senso di vuoto. Le manifestazioni di massa contro il matrimonio omosessuale hanno saldato tutto questo con l’estrema destra. La sinistra riformista è schiacciata tra due fuochi. E Hollande, che pure è eccellente, non sa essere il buon zio com’erano Mitterrand e a suo modo anche Chirac: uno da uomo di destra faceva una politica di sinistra, l’altro riusciva ad essere un uomo di sinistra pur affermando valori di destra. La presidenza della République, già ridicolizzata da Sarkozy, con Hollande ha perso capacità di rappresentanza».
E tutto questo cosa ha significato nella vita della gente?
«Come dicevamo un senso di insicurezza crescente, l’Europa viene rifiutata, si ha la sensazione che possano crollare tutti i punti di forza del sistema francese a cominciare dalla sicurezza sociale che è la migliore del mondo. Cresce la disperazione e la melancolia». 
È per questo che i francesi hanno il record di consumo di psicofarmaci e antidepressivi?
«La vera ragione è perché da noi questi farmaci possono essere prescritti dai medici di base e vengono rimborsati dalla sanità pubblica, cosa che negli altri Paesi non avviene. E questa pratica ha provocato dei danni, ha significato l’abbandono delle terapie di lunga durata e della psicanalisi, troppi psicotropi sono stati prescritti a persone che non ne avevano bisogno per superare semplici ansie o tristezze. Se tutto si risolve con la chimica si perdono il gusto dell’impegno e il senso della libertà democratica e si è più facilmente vittime del fascino per un dio totalizzante o per l’uomo forte».
Ma questi ragazzi «francesi» che hanno sparato al Bataclan, non sono anche nati dal fallimento di un sistema che mitizza i diritti ma che di fatto non sa integrare i più deboli?
«Per me è vero il contrario. Sparano perché hanno paura dell’integrazione e resistono a modo loro. Non possiamo essere naïf: alla guerra si risponde combattendo, ma con i valori della laicità e della tolleranza. O davvero avranno la meglio i peggiori demoni della storia di Francia». 




Una frattura generazionale nelle moschee 

Molti giovani disertano quella nel cuore della capitale dove gli imam predicano la moderazione e si ritrovano nei capannoni trasformati in sale di preghiera. E qui domina lo spirito salafita 
Domenico Quirico  Stampa

Sono venuto in questa strada dieci anni fa: allora adolescenti incendiavano le notti delle periferie, bruciando le vecchie auto dei padri, assaltando le mediocri ricchezze di supermercati discount. Ho ritrovato ancora sui muri di La Courneuve manifesti che ricordano l’anniversario: «Dalla rivolta delle banlieues alla rivoluzione mondiale», inneggiava, ottimista, «il blocco rosso-maoista»! La Francia conserva davvero tutto, mette sotto naftalina i muri la cultura i ricordi gli uomini.
Dieci anni dopo altri ragazzi giovanissimi imbracciano fucili, uccidono a qualche isolato da qui sognando un remoto califfato universale. Sì, quella di dieci anni fa fu davvero l’occasione perduta. Una generazione musulmana chiese, disperatamente, che ci si accorgesse di lei, urlò la propria emarginazione, il dispetto e la voglia di sfidare quello Stato onnipotente che la ignorava. Come i loro coetanei musulmani dall’altra parte del mare, le primavere arabe, altre rabbie, le stesse illusioni. Anche loro sono diventati islamisti, per rabbia, soldati in Siria e in Iraq lo stesso destino. 

L’integrazione fallita
Demolita l’integrazione nei quartieri di periferia si è diffuso il radicalismo basato sulla religione. Nel 2006 erano poche decine i francesi partiti per l’Iraq e la guerriglia contro gli americani. Ora sono centinaia. E tornano. Il cuore del problema francese è a qualche fermata di metrò dal centro, non in Siria o nel Sahel.
Il Consiglio del Culto
Sono andato in rue Daubenton, alla grande moschea della capitale. Il centro teologico, la scuola: tutto è chiuso, i corsi annullati. Ma nel piccolo giardino gli uccellini ti assordano dolcemente e il tè servito dai camerieri è ben zuccherato: come sempre. Questo è il cuore dell’islam alla francese, che dovrebbe invitare cinque, sei milioni di musulmani alla tavola della République: l’islam del Consiglio del culto fatto di notabili, di dotti, annunciato come miracoloso concordato tra religione e laicità, una scorciatoia per annegare la differenza nella burocrazia della preghiera, tenere le moleste periferie sotto il travettismo di notabili coccolati e controllabili, spegnere i sussulti del fondamentalismo nei cunicoli di una piramide amministrativa. Nei capannoni trasformati in sale di preghiera non si udivano prediche moderatissime e obbedienti ripaganti la fiducia governativa. Risuonavano le sillabe perniciose del «tabligh», movimento pietista e settario che descrive il mondo con strutture paranoico-persecutrici; e i salafiti che predicano il loro ritorno alle origini, anticamera spirituale del califfato totalitario. 
Nel piccolo giardino della moschea l’unico musulmano è un vecchio signore che estrae da una borsa una piccola biblioteca di libri e giornali, la mette in ordine e inizia a leggere un libro che conosco, l’autobiografia di Hamid Abu Zaid, studioso egiziano del Corano accusato di apostasia negli anni novanta, vittima degli oscurantisti. Parliamo: l’emigrazione della sua famiglia dall’Algeria non ha conosciuto barconi e clandestinità, aveva documento di lavoro e poi cittadinanza: «Eppure questi ragazzi che uccidono sono nostri figli… noi siamo colpevoli, portiamo la responsabilità per quello che sono diventati... non la Francia i bianchi, noi che li abbiamo allevati… ognuno cerca di aggrapparsi a qualcosa, tutti corrono per non essere quello che rimane senza posto…».
La superba Francia delle librerie dei salotti dei bistrot delle languide bellezze bionde che occhieggiano dai tavolini dei caffè: immobile, capace di avvolgere i suoi vizi e le sue tarlature, gigantesco museo di se stessa: il Califfo, per fortuna si illude, non riuscirà a metterle il turbante, a creare l’emirato della Senna. L’atmosfera eternamente plasmatrice di questo Paese può assopire qualsiasi Jihad. 


Una vita separata

Eppure a La Corneuve scopri che il popolo musulmano vive in un altrove. L’anima, il di dentro, la fodera è quello che sfugge tenacemente alla integrazione, che l’ha fatta fallire. Gli uomini appartengono alle abitudini, dove sono le loro memorie. È quella la loro casa. Ogni cinque negozi c’è una macelleria «euroafricana», halal: giganteschi murales mostrano trionfalmente animali lobotomizzati, impressionanti nature morte. Al «mercato delle quattro strade» mele angurie banane gigantesche dipinte con colori iperrealisti: come nei mercati di Bamako e di Niamey. 
I confini più complicati sono quelli che non si vedono, che non hanno garitte gendarmi filo spinato controllo di passaporti. Esci in rue Jaurés, quattro passi appena… e ti sei lasciato dietro la Francia. L’ha scrupolosamente inghiottita un lento quotidiano terremoto, bruciata dallo zolfo del tribalismo, fatta e pezzi e trasferita in qualche altro continente, il nord Africa, l’islam. Non vedo tricolori a mezz’asta qui. Poi in un negozio di alimentari… ecco: pende una piccola bandiera a cui hanno aggiunto un nastro nero. Entro: sono indiani.
Tutto è islamico: la gente i negozi i caffè i barbieri le abitudini i vizi e le virtù. Attenzione: ho incontrato solo un barbuto apostolo maomettano con i regolari pantaloni sopra la caviglia, molti moltissimi veli ma nessun burqa. Nessuno mi ha minacciato, questo non è un jihadistan. Semplicemente un altro mondo. Il francese è rimasto pateticamente aggrappato ai nomi delle strade: rue Rimbaud, rue Danton, rue Maurice Bureau.
Quartieri musulmani
Sui marciapiedi ogni tanto incroci qualche povero bianco, sopravvissuti del naufragio: da questi quartieri nessuno ha cacciato nessuno, la semplice, implacabile omogeneizzazione delle abitudini, del modo di vivere, giorno dopo giorno i musulmani sono diventati maggioranza. Sui muri intristiscono manifesti elettorali per le regionali, un deputato Dupont -Aignan promette di prendersi cura degli automobilisti «maltrattati». C’era già dieci anni fa: come Sarkozy, Hollande… La strategia del ghetto usata dai radicali ha funzionato: allargare la fenditura tra i musulmani e la Francia fino a farli scoprire estranei e nemici.
Entro in un bistrot dal nome evocativo: Medina. Il proprietario alla cassa ha un’aria lesta ma non quella di un fanatico. Solo uomini ai tavoli, anzi ragazzi: nessuno sembra aver qualcosa da fare, tutti sembrano presi nel circolo vizioso di una inedia quasi totale. Come ad Algeri o Marrakesh: i caffè arabi, dove nessuno spende, la gente sembra lì solo per chiacchierare. 
I ragazzi accanto parlano un arabo dialettale, dove spuntano, affiorano parole francesi come relitti di un naufragio linguistico. Capisco che parlano di me: «céfran, céfran», che vuol dire francese e giù, rovesciano ghignando insulti su antenati e eredi, ma non è odio, sembra più un gioco greve di adolescenti. Alla televisione scorrono immagini: dieci iman che cantano la marsigliese davanti al luogo dell’attentato e parlano di «Islam patriottico», e scende un gran silenzio. E poi immagini dell’arresto dei parenti di uno dei kamikaze in un’altra cité: «schifosi flic» dice un ragazzo, le voci si alzano. Il padrone del bar cambia perentorio canale. Adesso ci sono le immagini della serie «cucine da incubo». 
«Noi siamo algerini, algerini e musulmani - dice quello dall’aria più ribalda - hai capito? E viviamo da algerini e musulmani. I francesi sono stati un secolo da noi, hai mai sentito dire che vivessero da algerini? Qui nessuno fa la guerra». 
La chiesa di Saint Yved è una brutta costruzione novecentesca come avverte l’inevitabile targa. È domenica ma è vuota. Il prete allarga le braccia: questa è terra di missione…». 


Isis e mondo islamico Capire il legame per battere il nemico 
Negare la dimensione religiosa degli jihadisti non aiuta Per vincerli serviranno alleanze difficili, anche con Putin 

Gianni Riotta Stampa

La notte di guerriglia urbana scatenata da Isis a Parigi segnala un mutamento di strategia dell’organizzazione terroristica del Califfato e induce mutamenti irreversibili nella politica europea e nella guerra in Iraq e Siria.
Chiama l’opinione pubblica e la classe dirigente a una migliore comprensione degli avversari che fronteggiamo e che, fin qui, assai male abbiamo compreso.
In mancanza di analisi razionali, scevre da propaganda, populismo rabbioso e ingenui sentimentalismi, resteremo in balia della violenza. 
Attacchi in serie
L’attacco di venerdì è stato il gesto militare più sanguinoso in Francia dalla fine della guerra 1945, con Papa Francesco a parlare, saggiamente, di «III guerra mondiale». Isis, che dai pozzi petroliferi ricava secondo il «Financial Times» un milione e mezzo di dollari al giorno, esporta ora i blitz. Prima di Parigi, 129 morti, ha colpito il 10 di ottobre Ankara, in Turchia, oltre 100 vittime, il 31 ottobre ha abbattuto il jet civile russo sul Sinai, 224 morti, peggiore strage aerea nella storia di Mosca, il 12 novembre ha seminato morte a Beirut, in Libano, oltre 40 caduti, un massacro come non si ricordava dagli anni della guerra civile. 
L’incapacità di vedere il dispiegarsi degli attacchi nella loro continuità, volta a volta ipnotizzati dall’ultimo evento in tv e sui social media, ci disarma. La rete televisiva Al Jazeera dava ieri risalto alle lamentele del mondo arabo, che accusa Facebook di non avere permesso ai libanesi di usare la ricerca automatica di vittime e superstiti a Beirut, come ha fatto, lodevolmente, a Parigi. Facebook nega il doppio standard, e i blogger libanesi ricordano come nel loro Paese, con comunicazioni precarie, a poco sarebbe servito lo strumento. Non importa, la polemica divide «Noi» da «Loro» e semina amarezze http://goo.gl/ItrQui.
«Nemico incomprensibile»
In realtà Isis, nei territori occupati e nei raid terroristici, non discrimina tra cristiani e musulmani, colpendo chi non si unisce alla campagna per il Califfato, e il generale Michael Nagata, comandante americano in Medio Oriente, ammette umile quello che troppe concioni demagogiche tacciono: «Non abbiamo sconfitto le idee di Isis, in realtà non riusciamo nemmeno a comprenderle». Battere un nemico che non si comprende è, ricordano gli studiosi di strategia da Sun Tzu a Clausewitz, Delbruck e Keegan, impossibile. Il presidente Obama paragonava dapprima Isis a «una squadra di dilettanti», oggi ne nega il carattere islamico, dichiarando che la religione non c’entra nella campagna del Califfato. 
Le divisioni in America
Nella notte di sabato, al dibattito per le primarie verso la Casa Bianca del partito democratico, la stessa afasia ha colpito prima il senatore socialista Sanders, che ha minimizzato la minaccia del terrore preferendo parlare di economia, mentre anche la favorita Hillary Clinton ha confermato che, a suo avviso, la religione non c’entra con la guerra in corso. È, da parte dei politici, una comprensibile prudenza per evitare di seminare odio verso i cittadini di religione musulmana, ma impedisce di analizzare le motivazioni e la cultura che permettono a Isis di reclutare, online, migliaia di seguaci, donne incluse, ammoniscono gli studiosi Erin Marie Saltman e Melanie Smith http://goo.gl/92IviB.
Come Br e terrorismo
Isis è un movimento politico, culturale, militare che usa terrorismo e guerra, radicandosi nell’interpretazione radicale dell’Islam. Nemico della modernità, Isis proclama un islamismo che risale ai tempi precoloniali, affascina i giovani con il credo antidemocratico, fautore di un mondo dove gli individui, maschi o femmine, credenti e no, hanno il destino segnato alla nascita. Non comprendere, o offuscare per cautela, questo dato non ci permette di fare passi avanti contro i terroristi: Isis è un esercito politico islamista, la religione non solo c’entra ma è cruciale nell’analisi. 
Lo stesso errore di timidezza ideologica fu commesso agli esordi delle Brigate Rosse, quando tanti osservatori negarono la radice comunista di Curcio e adepti, finché sul Manifesto, con spietata lucidità, Rossana Rossanda non scrisse di «album di famiglia», legando per sempre Br e sinistra. Un «album di famiglia» altrettanto diretto lega Isis alla storia dell’Islam. Milioni di comunisti italiani combatterono le Br, come miliardi di musulmani si oppongono al terrorismo in nome della loro religione, ma la contraddizione politica esiste e va compresa per recidere le radici estremistiche.
Rigore e compassione
Non farlo lascerà campo a populisti, xenofobi e razzisti che già, in America, Europa ed Italia, operano con efficacia. La notte di sangue a Parigi offre argomenti di propaganda al Fronte Nazionale della Le Pen e ai movimenti gemelli, e già porta la Polonia a chiudere le frontiere, mentre in Germania Horst Seehofer, presidente della Csu, chiama a confini più controllati, intorno all’Unione Europea e tra gli Stati membri. Dopo la strage a «Charlie Hebdo» Seehofer aveva preso la linea opposta, restando pro «confini aperti», oggi cambia idea e con lui milioni di europei. Un solo infiltrato tra tanti infelici profughi siriani, purtroppo, cambia il clima politico e serve ora intrecciare rigore a compassione.
Patti con il diavolo
Cambia idea anche, negli undici mesi che gli restano a Washington, il presidente Obama, non si ritirerà più dall’Afghanistan come voleva, e probabilmente si pente della fretta, un po’ piccata, con cui si è ritirato dall’Iraq, comprendendo infine come sia inevitabile battersi in Medio Oriente. Le carte di europei e americani non sono molte, collaborare con i turchi, che però temono i curdi quanto Isis, trovare un’intesa con Putin, che ha una sua testa di ponte in Siria, decidere che fare del regime di Assad, forte di un tacito patto con Isis che potrebbe rompere, pur di restare al potere a Damasco. 
Soluzioni brillanti funzionano in tv, nella realtà si tratta purtroppo di fare patti con un diavolo alla volta, pur di battere il diavolo Isis. Liberare del tutto le città di Mosul e Ramadi dalla presa del Califfo, a fianco dei peshmerga curdi, sarebbe una risposta militare capace di controbattere alla strage di Parigi. Se e quando ci si riuscisse, servirebbe poi una strategia di lunga durata, civile e militare, capace di vittoria. Siamo solo ai primi, confusi, passi contro un nemico che non conosciamo e che, invece, benissimo ci conosce.


“Il fanatismo si combatte con la conoscenza Hollande sbaglia, dobbiamo imporre la pace” 

Edgar Morin: nessuno nasce terrorista, chi si libera dalla follia può aiutare gli altri 
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No, non sono per niente d’accordo con il presidente Hollande», dice Edgar Morin appena sceso dal palco del Palacongressi di Rimini. Doveva parlare di «islamismo spiegato ai nostri studenti» a cinquemila insegnanti arrivati da un po’ tutta Italia per il decimo convegno sulla «Qualità dell’integrazione scolastica e sociale», ma la notte di Parigi cambia tutto, specialmente in cupezza. Eppure nessuno si arrende, ognuno a proprio modo. Quello di Morin ha a che vedere con la sua biografia novecentesca e a capofitto nel nuovo millennio, ed eccola, brevissima, per chi non la conoscesse: 94 anni, nato col cognome Nahoum a Parigi da famiglia ebrea, entrato nella Resistenza antinazista col nome di battaglia Morin, comunista che rompe nell’immediato dopoguerra con il Pcf per le critiche a Stalin. E’ noto come il filosofo della complessità, così convinto che la vita è fitta di spigoli e anfratti, e non liscia e perfetta come una sfera; per lui vale oggi a maggior ragione. «Non sono d’accordo con il presidente Hollande, il fanatismo si combatte con la conoscenza e con l’imposizione della pace, soprattutto in Medio Oriente». Si è fermato qualche minuto per qualche domanda, e particolareggia il suo fastidio per i toni militareschi innalzati all’Eliseo, e di cui molta Francia è sempre più bramosa. «Voi in Italia, ma è successo anche in Germania, avete combattuto le Brigate rosse e i terroristi neri. Alcuni di loro li ho incontrati, erano ragazzi arrivati a comprendere la follia da cui erano stati travolti, come se una finestra si fosse spalancata davanti a loro inondandoli di luce. Nessuno nasce terrorista. Si ha un’ideologia, una fede, un’allucinazione. Ma chi se ne libera e vede che è soltanto orrore può aiutare gli altri, ancora ciechi».
Una volta Morin disse che la risposta al fanatismo non è la dolcezza, ma la conoscenza. Precisamente, la conoscenza della complessità. Alla platea muta offre di conseguenza veloci dettagli – magari non completamente ignoti – sulle parentele strette fra le tre religioni monoteiste, su Gesù profeta dei musulmani, sull’ebraismo incastonato in Maometto, sui secoli di convivenza, di faticosa tolleranza, di aperta ostilità. Non voglio farvi una lezione di storia, dice, «ma vorrei che fosse chiara la situazione e che può essere superata». Lo si applaude con predisposizione, le polemiche per le conversazioni con Tariq Ramadan, culminate nel libro «Il pericolo delle idee», qui non hanno accesso. È soltanto un lungo prologo alla soluzione ambiziosissima che Morin propone in tre punti. «Primo, per chi ha ruoli educativi: non dobbiamo insegnare la religione ma introdurre la conoscenza delle religioni, perché la religione non è un’invenzione della curia, come diceva Voltaire, ma come diceva Marx è il sospiro della creatura infelice». Il secondo punto ha a che fare con il multiculturalismo: «L’Italia, come la Francia e la Spagna, è una nazione multiculturale. In Italia non ci sono soltanto i figli dei latini, ci sono i siciliani che hanno radici arabe, ci sono i piemontesi e ci sono i trentini, popoli che si sono integrati dopo l’unità; eppure è un’integrazione non ancora conclusa visto che al Nord resiste una visione razzista del Sud». Non conclusa ma in cammino e niente impedisce integrazioni ulteriori, dice, purché la scuola sappia raccontare una storia universale e non partigiana, e dunque inclusiva. 
Il terzo punto è probabilmente il più difficile da abbracciare, è «l’imposizione della pace», espressione talmente ossimorica, talmente stridente con queste ore di sangue: quello che fu «il sogno di Lawrence d’Arabia, una grande confederazione del Medio Oriente, con libertà di culto e libertà etnica. Mi dispiace che la Francia rivendichi un ruolo guerresco, vorrei che ne ricoprisse uno da conciliatore». Se ne avesse la forza, se la avessimo tutti quanti, dice, avanzerebbe una nuova visione che toglierebbe acqua al terrorismo islamico, lo inaridirebbe, salverebbe un’umanità già terribilmente minacciata «dalla degradazione delle biosfere e dalla speculazione finanziaria». Coltiviamo un’alternativa, dice, «al Dio invocando il quale si sono fatti più morti di quanti ne abbiano fatti le armi atomiche». 

«Quello di Parigi è un atto di forza dell’Isis»
«Estremisti in ascesa, dopo che si è negata l'opzione dell'Islam moderato»
Laura Guazzone docente di Storia contemporanea dei paesi arabi presso l'Istituto italiano di Studi Orientali all'università Sapienza di Roma
intervista di Simone Pieranni il manifesto 16.11.15
Quando accadono eventi come quelli parigini, e non solo in questi casi, il riflesso immediato porta ad analisi «occidentali». Utilizziamo canoni, espressioni, riflessioni che sono figlie della nostra cultura e che faticano a mettersi dall’altra parte della storia.
La nostra è una visione «eurocentrica», senza alcuna capacità o volontà di indagare il punto di vista, ad esempio, musulmano. In alcuni casi lo strabismo è frutto di semplificazioni, in altri di malafede. Ma rimane un dato sicuro: se il giornalismo deve procedere per necessarie semplificazioni, dall’altro lato, invece, banalizzare, fuorviare, ignorare elementi salienti della discussione, che poi finiscono per trasformarsi in opinione pubblica e definitiva forma di orientamento politico e quindi strategico e diplomatico, è senza dubbio un errore. Abbiamo chiesto a Laura Guazzone docente di Storia contemporanea dei paesi arabi presso l’Istituto italiano di Studi Orientali all’università Sapienza di Roma (di cui sta per uscire nelle librerie per Mondadori «Storia ed evoluzione dell’islamismo arabo») di chiarire alcuni aspetti del mondo musulmano, alla luce di quanto accaduto nella capitale francese.
Professoressa, partiamo dall’inizio: quando ci si riferisce all’Islam moderato, cosa si intende e come si pone di fronte a questi eventi
Sull’espressione Islam moderato ci sono molti fraintendimenti, come capita di sovente in dibattiti complessi. A volte questi fraintendimenti sono ingenui, a volte sono manipolatori; bisogna partire dal chiarire un punto, ovvero: quando parliamo di Islam moderato andrebbe chiarito se si sta parlando in senso religioso o se parliamo di Islam moderato in senso politico. Le due espressioni possono coincidere ma non necessariamente. Se ragioniamo sulle forme di dialogo o di contenimento rispetto alle varie forme di Islam questi elementi vanno chiariti.
In senso teologico per Islam moderato intendiamo tutte quelle correnti, movimenti e istituzioni che danno un’interpretazione moderata alla sharia, che – va ricordato — non è un testo o un codice di legge, ma qualcosa di più complesso, perché si tratta di una collazione dei precetti dal 600 dc a oggi che sono stati dedotti dal testo del Corano e della Sunna, la vita del profeta. Da questi sono stati tratti dei precetti, che possono essere interpretati in modo diverso.
La distinzione si fa su molte questioni fondamentali, la più importante è relativa alla concezione di quali siano le punizioni legittime dei diversi crimini individuati dalla legge islamica. Ad esempio c’è una differenza enorme sul comportamento contro gli apostati, chi da musulmano abiura l’Islam. Secondo i radicali, Isis e anche al Qaeda, tutti gli apostati sono passibili di morte, anzi devono essere messi a morte. L’Islam moderato invece dà una interpretazione radicalmente opposta nelle sue conseguenze, perché con sfumature differenti predica la necessità di contenere e al massimo prevede un allontanamento dall’apostata dalla comunità. anche in senso puramente culturale e religioso senza nessuna conseguenza di pena, tanto meno capitale.
C’è poi quanto è basato su comportamenti politici, e spesso intendiamo questo per Islam moderato. Ovvero coloro che praticano il loro essere islamici in campo politico con modalità riformiste o rivoluzionarie, che possono essere anche in forma armata (quella che noi chiamiamo la guerra santa). In questo senso l’Islam moderato include tutto l’Islam istituzionale, autorità religiose riconosciute dai governi e riconosce come legittimo il sistema politico esistente.
Nell’Islam moderato e quindi nelle sue scuole, le università, i tribunali - l’influenza delle istituzioni islamiche nei sistemi giudiziari o dell’istruzione dei paesi arabi è differenziata nei modi ma sostanzialmente simile -, nelle sue posizioni ideologiche, di solito ci si riconosce la stragrande maggioranza dei musulmani. Il problema che nasce è politico, perché questo sistema è usato dai regimi al potere, per mantenere il proprio potere ed è quindi all’antitesi di un Islam che pur essendo di opposizione è moderato. Parliamo dei movimenti riconducibili ai Fratelli musulmani, l’insieme dei movimenti islamisti.
Sono movimenti di opposizione in senso politico, ma sono da considerarsi moderati, perché sostengono la via riformista al cambiamento, per via elettorale fin dagli anni ’30, fin dalla fondazione dei Fratelli musulmani in Egitto. Moderato anche nel senso ideologico, che ha posizioni religiose anche moderate e diverse dai movimenti radicali.
Questa distinzione è importante, perché quando riflettiamo sull’Islam politico consideriamo un tutt’uno tutto lo spettro delle organizzazioni che vanno dai moderati agli estremisti. Se non facciamo queste distinzioni, se non capiamo la prospettiva interna, mettiamo nello stesso calderone movimenti che intendono agire in quanto musulmani, finiamo per mettere l’islam moderato con i movimenti più insurrezionalisti, in particolare del mondo arabo.
In che modo la preclusione alla rappresentanza politica, in Egitto ad esempio, comporta un vantaggio per l’estremismo
Dobbiamo riflettere su un punto poco percepito: è stato negato – e in questo i regimi arabi sono stati sostenuti dagli occidentali — all’ala moderata dell’Islam politico di divenire un attore legittimo del gioco politico dei singoli paesi arabi. Un attore che se il gioco è democratico poteva anche essere un’alternativa di governo nell’alternanza democratica.
Aver negato questo ha molto semplicemente chiuso un’opzione, ha formato una diga che ha precluso la canalizzazione della domanda dell’islam moderato che c’è in tutte le società musulmane, ha precluso la possibilità che questa domanda si traducesse nella formazione di un sistema rispettoso dei valori islamici fondamentali, ma riformista.
C’è stata una repressione di questi movimenti – dalla cancellazione della vittoria islamista agli inizi degli anni 90 in Algeria, alla negazione della vittoria politica di Hamas nei territori nel 2006 che ha portato alla spaccatura della leadership palestinese — quando hanno avuto un successo anche elettorale, come nel caso più recente dell’Egitto. Sono arrivati dunque interventi di vario tipo proprio di quei regimi (con il sostegno attivo delle potenze occidentali) che i moderati avrebbero sostituito. Impedire che l’islam divenisse un elemento “normale” nella vita politica araba (come è avvenuto ad esempio in Tunisia, dove nel 2011 gli islamisti ottennero la maggioranza, e le elezioni dopo l’hanno persa) ha bloccato questo sbocco della volontà e del desiderio di gran parte della società araba.
I movimenti moderati sono entrati in un declino cui è corrisposta l’ascesa dei movimenti radicali. Questi movimenti nascono e crescono già negli anni 90 in reazione a quella globalizzazione neoliberista e alla diseguaglianza crescente. Movimenti che sono cresciuti e che oggi risultano più attraenti per i giovani, proprio perché vincenti, rispetto ai moderati cui è stata preclusa la via riformista.
In che modo questo attentato e quello di Beirut cambiano il rapporto sciiti-sunniti e come può essere letto nella più generale strategia dell’Isis (se ad esempio è una risposta alle vicende della guerra tra Siria e Iraq dove sembra che l’Isis abbia perso posizioni, seppure minime, quanto meno la continuità territoriale dopo Sanjar)
Sulla questione più contingente, più legata a una strategia di penetrazione di conquista dei musulmani, soprattutto quelli arrabbiati che non sono pochi, gli attacchi in Europa sono un elemento potentissimo di propaganda, rispetto ai movimenti riformisti che non sono riusciti a ottenere neanche i loro obiettivi minimi nei paesi arabi.
La percezione dunque è che con la paura questi movimenti radicali impongono il rispetto dell’islam. L’attacco in Europa ha un significato di rilancio, non credo per l’eventuale difficoltà strategica sul campo (che è tutta da verificare), significa rilanciare la posta verso i potenziali adepti del mondo arabo, quelli delusi dall’azione dei movimenti riformisti, è un atto di forza.
Se pensiamo al giuramento di fedeltà del califfo da parte di una fazione dei talebani afghani, siamo totalmente ancora in fase di espansione del sostegno e di egemonia dell’Isis sull’islam radicale. Si tratta di un rilancio in un momento di forza, per aumentare lo scontro perché si hanno le forze per farlo, con implicazioni pericolose, come fosse una tappa di una strategia che prevede un’escalation.
Per quanto riguarda il rapporto sciiti-sunniti, Isis nasce da uno scontro ideologico e politico con al qaeda e il distacco politico nasce in buona parte non solo in campo ideologico proprio per il rapporto con gli sciiti. Per al qaeda sono simili agli apostati perché non riconoscono appieno l’unità divina, ma non sono un nemico da combattere sempre e a oltranza, mentre lo sono per i movimenti di cui fa parte l’Isis.
Cosa comporta questo attacco per la comunità islamica in Europa, come si potrebbe evolvere il rapporto istituzioni europee comunità islamica
L’osservazione che mi sento di fare è che abbiamo una visione molto strabica anche al riguardo. L’Islam in Europa non è la quinta colonna dei movimenti attivi nei paesi musulmani, perché si inserisce in un altro gioco, è una partita diversa.
Le comunità musulmane sia di recente immigrazione, sia quelli di seconda e terza immigrazioni non dipendono soltanto dai loro legami con i movimenti di origine. C’è un elemento che non guardiamo mai: tutta quella costruzione di discorso sull’Islam europeo che è fatta dai movimenti xenofobi in Europa e come hanno indebolito le capacità delle politiche di integrazione da parte dei singoli paesi europei.
Nell’italia berlusconiana le politiche di integrazione, i soldi spesi per creare centri culturali si sono azzerati. L’Islam della comunità europea è sottoposta alla spinta aggressiva sia della destra, sia dalla penetrazione dell’islam radicale. Le capacità di difesa sono indebolite dalla cancellazione delle politiche di integrazione e dall’indebolimento dell’idea di Europa integrata democraticamente. Noi parliamo di prevenzione sempre in senso poliziesco, in realtà facciamo sempre troppo poco e sempre meno per l’integrazione dell’islam in Europa come parte dell’integrazione in europea. 

Il pericolo dello «stato di emergenza»
di Raffaele K Salinari il manifesto 16.11.15
È scattato a seguito degli attentati terroristici di Parigi lo «stato di eccezione». Una condizione che nelle democrazie occidentali è, e deve, restare una misura contingente, ma che rischia invece di diventare la modalità attraverso la quale non solo si cerca di governare l’avvenimento eccezionale ma si normalizza l’andamento democratico in nome della sicurezza nazionale.
L’istituto dello «stato di eccezione» è antico quanto il potere stesso; nell’impero romano esisteva già lo iustitium, cioè la sospensione del diritto durante il periodo che intercorreva tra la morte dell’imperatore e la nomina del successore. In quel periodo non c’era legge dato che era l’imperatore stesso ad essere la legge. Dunque un «momento extragiudiziario», come lo definisce Carl Schmitt nella sua Politische Teologie del 1922, il testo di riferimento per la Costituzione nazista che sugli stati extragiudiziari edificherà il Reich. Carl Schmitt identifica dunque lo «stato di eccezione» con la definizione stessa di potere sovrano.
Sostiene Giorgio Agamben che l’essenziale contiguità fra «stato di eccezione» e sovranità, come viene definita da Carl Schmitt, non ha ancora portato a una vera e propria teoria dello «stato di eccezione», che dunque manca nel diritto pubblico, per cui i giuristi sembrano considerare il problema più come una quaestio facti che come un serio problema giuridico.
Da parte sua, riferendosi proprio ai pericoli che implica questa mancanza definitoria, Jacob Taubes nel suo La teologia politica di San Paolo, argomenta in questo modo l’incipit della Teologia Politica di Carl Schmitt: «Il libro inizia con uno squillo di trombe: ‘Sovrano è colui che decide sullo stato di eccezione’. Qui scrive un giurista non un teologo, ma non si tratta di un elogio della secolarizzazione, piuttosto del suo smascheramento. Il diritto statuale non sa ciò che dice poiché lavora con concetti il cui fondamento, le cui radici, gli sono ignoti… Su questa premessa Schmitt analizza la letteratura giuridica, poiché in effetti è un giurista e sa circoscrivere il proprio ambito. Alla fine del saggio scrive: ‘sarebbe prova di un razionalismo coerente dire che l’eccezione non dimostra nulla e che solo la normalità può essere oggetto dell’interesse scientifico. L’eccezione turba l’unità e l’ordine dello schema razionalistico. Nella dottrina dello Stato positivista si trova spesso un simile modo di argomentare. Alla domanda su come si debba procedere in mancanza di una legge naturale, Anschutz risponde che ciò non costituisce affatto una questione giuridica’».
Continua Taubes: «Qui si palesa non tanto una lacuna nella legge, cioè nel testo della costituzione, quanto una lacuna nel diritto, che nessuna operazione concettuale della giurisprudenza è in grado di colmare. Il Diritto si ferma qui». E ancora Taubes commentando il passo di Schmitt: «Questo si legge nel testo di Anschutz il più grande giureconsulto della sua generazione, ‘Il diritto si ferma qui’. Nel momento decisivo, egli sostiene, il diritto statutale non ha più nulla da dire, incredibile!».
E prosegue con quella parte della citazione di Schmitt che più ci interessa: «Ma proprio una filosofia della via concreta non può tirarsi indietro di fronte all’eccezione ed al caso estremo, ma deve anzi dimostrare il massimo interesse nei suoi confronti. Per essa l’eccezione può essere più importante della regola, non in base ad un’ironia romantica per la paradossalità, ma con tutta la serietà di un giudizio che va più a fondo delle palesi generalizzazioni di ciò che mediamente si ripete. L’eccezione è più interessante del caso normale. La normalità non comprova nulla, l’eccezione comprova tutto; non solo essa conferma la regola, ma la regola stessa vive solo dell’eccezione. Nell’eccezione la forza della vita reale spacca la crosta di una meccanica irrigidita nella ripetizione. Lo ha affermato un teologo protestante, dando prova dell’intensità vitale di cui la riflessione teologica sa essere capace nel XIX secolo: ‘L’eccezione spiega il caso generale a se stessa. E se si vuole studiare correttamente il caso generale è sufficiente ricercare una sua eccezione. Essa porta alla luce tutto più chiaramente dello stesso caso generale».
Ecco allora il pericolo di dichiarare lo «stato di emergenza» in un momento così fragile per gli equilibri democratici non solo francesi ma europei.
Bisogna che i democratici si preparino ad evitare che questa situazione venga estesa oltre i limiti del dovuto, cioè la necessità di individuare gli attentatori di Parigi, e non venga invece utilizzata come cornice extragiudiziaria per normalizzare altre libertà repubblicane, come la libera circolazione delle persone o gestire con mezzi eccezionali i flussi migratori e quant’altro attiene alla globalizzazione in un mondo di guerra permanente. 


Un modello (fallito) di integrazione e la crisi di valori che spinge la destra
di Massimo Nava Corriere 16.1.15
 L a Francia politica rinnova il patto repubblicano e chiama il Paese all’unità contro il terrorismo. È il senso dell’appello del presidente François Hollande che ieri ha consultato i leader di tutti i partiti, fra i quali i due più probabili avversari nella corsa all’Eliseo del 2017, Nicolas Sarkozy e Marine Le Pen.
Ma l’unità è un impegno tanto nobile quanto destinato subito a infrangersi, pur senza nulla togliere al senso di responsabilità di queste ore, al consenso per le misure eccezionali di sicurezza e alla reazione forte e composta di tutta la società francese.
L’unità di sentimenti è una cosa, l’unità politica è un’altra, come ha subito sottolineato Sarkozy.
È nella logica della democrazia e del gioco politico, fisiologicamente esasperato dal sistema elettorale francese. Nelle prossime settimane si vota per le Regionali, test che dovrebbe dare la misura di quanto i sondaggi già prefigurano: l’ascesa del Fronte Nazionale, sull’onda degli attentati e della questione immigrazione, il declino del presidente Hollande e della gauche , la forza reale di Nicolas Sarkozy rispetto agli altri rivali della destra gaullista. Il 2016 sarà un anno di campagna elettorale permanente, appunto in vista delle Presidenziali.
Ma al di là del gioco politico, sono le questioni più profonde della società francese a creare divisione e ad accentuare le differenze, sia di visione sia di proposta e contromisure.
Questioni che non riguardano soltanto i partiti e i loro leader, ma il modello repubblicano nel suo insieme, con la sua cultura laica, i suoi riferimenti istituzionali, i suoi valori messi a dura prova, per quanto oggi ammantati di solidarietà e orgoglio nazionale. Questioni in cui è utile inquadrare anche l’attacco terroristico. Un attacco al cuore dell’Europa, al nostro stile di vita, alla civiltà, ma soprattutto un attacco alla Francia, cioè al Paese più vulnerabile per la dimensione assunta dalle divisioni sociali, etniche, culturali, religiose.
L’inchiesta sull’organizzazione degli attentati, oltre a possibili falle nei sistemi di sicurezza, ha messo a nudo l’evidenza di una rete di fiancheggiamento, complicità e proselitismo fanatico che ha le sue radici nelle periferie, territorio off limits per i valori repubblicani, refrattario a tutte le politiche di bonifica che si sono susseguite nei decenni.
Nelle periferie si riflettono il fallimento dell’integrazione e della mobilità sociale, le derive razziste, xenofobe, il pregiudizio nei confronti di milioni di musulmani e, per contrasto, il buonismo culturale e la resa a un assistenzialismo costoso e improduttivo. La situazione delle periferie è profondamente connessa alle politiche d’immigrazione, alle riforme strutturali di cui la Francia ha bisogno, al rapporto con l’Europa sui temi della sicurezza delle frontiere, della libera circolazione, dell’accoglienza.
Si tratta di questioni su cui le forze politiche divergono e sulle quali il Fronte nazionale di Marine Le Pen potrebbe raccogliere consensi in una misura tale da sconvolgere il quadro politico francese, con conseguenze abbastanza immaginabili sulla crescita in Europa dei movimenti populisti ed euroscettici.
Mentre s’invoca la necessità di una forte risposta europea al terrorismo e di coraggiose politiche unitarie sull’immigrazione, la Francia ammalata e colpita al cuore rischia di essere l’anello debole, anziché un pilastro fondamentale di soluzioni condivise di cui l’Europa ha un disperato bisogno. 

Banlieue Nelle periferie fuori controllo
A Courcouronnes dove è nato il kamikaze del teatro «Qui possiamo diventare solo spacciatori o soldati»
di Aldo Cazzullo Corriere 16.11.15
DAL NOSTRO INVIATO PARIGI Non amano i «barbuti», come chiamano i reclutatori islamici; ma odiano di più i poliziotti. «Nessun terrorista mi ha mai fatto questo» dice un ragazzo ivoriano mostrando sotto la camicia i segni delle manganellate.
Dalla capitale si arriva a Courcouronnes in 40 minuti di treno. Qui è nato Ismail Mostefai, il kamikaze riconosciuto dal frammento del dito indice, qui ha commesso i suoi primi reati, qui ha avuto le sue otto condanne senza fare un giorno di prigione. Nel sobborgo di Bandoufle, al 48 di rue de la Faisanderie, in una villetta con nanetto in giardino e orchidea di plastica alla finestra, vive il fratello, con la moglie Sarah, due bambini di 4 e 3 anni e una bimba di 5 mesi. Racconta la vicina bionda che sono venuti a prenderlo all’alba: reparti speciali, volto coperto, tiratori sui tetti. «Ma lui è una brava persona, non vede Ismail da anni. Fa la guardia giurata. I suoi bambini giocano a calcio con i miei nipoti. Quando è arrivato, due anni fa, ci ha invitati per l’aperitivo. L’estate scorsa siamo andati insieme a veder passare il Tour de France…».
La signora è interrotta dallo stridio di un Suv. Ne escono un uomo e una donna, il viso nascosto da un cappuccio. Secondo la Procura di Parigi il fratello di Mostefai dovrebbe essere ancora in cella, ma quest’uomo ha le chiavi di casa, entra a prendere qualcosa, esce senza dire una parola. Gli faccio una domanda in francese, mi allontana con una mano, con l’altra stringe il cappuccio. Un collega americano gli parla in arabo, lui reagisce con un ruggito, poi salta in auto, sbanda, sparisce.
Courcouronnes è un paese di piccola borghesia, con il ristorante italiano e il liceo Truffaut, circondato da «cité», cittadelle dai nomi evocativi — le Piramidi, il Canale, il parco delle Lepri —, in realtà deserti urbani: 5 mila abitanti, neanche una panetteria. Tutti indossano vesti tradizionali fino ai piedi o tute da ginnastica. Tutti hanno gli auricolari a isolarli dal mondo. Non si dicono bonjour ma salam-aleikum , non si dicono au revoir ma inshallah .
Qualcuno lavora ai mercati generali di Rungis, tra i cibi e le merci che i parigini ordinano al ristorante o comprano nei negozi; loro si limitano a scaricarle. Le altre fonti di reddito sono la droga e gli scippi, la voce popolare vuole che le squadre si siano divise i giorni — martedì e venerdì — e le specializzazioni: chi ruba i soldi a quelli che vanno al mercato, chi la spesa a quelli che tornano.
Anche una vittima della strage era nata qui. Asta Diakité lavorava per un’associazione benefica: Barakacity, la città della grazia, simbolo una cupola con la mezzaluna. La sede è tutta bruciacchiata: ogni tanto gli islamisti le danno fuoco. Dem, di famiglia senegalese, era suo amico: «Una ragazza meravigliosa, che cercava una patria. Noi siamo francesi. Ma la Francia non ci vuole. Appena sentono il nostro accento, il posto di lavoro non c’è più; appena ascoltano il nostro nome, la casa è già affittata. Alle ragazze va anche peggio. Siccome portano il velo, nessuno le assume. In piscina non possono andare perché le obbligano a mischiarsi con gli uomini». Donne e uomini insieme: cosa c’è di male? «Non è la nostra cultura. I terroristi sono stupidi perché ora noi musulmani staremo ancora peggio. Hanno fatto un favore al Front National». Marine Le Pen nel frattempo esce dall’Eliseo, dove ha chiesto a Hollande di «disarmare le banlieue, perquisirle, svuotarle dai fondamentalisti».
All’ora della preghiera, la moschea di Courcouronnes è quasi vuota. Il rettore, Khalil Merran, originario di Ceuta, Marocco, è anche il vicepresidente delle moschee di Francia. Gli hanno dato la scorta. Si fa fotografare con il vescovo e il rabbino in piazza dei Diritti dell’uomo, poi partecipa alla messa nella cattedrale di Evry. «Ismail? Qui si faceva chiamare Omar. Il ramo storto di un albero sano; la sua è una famiglia normale». Chi l’ha convertito alla jihad? «Un imam potentissimo». E chi sarebbe? «Google. Questi ragazzi non sanno nulla di religione. Sono schiavi di Internet, plagiati dalla rete. Io ho visto i siti islamisti. Sono fatti molto bene. Promettono denaro, donne, armi, potere e gloria imperitura. Ti fanno sentire parte di qualcosa».
Proprio questo manca ai ragazzi di Courcouronnes e di Montreuil, la banlieue alle porte di Parigi dove, in rue Edouard Vaillant 14, davanti al murale con una donna africana, hanno trovato la Seat nera piena di kalashnikov usata dai terroristi. Forse qui avevano un covo, o un complice. Per terra restano pezzi di vetro scuro. Siamo a 800 metri dal supermercato ebraico attaccato a gennaio. Montreuil per metà vota comunista, per metà Front National. Tra le villette dei pensionati e i grattacieli degli immigrati c’è un antico muro, costruito per proteggere i frutteti del Re Sole, che ora torna utile a dividere le due comunità.
I bastioni della Cité des Grands-Pêchers, città dei grandi peschi, si ergono come le torri del ghetto di Venezia: al numero 1 i maliani, al 2 i senegalesi, al 3 i maghrebini. È la Separazione divenuta visibile. Non entrano né tram, né bus, né auto della polizia, ma non per paura; nessuna strada la attraversa. Non si vedono i segni di cordoglio che mostra la tv; solo un display luminoso che sollecita «una reazione repubblicana e popolare».
Nei cortili ci sono due gruppi: i nonni che sorvegliano i bambini, e i ragazzi che si fanno le canne. I nonni, gli integrati, sono dispiaciuti: «È un disastro. Stanno arrivando a migliaia dal Medio Oriente: e se ci fossero terroristi infiltrati?». Anche voi siete stati migranti. «No. Noi veniamo dall’Algeria. Dipartimento della madrepatria». I ragazzi, gli apocalittici, non hanno nulla da perdere. Sono originari del Mali. Tra loro non parlano francese ma una neolingua, chiamata appunto «montreuillois», nata incrociando gli idiomi delle periferie: gitani, africani, ebraici, arabi, kabyli. Qualcuno farfuglia con gli occhi persi. Gli altri si dividono tra i pochi convinti che la guerra dichiarata alla Francia li coinvolga, e i tanti che se ne chiamano fuori.
Dieci anni fa le banlieue esplosero. A Clichy-sous-Boi, che è dall’altra parte della strada, due adolescenti in fuga dalla polizia, Zyed e Bouna, si nascosero in una cabina dell’elettricità e morirono folgorati. Venti giorni di scontri, 10 mila auto bruciate, stato d’emergenza. Da allora la Francia qui ha speso molto, anche per tenere testa ai finanziamenti legali che arrivano dal Qatar e a quelli illegali. I ragazzi riconoscono che le cose sono cambiate; ma in peggio. In mezzo c’è stata la crisi. Dice un nero altissimo, i capelli raccolti in uno chignon: «Mi piaceva la letteratura, ma in classe eravamo in 40 e non imparavo niente. Così ho smesso. Mio fratello ha fatto il lavavetri in Italia. Ho provato anch’io; ma ai semafori cercavano di mettermi sotto. Qui nessuno studia, nessuno lavora. Tranne Marcel». Chi è Marcel? «Un ex amico antillano, che si è arruolato nell’esercito. Soldati e spacciatori: questo possiamo fare. Le banlieue non sono rappresentate. Nessuno di noi è in politica, nessuno in tv, nessuno dei giornali. I registi vengono per girare i loro film, come Kassovitz, e se ne vanno. Dalla cima dei grattacieli vediamo Parigi. Si indovinano la tour Eiffel, la tour Montparnasse. Ma per noi è la città proibita». Si vorrebbe credere al titolo patriottico del reportage di Libération — «La Francia è in guerra e può contare sulle sue banlieue» —, ma non è questo il messaggio di Courcouronnes e di Montreuil: i luoghi dov’è nata e dove si è conclusa, per ora, la tragedia del 13 novembre.

La nuova strategia globale dell’Isis
La vera guerra è interna al fronte jihadista. Le prime vittime, i musulmanidi Giuliano Battiston il manifesto 16.11.15
Gli attentati di Parigi sono stati rivendicati dallo Stato islamico, ma il comunicato degli uomini del Califfo ci dice poco sulle reali responsabilità. Non dimostra che gli attacchi multipli siano stati ideati e finanziati dalla casa madre.
Non chiarisce se lo Stato islamico abbia fornito soltanto l’ispirazione, o se abbia garantito una regia, oltre a soldi e mezzi. La questione non è secondaria, come ha ricordato il procuratore francese Francois Molins, che nel suo discorso alla stampa ha enfatizzato un punto centrale: «dobbiamo capire da dove venissero (gli attentatori, ndr)…e come siano stati finanziati».
Farlo è un’operazione complessa. In genere servono molte settimane, spesso mesi, prima di riuscire a stabilire con certezza la catena di comando. Una volta che sarà chiarita, sarà possibile rispondere alla domanda su cui si interrogano tutti gli specialisti: la strage di Parigi rappresenta una svolta strategica per lo Stato islamico?
Per molti analisti, sì.
Tra questi Jason Burke, autore di testi ormai considerati fondamentali sul jihadismo, tra cui Al Qaeda. La vera storia (Feltrinelli 2004) e più recentemente di The New Threat from Islamic Militancy (Random House). Sul giornale britannico The Guardian, Burke ha sostenuto infatti che se l’attentato di qualche settimana fa nel Sinai contro il Metrojet russo «non era una prova definitiva» della nuova strategia internazionalista dello Stato islamico, gli attacchi di Parigi confermano invece che l’Isis «è diventato globale».
Per Burke, «un elemento globale» — attacchi diretti a obiettivi occidentali — si sarebbe aggiunto di recente alla tradizionale campagna locale, votata alla conquista e alla gestione del territorio del Califfato. Dall’incitamento indiretto ai simpatizzanti e ai militanti che vivono in Francia e altrove affinché compiano attacchi in Europa, si sarebbe passati alla pianificazione centralizzata.
Gli attacchi di Parigi, anche se venisse dimostrato che sono stati compiuti da cellule locali, risponderebbero dunque a una novità strategica: colpire l’Occidente, quell’Occidente che finora era servito perlopiù come controparte per rinsaldare il fronte interno e legittimare ideologicamente il jihad.
Anche per William McCants, direttore alla Brookings Institution del progetto sulle Relazioni degli Usa con il mondo islamico, autore di The Isis Apocalypse (St. Martin’s Press), ci troveremmo di fronte a «un cambiamento fondamentale nella strategia globale dell’Isis». Se finora l’Isis sembrava concentrarsi sulla necessità di attirare simpatizzanti e militanti in Siria e Iraq per il grande progetto di “State-building” del Califfato, ciò che è successo a Parigi dimostrerebbe invece l’intenzione di dirottare maggiori risorse — finanziarie, operative e strategiche — per le operazioni contro i Paesi occidentali. In questo senso, hanno suggerito alcuni analisti, la tensione di fondo dello Stato islamico tra l’impulso messianico, votato all’edificazione del Califfato, e l’inclinazione al pragmatismo jihadista internazionale sarebbe stata sciolta a favore di quest’ultimo.
Charlie Winter, ricercatore alla Georgia State University, non è d’accordo. Per lui, la strategia dell’Isis è sempre stata ibrida, locale e globale, due piani che nel jihadismo contemporaneo non solo non si escludono, ma si rafforzano a vicenda.
Sulla sua stessa posizione Thomas Hegghammer, direttore del dipartimento sul terrorismo al Norwegian Defence Research Establishment di Oslo, per il quale non si può affermare con certezza che l’Isis sia diventato globale, perlomeno non prima di aver registrato una serie di attentati con chiari legami con la leadership centrale. Al di là delle diverse opinioni sulla svolta strategica, su un punto gli analisti concordano. Con gli attentati di Parigi, lo Stato islamico aveva almeno tre obiettivi: terrorizzare la popolazione, reclutare nuovi militanti e, soprattutto, polarizzare il campo, eliminando quella «zona grigia» che il Califfo al-Baghdadi ha criticato nel suo celebre discorso del luglio 2014.
A giudicare dalle reazioni politiche, in Italia e in Francia, l’obiettivo è raggiunto. Anche perché quasi tutti sembrano dimenticare che, come ha scritto Mario Giro su Limes online, è il nostro narcisimo di europei «che ci porta a pensarci sempre al centro di tutto». Gli attentati hanno colpito Parigi, certo, ma la vera guerra è interna al fronte jihadista. Le prime vittime, i musulmani. 


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