giovedì 19 novembre 2015

Chi appartiene al genere umano lo decidiamo noi, noi decidiamo chi è civile, noi chi deve vivere o morire. Anche Zizek usa la categoria di "islamofascismo"

Da Mieli al feroce Houellebecq la macchina del consenso occidentalista dispensa e nega scomuniche e lavora, lavora...
Dal Toynbee italiano, in particolare, un articolo fenomenale per come mette cinicamente in atto, scoperchiandolo, il meccanismo di riconoscimento e non-riconoscimento attraverso il quale l'Occidente (e i suoi zelanti sotto-funzionari ideologici) allargano e restringono a convenienza i confini dello Spazio Sacro della cIviltà, della libertà, dei diritti umani, creando e disfacendo a piacimento regimi politici e intere nazioni  [SGA].

LE COLPE DI ASSAD (L’ALLEATO) 
Siria Posticipare la deposizione del tiranno di Damasco comporta conseguenze sgradevoli Per chiedergli aiuto sul campo bisogna praticare un oblio momentaneo sui crimini commessi

Campagna militare Non si può pensare di partecipare a un’impresa così ambiziosa senza dover pagare un prezzo 

19 nov 2015  Corriere della Sera Di Paolo Mieli © RIPRODUZIONE RISERVATA 

Come possiamo misurare se questa volta si sta davvero dando vita ad una coalizione capace di combattere il terrorismo islamico? Dall’impegno a dirci coraggiosamente alcune verità connesse a tale scelta. E a farlo nei modi più diretti, espliciti. Iniziando dalla prima (che non è nemmeno detto sia la più terribile): se è vero che Stati Uniti e Russia — e noi con loro — hanno deciso di rinviare ad un «secondo tempo» la deposizione di Assad, dovremo imparare ad obbedire in materia siriana ad una sorta di «legge dell’oblio». Quantomeno di un oblio momentaneo. La legge di cui stiamo parlando è quella che si autoimposero gli antifascisti italiani che tra il 1943 e l’inizio del 1944 avrebbero voluto liberarsi di Vittorio Emanuele III e del maresciallo Pietro Badoglio, ma dovettero cambiare proposito. Sbarcò in Italia Palmiro Togliatti che, su un saggio impulso di Stalin, suggerì il rinvio della questione istituzionale a un tempo successivo alla fine della guerra. Fu così che le due resistenze, quella vera e propria e quella sabauda, dimenticarono i motivi di ostilità e poterono combattere gomito a gomito. I conti li avrebbero fatti, ordinatamente, un anno dopo la conclusione del conflitto. La situazione di adesso è ovviamente diversa ma c’è qualcosa di simile. V eniamo, perciò, alle conseguenze sgradevoli della decisione di posticipare la questione Assad. La prima comporta l’abbandono al loro destino dei ribelli anti-Assad, quei «fantasmi» (la definizione è del ministro degli Esteri russo) sui quali Barack Obama aveva investito cinquecento milioni di dollari, ricevendone una delusione tale che già un mese fa era stata sospesa la generosa politica di aiuti. Dobbiamo poi iniziare a dimenticare (temporaneamente) come tutto ha avuto inizio: le manifestazioni di Damasco del marzo 2011, allorché gli uomini di Assad chiusero i manifestanti dentro le moschee per poi lasciarli uscire a piccoli gruppi, farli prendere a sassate e legnate da militanti baathisti e provocare in questo modo 180 morti nel giro di una decina di giorni. Dovremmo dimenticare (temporaneamente) che a novembre di quello stesso anno la Lega araba votò al Cairo una dura reprimenda contro la Siria anche in conseguenza del fatto che proprio in quei giorni, secondo un rapporto della Commissione di inchiesta indipendente dell’Onu, le forze di Assad avevano ucciso una quantità impressionante di oppositori tra i quali «almeno 256 bambini». 
Nel febbraio successivo, più di ottanta persone furono trucidate a Homs. Persero successivamente la vita, per mano di uomini di Assad, un fotografo francese e l’americana (inglese d’adozione) Marie Colvin del  Sunday Times. Da quel momento iniziò una vera e propria mattanza. Dobbiamo poi (temporaneamente) dimenticare la nuova strage di bambini che si consumò il 25 maggio del 2012 a Hula, definita «una tragedia brutale» dall’inviato Onu Robert Mood. E premere sulla Turchia perché affidi (momentaneamente) al dimenticatoio l’abbattimento, un mese dopo, del suo caccia F-4. Dobbiamo non pensare più alla diserzione, in luglio, del generale Manaf Tlass figlio di quel Mustafa Tlass che era stato braccio destro del padre di Assad, Hafez, nonché organizzatore del massacro di Hama del 1982. Ci sembrò che l’abbandono dell’ultimo erede di quella dinastia di sterminatori segnasse l’inizio della fine per l’autocrate siriano. Bene: quella sensazione di sollievo possiamo dimenticarcela definitivamente. Temporaneo dovrebbe essere invece l’oblio per quel che l’aviazione di Damasco iniziò a fare il 15 dicembre del 2012, bombardando il campo profughi palestinesi di Yarmuk; un missile centrò la moschea Abdel Qader Husseini provocando una strage nell’indifferenza di opinioni pubbliche occidentali in altre circostanze ben più vigili sulle sorti di quello stesso popolo. Dobbiamo (temporaneamente) dimenticare che l’anno successivo Assad cominciò a usare armi chimiche e che gli Stati Uniti, pur avendo annunciato che quella sarebbe stata l’invalicabile «linea rossa» prima di un loro intervento, non ritennero di reagire. Eravamo nell’estate del 2013 e a metà settembre Ban Kimoon sostenne che Assad aveva commesso «crimini contro l’umanità» annunciando che ci sarebbe stato «un processo per accertare le sue responsabilità» quando tutto fosse finito. Di questo, magari, ricordiamocene al momento opportuno. Evitiamo invece ( temporaneamente) di andare con la memoria alla vicenda di quel chirurgo trentaduenne, Abbas Khan, cittadino inglese, che fu fatto prigioniero dalla polizia siriana, tenuto in carcere tredici mesi finché quando, su pressione del Foreign Office, il regime ne annunciò la liberazione, i secondini comunicarono che si era suicidato in cella. 
Certo, sarà dura dover abbassare lo sguardo ogni volta che qualcuno ci rinfaccerà le due o trecentomila uccisioni volute da Assad. Ma, se vogliamo che la guerra contro l’Isis sia efficace, è giunto il momento di accantonare (temporaneamente) questi ricordi. E di farlo a testa alta, senza infingimenti, ammettendolo apertamente. Tanto più che, probabilmente, questo non sarà neanche il peggiore dei compromessi che ci verranno chiesti. Del resto sarebbe da sciocchi pensare che si possa partecipare ad un’impresa così ambiziosa senza essere costretti a pagare un prezzo. Limitiamoci, per il momento, ad evitare gli eccessi indotti dal realismo politico, a non inoltrarci per sentieri che potrebbero condurci alla beatificazione del despota di Damasco. Il poeta ottantacinquenne Ali Ahmad Said, in arte Adonis, in un’intervista al quotidiano di Beirut As-Safir ha testé sostenuto che Assad non è affatto un dittatore sanguinario, che è stato democraticamente eletto, che i profughi sono semplici migranti e che la Siria è minacciata da un complotto internazionale di forze oscure che vogliono distruggerla. Non sappiamo se sia anche in omaggio a queste sue dichiarazioni che tra qualche giorno la città tedesca di Osnabrueck gli assegnerà il premio per la pace intitolato a Erich-Maria Remarque. Ma, con tutto il rispetto per quel poeta, forse sarebbe saggio non dare eccessiva enfasi a quella cerimonia. 


IO ACCUSO HOLLANDE E DIFENDO I FRANCESI 
Colpe Alcuni leader hanno invischiato il Paese in operazioni all’estero che hanno generato caos Missione Gli ultimi governi hanno fallito sistematicamente nel compito di far sentire al sicuro la popolazione 
19 nov 2015 Corriere della Sera Di Michel Houellebecq

All’indomani degli attentati del 7 gennaio, ho passato due giorni incollato ai notiziari televisivi, senza riuscire a staccare lo sguardo. All’indomani degli attentati del 13 novembre, non credo nemmeno di aver acceso la televisione. Mi sono limitato a chiamare amici e conoscenti che abitano nei quartieri colpiti (e si tratta di parecchie persone). Ci si abitua, anche agli attentati. Nel 1986, Parigi è stata colpita da una serie di attacchi dinamitardi, in vari luoghi pubblici (si trattava dell’Hezbollah libanese, credo, che all’epoca ne rivendicò la responsabilità). C i furono quattro o cinque attentati, a distanza di pochi giorni, talvolta di una settimana, non ricordo molto bene. Ma quello che ricordo perfettamente bene era l’atmosfera che si respirava, in metropolitana, nei giorni successivi. Il silenzio, nei corridoi sotterranei, era totale, e i passeggeri incrociavano sguardi carichi di diffidenza. Questo, la prima settimana. Poi, assai rapidamente, le conversazioni hanno ripreso e l’atmosfera è tornata alla normalità. L’idea di un’esplosione imminente era rimasta nell’aria, pesava nella mente di tutti, ma già era passata in secondo piano. Ci si abitua, anche agli attentati. La Francia resisterà. I francesi sapranno resistere, anche senza sbandierare un eroismo eccezionale, senza aver nemmeno bisogno di uno «scatto» collettivo di orgoglio nazionale. 
Resisteranno perché non si può fare altrimenti, e perché ci si abitua a tutto. E nessuna emozione umana, nemmeno la paura, è forte come l’abitudine. 
Keep calm and carry on. Mantieni la calma e vai avanti. D’accordo, faremo proprio così (anche se — ahimè — non abbiamo un Churchill alla guida del Paese). Contrariamente a quanto si pensi, i francesi sono piuttosto docili e si lasciano governare facilmente, ma questo non vuol dire che siano dei completi imbecilli. Il loro difetto principale potrebbe definirsi una sorta di superficialità incline alla dimenticanza, e ciò significa che periodicamente occorre rinfrescar loro la memoria. La situazione incresciosa nella quale ci ritroviamo è da attribuire a precise responsabilità politiche; e queste responsabilità politiche dovranno essere passate al vaglio, prima o poi. È assai improbabile che l’insignificante opportunista che occupa la poltrona di capo di Stato, come pure il ritardato congenito che svolge le funzioni di primo ministro, per non parlare poi dei «tenori dell’opposizione» (LOL), escano con onore da questo riesame. 
Chi è stato a decretare i tagli nelle forze di polizia, fino a ridurle all’esasperazione, quasi incapaci di svolgere le loro mansioni? 
Chi ci ha inculcato, per tanti anni, che le frontiere sono un’assurdità antiquata, simbolo di un nazionalismo superato e nauseabondo? Si capisce subito che tali responsabilità sono state largamente condivise. 
Quali leader politici hanno invischiato la Francia in operazioni assurde e costose, il cui principale risultato è stato quello di far sprofondare nel caos prima l’Iraq, poi la Libia? E quali governanti erano pronti, fino a poco tempo fa, a fare la stessa cosa in Siria ? (Dimenticavo, è vero che non siamo andati in Iraq, non la seconda volta. Ma c’è mancato poco, e pare scontato che Dominique de Villepin passerà alla storia solo per questo, che non è poco: aver impedito che la Francia per una volta, la sola e unica volta della sua storia recente, partecipasse a un intervento militare criminale — e per di più idiota.) 
La conclusione inevitabile è purtroppo assai severa: i governi che si sono succeduti negli ultimi dieci anni (venti? trenta?) hanno fallito penosamente, sistematicamente, pesantemente nella loro missione fondamentale, cioè proteggere la popolazione francese affidata alla loro responsabilità. 
La popolazione, dal canto suo, non ha fallito in nulla. In fondo, non si sa esattamente che cosa pensa la popolazione, visto che i successivi governi si sono guardati bene dall’indire dei referendum (tranne uno, nel 2005, ma hanno preferito non tener conto del risultato). I sondaggi d’opinione, invece, sono sempre autorizzati e — per quello che valgono — rivelano grosso modo le cose seguenti: la popolazione francese ha sempre conservato fiducia e solidarietà nei confronti dell’esercito e delle forze di polizia; ha accolto con sdegno i predicozzi della « sinistra morale» (morale?) sull’accoglienza di rifugiati e migranti e non ha mai accettato senza sospetti le avventure militari estere nelle quali i suoi governanti l’hanno trascinata. 
Si potrebbero moltiplicare all’infinito gli esempi della spaccatura — oggi abissale — che si è venuta a creare tra i cittadini e coloro che dovrebbero rappresentarli. 
Il discredito che oggi colpisce in Francia l’insieme della classe politica è non solo dilagante, ma anche legittimo. E mi sembra che l’unica soluzione che ci resta sarebbe quella di dirigersi lentamente verso l’unica forma di democrazia reale, e con questo intendo dire la democrazia diretta.

Buruma. Spegniamo il fuoco sacro dei terroristi


Più che la guerra a uno Stato che non esiste l’unica alternativa per combattere l’Is è una strategia a lungo termine che riduca lo scontento dei giovani musulmani figli degli immigrati in Europa. Il fondamentalismo trova strada nella loro frustrazione Bisogna creare leggi e condizioni favorevoli alle vite di ragazzi di nome Ahmed o Fatima
IAN BURUMA Repubblica 18 11 2015
La foto di copertina del numero di febbraio di “Dabiq”, il mensile dell’Is, mostra il volto sorridente di un ragazzo belga di nome Abdelhamid Abaaoud, noto anche come Abu Umar al-Bajiki.
In mimetica, imbraccia fiero e compiaciuto un mitragliatore. Oggi è l’uomo sospettato di essere la mente della furia omicida di Parigi. L’atteggiamento spavaldo, da macho, di Abu Umar nella fotografia, mi ricorda in qualche modo un killer rivoluzionario di qualche tempo fa, oggi rinchiuso in un carcere francese: Carlos Ramírez Sánchez, alias “ lo Sciacallo”. Carlos si macchiò di numerosi rapimenti e omicidi negli anni Settanta e Ottanta nel nome del popolo palestinese e della rivoluzione mondiale.
Abu Umar parla a nome di un nuovo tipo di rivoluzione, di un immaginario califfato islamista. Dato che viviamo nell’era di Internet, il suo genere di violenza rivoluzionaria può diffondersi più rapidamente rispetto all’epoca di Carlos. Ma a quanto sappiamo di quest’ultimo e possiamo intuire di Abu Umar, entrambi coniugano una grande causa rivoluzionaria a una forma letale di narcisismo: uccidere è sexy.
L’attrazione esercitata dalla guerra santa dell’Is, promossa su infiniti siti web, tweet e altri social media, è facile da comprendere.
Come Carlos, Abu non è cresciuto nell’indigenza o in condizione di oppressione. Nato da genitori marocchini, ha frequentato una buona scuola di Bruxelles e, da studente, aveva fama di ragazzo allegro e spensierato. Qualunque sia il motivo o la persona che lo ha convertito alla violenza rivoluzionaria, l’Islam politico che professa è una forma estrema di fanatismo religioso, senza dubbio, ma non si può comprenderlo a dovere leggendo con più attenzione il Corano, così come la sete di sangue di Carlos non si può ricondurre alla semplice lettura del Capitale. I rivoluzionari sanguinari sono tendenzialmente affascinati da un culto di morte. La grande maggioranza dei musulmani non subisce questo fascino. Definire “scontro di civiltà” gli omicidi di Parigi è assurdo. Implicherebbe da parte dell’“Occidente” una guerra santa contro L’Islam, ovunque esso sia, proprio quello che i brutali propagandisti dell’Is gradirebbero. Anche la dichiarazione di guerra all’Is per bocca di François Hollande appare poco indovinata. Si può dichiarare guerra a uno Stato, non a una tattica (il “terrorismo”) o a una causa globale. Bombardare i territori nelle mani dell’Is in Iraq e in Siria può avere senso o meno sotto il profilo militare, ma non ridurrà il fascino sanguinario che l’Islam rivoluzionario esercita su uomini come Abu Umar. Probabilmente lo accrescerà, perché li conferma nella loro grandiosa convinzione di combattere una “guerra contro l’Occidente”.
La forza di un movimento rivoluzionario come l’Is sta nella sua fluidità, nella capacità di apparire d’incanto ovunque l’autorità politica sia crollata e bande armate, rivoluzionarie, semplicemente criminali o entrambe le cose, siano in grado di sottomettere le persone con il terrore. A creare tanta violenza selvaggia a Madrid, Amsterdam, Londra, Bruxelles, e Parigi è un connubio letale tra le ideologie che emergono dalle guerre civili in Medio Oriente e i giovani frustrati o semplicemente annoiati, in Occidente. Finché esisterà questo legame il problema non sarà risolto. L’unica alternativa resta una strategia a lungo termine che riduca lo scontento dei giovani, in particolare i figli e le figlie degli immigrati. Significa che bisogna creare leggi e condizioni favorevoli all’occupazione dei giovani di nome Ahmed o Fatima. Significa maggiore integrazione delle minoranze nelle scuole. Nulla di tutto ciò produrrà effetto immediato, ma parlare di guerra può solo rallentare un processo che deve necessariamente aver luogo. Sappiamo cosa attrae una pericolosa minoranza di giovani come ragione di morte. Bisogna assolutamente offrire loro una superiore ragione di vita.



Todorov. “Siamo feriti ma difendiamo la democrazia”
 “Le offese che abbiamo subito sono gravi ma non devono mettere in pericolo le nostre libertà Se trasformassimo i nostri Stati in regimi di polizia e di sorveglianza onnipresenti, daremmo la vittoria al terrorismo. Non si può vivere in una condizione di emergenza permanente. Più che colpire il Califfato, sosteniamo i suoi avversari locali”
ANTONELLO GUERRERA

«Venerdì siamo stati tutti feriti, gravemente. Ma attenzione. Anche noi possiamo diventare “barbari” come gli jihadisti. Non dimentichiamolo mai».
Tzvetan Todorov è uno dei più lucidi intellettuali europei. Nato in Bulgaria 76 anni fa, conosce bene Parigi, dove si trasferì nel 1963. E gli attacchi dell’Is in Francia hanno provocato in lui dolore e timore per il futuro dell’Occidente, cui Todorov ha dedicato molta della sua ampia bibliografia. Uno dei suoi saggi più celebri è La paura dei barbari. Oltre lo scontro delle civiltà
(Garzanti), in cui il grande pensatore bulgaro ammoniva gli europei sulla minaccia di cedere all’islamofobia e alla violenza.
Tzvetan Todorov, stiamo davvero andando verso uno scontro di civiltà?
«L’elemento islamico è certamente presente negli eventi recenti. Ma non è il solo. Il Medio Oriente con le sue risorse naturali è stato oggetto di molte avidità in passato. La memoria del colonialismo è viva e motivo di risentimento. Ma la lotta per il potere, quale che esso sia, non ha bisogno di un elemento religioso. In ogni caso, è vero che oggi il solo fondamentalismo religioso che provoca questo tipo di reazioni viene dall’Islam».
Ma quanto c’entra la religione con un’ideologia sterminatrice come quella dell’Is?
«Alla radice di questi fenomeni sanguinari sembra esserci non il Corano, ma fenomeni politici più recenti: la forza della corrente tradizionalista e più letterale dell’Islam che viene sostenuta da ingenti mezzi finanziari (i “petrodollari”) e l’incapacità delle élite politiche dei paesi arabo- musulmani di intraprendere una trasformazione efficace delle loro società, come avviene in altri paesi in via di sviluppo».
E ora siamo «in guerra», dice Hollande. Lei come ha reagito all’annuncio del presidente?
«A dire il vero, siamo in guerra da vari mesi, da quando la Francia ha annunciato di aver bombardato l’Is in Iraq e in Siria. Anche le nostre bombe fanno delle vittime. I loro volti, tuttavia, non ci sono così familiari. Le nostre vittime hanno un nome. Le loro no. Questi attentati sono stati presentati dai loro perpetratori come una rappresaglia contro i nostri attacchi, che a loro volta sono stati definiti una risposta punitiva ad altre offensive subite precedentemente dalla popolazione francese. La tentazione della vendetta è un fattore spesso sottovalutato. Poi certo, i mandanti degli attentati hanno indubbiamente una serie di ulteriori motivazioni: teologiche (ristabilire il Califfato) e politiche (riaffermare il loro potere rispetto a formazioni rivali)».
Però i raid occidentali in Siria non hanno l’obiettivo di uccidere innocenti, anche se poi spesso accade purtroppo. Gli attentati dell’Is sì, invece.
«Certo. Infatti questo costituisce, almeno da noi, un crimine di guerra».
Ma quindi come giudica la decisione della Francia di bombardare ancor più la Siria?
«Sono molto scettico. Meglio sostenere gli avversari locali dell’Is. Il precedente degli Stati Uniti dopo l’11 settembre ci suggerisce che i raid aerei contro i terroristi non fanno che incrementare il loro numero. E producono sempre “sbavature” che suscitano nuove vocazioni nonché devianze nella nostra lotta al terrorismo, come l’uso della tortura dopo le Torri Gemelle. Scivolare verso la barbarie non è prerogativa dei soli musulmani radicali, come alcuni pensano».
Lei ha scritto che la democrazia non è in pericolo a causa di fattori esterni come il terrorismo. Lo pensa ancora?
«Le offese che abbiamo subìto sono gravi, ma non penso che mettano in pericolo la sopravvivenza della democrazia. Al contrario, si assiste a una convergenza delle forze politiche del Paese e a un rafforzamento della solidarietà in seno alla popolazione. Intensificare la raccolta di informazioni continuerà a essere una misura indispensabile, a patto che resti sotto il controllo giudiziario. I nemici interni invece seguono un altro percorso».
Quale?
«Sono emanazioni della democrazia stessa, che la svuotano del suo vero senso. Resistere a loro è difficile perché si presentano sotto la maschera di democrazia. Succede quando l’appello al popolo viene soppiantato dal populismo. Quando la richiesta della solidarietà internazionale diventa messianismo armato. Quando la difesa della libertà provoca lo smantellamento della legge e della giustizia».

 Darrieussecq. Quei romanzi che ci aiutano a sopravvivere
Una serata come tante che si trasforma nell’11 settembre francese. E una scrittrice residente nella capitale che racconta come ha reagito all’orrore. Tra appunti, stesura di articoli per i giornali e letture dei classici: da Rilke a Zola, passando per Brecht Per scoprire che i grandi autori del passato ci consentono di affrontare il presente
MARIE DARRIEUSSECQ

Scrivere, come sempre. Sapere di che cosa si parla, certo, ma scrivere finché si è vivi. E leggere. Leggevo “À pas aveugles de par le monde”, il romanzo di Leïb Rochman, quando mi è arrivato un primo messaggio dal mio coeditore, Jean-Paul, che vive vicino a Place de la République: «Ero in rue Oberkampf e tutti si sono messi a correre. Sono rientrato. Gli amici di mio figlio, rifugiati da noi, hanno visto qualcosa accadere in rue de la Fontaine- au-Roi. E anche in un caffè dalle parti di Charonne». Ho telefonato a Charlie Hebdo, lì niente di strano. Ho acceso radio e televisione, c’era una partita tra Francia e Germania, e, nel frattempo, la radio ha detto che Hollande era stato scortato fuori dallo stadio.
Il resto della serata l’ho trascorsa come voi che siete vivi: a leggere messaggi, seguire i notiziari, cercare il significato esatto di “stato d’emergenza”, tranquillizzare l’uccellino da serra che vive nel mio petto. Ho ascoltato per la prima volta gli Eagles of Death Metal, una band che ha un formidabile senso dell’ironia. Sì, ho passato la serata come voi viventi, con la vicina di casa bloccata dall’altra parte di Parigi che mi ha chiesto se potessi dare il cambio alla sua baby sitter, e alcuni amici andati a un vernissage vicino a boulevard Voltaire che sono rimasti bloccati all’interno della galleria d’arte («per fortuna ci sono i pasticcini» mi ha scritto un irriducibile parigino), mentre un altro, direttore d’ospedale, ha raggiunto in tutta fretta il suo posto di lavoro. Parigi, la mia bella città, la mia città ferita. La torre Eiffel, il cui faro risplende nelle mie finestre, si è spenta. E poi ho scritto un articolo per un giornale svedese. E poi ho ripreso in mano i miei vecchi libri, non riuscivo ad addormentarmi, e sfogliandone le pagine ho letto i seguenti brani.
Appello del 14 novembre 1902 di Laurent Tailhade alle nuove reclute: «Non fate in questa nuova veste ciò che non avreste fatto da uomini liberi. Soprattutto questo: non uccidete!».
Brecht, Ballata sull’approvazione del mondo: «Non sono ingiusto, ma nemmeno prode. Quest’oggi il loro mondo mi han mostrato, e ho visto solo il loro dito insanguinato».
Zola, La fortuna dei Rougon: «Le porte furono ufficialmente chiuse, in pieno giorno. Questo provvedimento, preso per rassicurare la popolazione, di fatto ingigantì la paura. E non vi fu nulla di più curioso di quella città che in pieno giorno si rinchiudeva e sprangava i chiavistelli».
E infine Rilke, in una lettera a Lou Andreas-Salomé: «Cara Lou, quando tu appari, come accade talvolta nei miei sogni, quel sogno e la sua eco il giorno seguente sono più reali della realtà, sono fatti concreti e il mondo che mi circonda. Le ultime tre notti sono trascorse così: vicino a te che mi infondi calma, pazienza, tranquillità ».


Pennac. “Ora evitiamo lo spettacolo del dolore”
 “Le immagini da Parigi ci mostrano scene di morte e angoscia autentiche. Ma la bulimia di informazione e il sensazionalismo mediatico trasformano immediatamente questa realtà in un nuovo show. Corriamo così il rischio di rimanere accecati e di perdere la sacralità della sofferenza che andrebbe sempre salvata”
FABIO GAMBARO

«Di fronte all’orrore di quello che è accaduto a Parigi sono senza parole. La mia prima reazione è di non avere nulla da dire, anche perché
non voglio alimentare lo spettacolo a spese del dolore che inevitabilmente scatta in queste situazioni ». Dopo i massacri per le vie della capitale francese, Daniel Pennac mette soprattutto in guardia dal sensazionalismo. «I media che trasformano la morte in spettacolo fantasmagorico sono una forma di pornografia», spiega il romanziere francese, aggiungendo: «Le persone che stanno soffrendo non lo meritano. È il motivo per cui non avrei voluto fare questa intervista».
Prima questo spettacolo della guerra e della morte era lontano. Adesso è invece sotto casa...
«Ci eravamo abituati a uno spettacolo solo televisivo. Quando in Iraq un drone bombardava un matrimonio uccidendo decine di persone ci sembrava un fatto lontano e quasi normale. Oggi però quelle immagini diventano una realtà concreta fatta di morte e sofferenza reali. Il problema è che la bulimia dell’informazione trasforma immediatamente questo reale in nuovo spettacolo. Quando le televisioni fanno ore di diretta ritrasmettendo sempre le stesse testimonianze, anche il dolore vero diventa irreale. Purtroppo viviamo in una società che adora filmare la propria morte in diretta per farne un oggetto di consumo. Questa spettacolarizzazione sfrutta, nega e desacralizza un dolore che invece dovrebbe essere sacro. E questo spettacolo è come se ci accecasse. Si può solo sperare che da tale diluvio d’informazione alla fine resti qualche elemento utile e qualche frammento d’umanità. Penso per esempio a quell’uomo, che dopo la morte della moglie al Bataclan, ha scritto ai terroristi che non avrebbero mai avuto il suo odio».
I giovani sono tornati ad affollare bistrot e ristoranti. È una reazione salutare?
«Certo. I giovani sanno che altre vite sono state spezzate. E tale coscienza produce in loro un’empatia nei confronti degli altri. Da qui il bisogno di riunirsi, partecipare e condividere la propria pena. Però poi in loro prevale l’energia vitale che reagisce alle aggressioni esterne rifiutando di farsi imporre la paura».
Anche i terroristi erano giovani. Perché in loro il desiderio di vita non ha prevalso?
«Nelle loro azioni omicide c’è la ricerca di sensazioni estreme ai limiti dell’estasi, come nello stordimento prodotto da una droga. A ciò si deve aggiungere la fascinazione per le armi e l’universo iperviolento dei videogiochi. Così, il passaggio dalla dimensione ludica a quella tragica della realtà viene probabilmente vissuto come il semplice passaggio a un livello più avanzato del gioco. Il mondo reale come prosecuzione dell’universo virtuale ».
Alla fine però c’è il suicido reale di chi si fa esplodere...
«È un gesto vigliacco, perché consente al kamikaze di sfuggire al confronto con la realtà e con le conseguenza delle sue azioni. Suicidandosi, sfugge alla giustizia, alla riprovazione delle vittime, al confronto con la propria coscienza. Anche qui c’è una volontà di accecamento di se stesso, ma anche degli altri che saranno accecati dall’enormità del loro gesto: il kamikaze lascia agli altri il compito di fare i conti con le conseguenze dei suoi atti».
Raccontando il quartiere di Belleville, lei ha sempre difeso un società cosmopolita e tollerante. Ora è inquieto?
«A Belleville comunità, culture e religioni diverse sono riuscite a convivere armoniosamente. Ma la violenza degli ultimi attentati rischia di mandare in frantumi la coesistenza pacifica, come è accaduto a Beirut o a Sarajevo. Una violenza indiscriminata può produrre fratture insanabili e si fa in fretta creare un capo espiatorio. Spero che questi quartieri abbiano abbastanza anticorpi per reagire».
Il discorso vale anche per la banlieue?
«Purtroppo la banlieue è stata abbandonata da molto tempo a se stessa. Da quando sono spariti i militanti comunisti e i servizi pubblici, quei quartieri sono finiti in mano ai fondamentalisti islamici. E i governi successivi hanno lasciato fare, in nome di un’illusoria pace sociale. Ma anche questa è una forma di accecamento. Quando poi un bel giorno si scopre che nelle banlieue sono cresciuti i kamikaze, il ritorno alla realtà diventa drammatico per tutti».

Krugman. Non possiamo arrenderci alla paura
La scelta di uccidere persone a caso nei locali o durante un concerto è specchio della debolezza di fondo degli assassini. Il maggior pericolo per la nostra società non deriva dai danni diretti del terrorismo. Ma dalle reazioni sbagliate che questo è in grado di provocare. Come insegnano gli errori commessi dopo l’11 settembre
PAUL KRUGMAN

Come milioni di persone continuo a seguire ossessivamente le cronache da Parigi, mi concentro sull’orrore, mettendo da parte il resto. È la normale reazione. Ma sia chiaro, è la
reazione che i terroristi auspicano e non tutti, a quanto sembra, lo capiscono. Come Jeb Bush, che definisce gli attacchi «un tentativo organizzato di distruggere la civiltà occidentale». Macché. Sono un tentativo organizzato di seminare il panico, che non è affatto la stessa cosa. Affermazioni di questo genere vanno a vantaggio della causa jihadista. Pensate un attimo alla Francia e a cosa rappresenta. È vero, ha dei problemi, ma quale Paese non ne ha? Però è una democrazia solida, che gode di profonda legittimazione popolare. Il bilancio della difesa francese è ridotto rispetto a quello statunitense, ma il Paese è comunque una potenza militare. La Francia non sarà conquistata dall’Is, né ora né mai. La strategia di uccidere persone a caso nei ristoranti e ai concerti è specchio della debolezza di fondo di chi la pone in atto. Non porterà a fondare un califfato a Parigi. Però un effetto lo ha, instilla la paura, per questo si chiama terrorismo ed è sbagliato attribuirgli dignità di guerra. Non intendo con questo minimizzare l’orrore, ma evidenziare che il maggior pericolo per la nostra società non deriva dai danni diretti che il terrorismo infligge, bensì dalle reazioni sbagliate che è in grado di provocare. L’11 settembre 2001 il segretario alla difesa Donald Rumsfeld esortò i suoi a «Fare piazza pulita», suggerendo subito di sfruttare gli attacchi come scusa per invadere l’Iraq. Ne è derivata una guerra disastrosa, che ha dato man forte ai terroristi e ha creato le condizioni per l’ascesa dell’Is. E non si è trattato solo di un errore di giudizio.
Il terrorismo è solo uno dei tanti pericoli esistenti al mondo e non dovremmo farci distrarre trascurando altri problemi. Mi spiace per i conservatori, ma il presidente Obama ha ragione a dire che il cambiamento climatico è la più grande minaccia che dobbiamo affrontare. Il terrorismo non può distruggere la nostra civiltà, il riscaldamento globale invece sì. Come reagire al terrorismo quindi? Prima degli attentati di Parigi la reazione generale dell’Occidente includeva misure di polizia, precauzioni e intervento militare, sulla base di ardui compromessi tra sorveglianza e diritto alla privacy, protezione e libertà di movimento, l’obiettivo di negare ai terroristi spazi di rifugio e i costi e i rischi di un impegno bellico all’estero. È sempre stato ovvio che di quando in quando ci sarebbe scappato un attacco. Parigi forse ha cambiato un po’ le carte in tavola soprattutto riguardo alla straziante questione dei profughi, un problema oggi ancor più spinoso. E servirà un’autopsia per capire come mai un piano terroristico così complesso non sia stato sventato. Ma ricordate quando si diceva che l’11 settembre avrebbe cambiato tutto? Non lo ha fatto e neppure questa atrocità lo farà. La cosa più importante è che le nostre società rifiutino di arrendersi alla paura.


Salmon. Come si batte la narrazione del Terrore
 Contro la jihad il bellicismo non basta, bisogna capirne a fondo le strategie comunicative. Scoprendo che alla base della propaganda non c’è solo marketing, ma un vero e proprio storytelling: una mitologia a base di personaggi come “il cavaliere eroico”, simile a videogame come “Call of Duty”. È questa rappresentazione della realtà che va smontata
CHRISTIAN SALMON

Ancora una volta il terrorismo ha colpito a Parigi. Ma stavolta è stato un atto di rappresaglia contro l’impegno militare francese in Siria. Secondo varie testimonianze, nella sala
da concerto del Bataclan i terroristi avrebbero dichiarato: «La colpa è di Hollande. Non doveva intervenire in Siria». È dunque in nome del barbaro principio della responsabilità collettiva, rovesciando su un intero popolo le responsabilità degli atti dei suoi rappresentanti — principio applicato su vasta scala dai nazisti, ma anche dalle potenze coloniali nelle guerre d’indipendenza — che i terroristi hanno massacrato 129 persone. L’azione di Daesh non è altro che un crimine di ispirazione fascista, ed è a questo titolo che va condannata. Tuttavia Hollande non ha esitato a saltare il fosso con una scelta semantica e simbolica forte, definendo l’attentato del 13 novembre un «atto di guerra». Il che giustificherebbe nuovi bombardamenti oltre a misure di sicurezza a suo tempo proposte dalla destra, e lo stato d’emergenza per 3 mesi, prorogabili con una revisione costituzionale; in breve, un “patriot act” alla francese.
In un editoriale, il Guardian ha però ricordato alcuni fatti evidenti che smontano il cieco bellicismo di tanti. “Se anche lo Stato islamico avesse realmente fatto una dichiarazione di guerra con quei massacri, ciò non significa che la Francia debba restituirgli il “complimento”. Dichiarare guerra all’Is vorrebbe dire infatti concedergli lo status che va cercando, conferendogli la dignità di uno Stato”. Il quotidiano inglese spiega come questo tipo di reazione sia ereditata dagli Usa, e cita la politica di Bush dopo l’11 settembre definendo quelle decisioni “disastrose”.
Bisogna dunque agire su altri terreni e poiché il terreno dell’Is è anche quello della propaganda, va contrastata proprio questa narrazione rivolta ai giovani. Secondo un rapporto del Centro di Prevenzione contro le derive settarie dell’Islam in quasi il 91% dei casi il metodo di reclutamento privilegiato dai jihadisti è Internet.
Contrariamente ai luoghi comuni sul ruolo degli imam radicali, il passaggio non avviene più automaticamente attraverso le moschee. Il rapporto riferisce che «a volte i giovani partono, o si apprestano a partire per la Siria senza aver mai partecipato alle preghiere»; e spiega il modo in cui i reclutatori digitali riescono a creare «uno spazio virtuale sacro» e personalizzato. Grazie alla loro perizia nell’uso di Internet riescono effettivamente a «proporre offerte su misura, in grado di far presa su giovani molto diversi tra loro». L’universo dei videogiochi, cui ricorrono anche gli americani per il reclutamento di volontari, è un eccellente strumento di desocializzazione, addestramento e assuefazione alla violenza, che può indurre a passare all’azione e a partire verso un teatro di operazioni reali. Secondo Tony Corn, membro del think tank repubblicano Hoover, nella nuova situazione strategica creata da Internet e dai videogiochi «i dilettanti continuano a parlare di “messaggio”, mentre per i professionisti della lotta antiterrorismo si tratta di narrazioni». I reclutatori di Daesh hanno messo a punto alcuni grandi miti: il modello del “cavaliere eroico” destinato ai ragazzi, la partenza per una “causa umanitaria” proposta alle giovani idealiste, il “portatore d’acqua” per chi è alla ricerca di un leader, il videogioco di guerra Call of duty rivolto ai giovani attratti dall’azione violenta e animati da un desiderio di onnipotenza. Fin dal 2005, in un articolo intitolato Storytelling e terrorismo, due esperti del “Center for Contemporary Conflict” avevano affermato che si deve tener conto delle «storie raccontate dai terroristi ». Secondo questi autori «la nascita, la maturazione e la trasformazione delle organizzazioni terroristiche si basano su narrazioni che vanno decodificate per definire una strategia per minarne l’efficacia». La demolizione del mito fondatore di Al Qaeda presupponeva, per esempio, la capacità di proporre un «mito alternativo, una storia migliore di quella proposta dai mangiatori di miti».




Hirsi Ali. Così l’Europa può salvarci dal fanatismo
 Per i leader europei una proposta in tre punti con cui reagire agli attacchi: studiare le tecniche antiterrorismo di Israele, da sempre costretto ad affrontare la minaccia attentati; prepararsi a una vera battaglia culturale contro la propaganda del Califfo, in tutte le sue forme; pensare a una politica dei flussi molto diversa da quella di Schengen
AYAAN HIRSI ALI
l presidente francese François Hollande il 13 novembre ha dichiarato che gli attacchi terroristici di Parigi sono stati un «atto di guerra» da parte dello Stato Islamico: e ha ragione, anche se ci ha messo
molto a rendersi conto che i jihadisti, ormai da anni, sono in guerra contro l’Occidente. Lo Stato Islamico, o Is, promette altri attacchi in Europa, e l’Europa tutta, non solo la Francia, deve scendere sul piede di guerra, unendosi per fare tutto quello che serve, sul piano militare, per distruggere l’Is e il sedicente califfato fondato in Siria e in Iraq. Non “contenere”, non “ridimensionare”: distruggere, punto e basta. Ma anche se l’Is venisse distrutto, l’estremismo islamico non scomparirebbe. Anzi, la distruzione dell’Is accrescerebbe il fervore religioso di quelli, in Europa, che sognano un califfato. I leader europei devono prendere decisioni politiche importanti, e la Francia può assumere un ruolo guida. Ecco tre passi che i leader europei potrebbero fare per sradicare il cancro dell’estremismo islamico.
Primo: imparare da Israele, che ha a che fare con il terrore islamista dal giorno in cui è nata e deve affrontare minacce molto più frequenti. È vero che oggi gli estremisti islamici in Israele usano coltelli e automobili come armi principali, ma lo fanno perché è semplicemente impossibile organizzare attacchi come quelli di Parigi. Invece di demonizzare Israele, bisogna chiamare in Europa i loro esperti per sviluppare una strategia antiterrorismo.
Secondo: prepararsi per una lunga battaglia delle idee. I leader europei dovranno prendere di mira l’infrastruttura dell’indottrinamento: le moschee, le scuole islamiche, i siti web, le case editrici, gli opuscoli, i libri, i sermoni. I governi europei devono fare a loro volta proselitismo all’interno delle comunità musulmane.
Terzo: gli europei devono disegnare una nuova politica migratoria, che ammetta gli immigrati solo se questi si impegnano a rispettare i valori europei e a rigettare proprio quell’islamismo politico che li rende vulnerabili al richiamo del califfato. Le attuali politiche migratorie dell’Europa presentano dei punti deboli: è troppo facile ottenere la cittadinanza senza essere necessariamente fedeli alle Costituzioni nazionali; è troppo facile per gli extracomunitari entrare nei Paesi dell’Unione Europea, con o senza ragioni credibili per chiedere asilo; e grazie al sistema di frontiere aperte noto come Schengen, è troppo facile per gli stranieri, una volta che sono nell’Unione Europea, spostarsi liberamente da un paese all’altro.
Stiamo parlando di una «Fortezza Europa», con una nuova Cortina di Ferro a est e un cordone sanitario navale nel Mediterraneo e nell’Adriatico? Sì. Perché nessun’altra strategia ha senso, di fronte alla minaccia rappresentata dall’estremismo islamico per l’Europa. Forse siamo di fronte allo spartiacque che consentirà all’Europa di ripensare la strada che sta seguendo.

Zizek. Ma i migranti sono vittime due volte
 Troppo spesso dimentichiamo come la quotidianità del terrore, che noi sperimentiamo sporadicamente, in tanti paesi, dalla Siria alla Nigeria, è la realtà di ogni giorno. Così come il dramma dei rifugiati che arrivano in Europa, in fuga dall’islamofascismo dell’Is e poi bersaglio dell’odio xenofobo. Ecco perché è ancora necessario lottare per gli oppressi
SLAVOJ ZIZEK

Certo, gli attentati terroristici di venerdì 13 a Parigi vanno condannati senza riserve, ma... bando alle scuse, vanno condannati davvero, quindi non basta il patetico spettacolo
di solidarietà di tutti noi (persone libere, democratiche, civili) contro il Mostro musulmano assassino. Nella prima metà del 2015, a preoccupare l’Europa erano i movimenti radicali di emancipazione (Syriza, Podemos) mentre nella seconda l’attenzione si è spostata sulla questione “umanitaria” dei profughi — la lotta di classe è stata letteralmente repressa e rimpiazzata dalla tolleranza e dalla solidarietà tipiche del liberalismo culturale. Ora, dopo le stragi del 13 novembre, questi concetti sono stati eclissati dalla semplice opposizione di tutte le forze democratiche, impegnate in una guerra spietata contro le forze del terrore — ed è facile immaginarne gli esiti: ricerca paranoica di agenti Is tra i rifugiati. I più colpiti dagli attentati di Parigi saranno i rifugiati stessi e i veri vincitori, al di là degli slogan stile je suis Paris, saranno proprio i sostenitori della guerra totale da entrambe le parti. Ecco come condannare davvero le stragi di Parigi: non limitiamoci alle patetiche dimostrazioni di solidarietà, ma continuiamo a chiederci a chi giova. I terroristi dell’Is non vanno “capiti”, vanno considerati per quello che sono, islamofascisti, in antitesi ai razzisti europei anti-immigrati, due facce della stessa medaglia.
Ma esiste un ulteriore aspetto che dovrebbe farci riflettere — la forma stessa degli attentati: un estemporaneo, brutale, sconvolgimento della normale quotidianità. Questa forma di terrorismo, una turbativa momentanea, è caratteristica soprattutto degli attentati nei paesi occidentali sviluppati, in contrasto con paesi del Terzo Mondo in cui la violenza è realtà permanente. Pensiamo alla quotidianità in Congo, Afghanistan, Siria, Iraq, Libano... quando mai si manifesta solidarietà internazionale di fronte a qualche centinaio di morti in questi paesi? Dovremmo ricordarci ora che noi viviamo in una “sfera” in cui la violenza terrorista esplode di quando in quando, mentre altrove (con la complicità occidentale) la quotidianità è terrore e brutalità.
I recenti attentati terroristici a Parigi al pari del flusso dei profughi, sono per noi un momentaneo promemoria del mondo violento al di fuori della nostra sfera, un mondo che in genere vediamo in televisione, remoto, distante, non come parte della nostra realtà. È per questo che è nostro dovere acquisire piena consapevolezza della violenza brutale che impera fuori dalla nostra sfera, non solo violenza religiosa, etnica e politica, ma anche violenza sessuale. Nella sua straordinaria analisi del processo Pistorius, Jacqueline Rose indica che l’omicidio della fidanzata va interpretato nel complesso contesto della paura che i bianchi nutrono nei confronti della violenza dei neri nonché della terribile e diffusa realtà della violenza contro le donne: «Ogni quattro minuti in Sudafrica una donna o una ragazza, spesso adolescente, talvolta bambina — è vittima di stupri denunciati e ogni otto ore una donna viene uccisa dal compagno». In Sudafrica questo fenomeno ha un nome: “femminicidio seriale”.
È un aspetto che non deve essere assolutamente considerato marginale: da Boko Haram e Mugabe fino a Putin, la critica anticolonialista dell’Occidente si configura sempre più come rifiuto della confusione “sessuale” occidentale e richiesta di tornare alla tradizionale gerarchia sessuale. Sono ben consapevole che l’esportazione non mediata del femminismo occidentale e dei diritti umani individuali può fare il gioco del neocolonialismo ideologico e economico (ricordiamo tutti che alcune femministe americane hanno appoggiato l’intervento statunitense in Iraq come mezzo per liberare le donne locali, con il risultato esattamente opposto). Ma in ogni caso assolutamente rifiutare di trarne la conclusione che gli occidentali di sinistra dovrebbero scendere a un “compromesso strategico” tollerando in silenzio “il costume” di umiliare le donne e gli omosessuali a beneficio della lotta anti-imperialista.
Quindi torniamo alla lotta di classe e l’unico modo per farlo è ribadire la solidarietà globale degli sfruttati e degli oppressi. Senza questa visione globale la patetica solidarietà alle vittime di Parigi è un’oscenità pseudo-etica.




Silvia Ronchey. La fiction occidentale del Califfato
 La natura dell’antico regime musulmano non ha nulla a che fare con quella del sedicente Stato islamico di oggi Quella di Parigi è una narrazione orrifica del fondamentalismo che ha poco di orientale. È una proiezione mediatica della nostra idea dell’infedele
Perché l’Is descrive e oggettiva la nostra stessa demonizzazione dell’islam
SILVIA RONCHEY

«Se guardi ciò che Maometto ha portato di nuovo, troverai solo cose cattive e disumane, come la sua direttiva di diffondere per mezzo della spada la fede che predicava». La radice dell’idea tanto distorta quanto ormai vulgata sulla natura intrinsecamente violenta della religione islamica e sulla barbarie della sua tradizione bellica, che trapela dalla pubblicistica specialmente americana, sta forse nelle parole che Benedetto XVI citò nel 2006 a Ratisbona, chiamando tendenziosamente in causa l’imperatore bizantino Manuele II, rappresentante dell’impero che nel medioevo più a lungo e più da vicino aveva conosciuto l’ecumenismo egualitario, ispirato alla predicazione di Maometto e a espliciti brani del Corano, che contraddistingueva il califfato ommayade, abbaside, fatimida, poi il sultanato selgiuchide e osmano. Nel pacifico dialogo con il direttore della madrasa di Ankara, nel 1391, il basileus Manuele affermava che «la conversione mediante violenza è cosa irragionevole e contraria alla natura di Dio», ma si riferiva sottilmente alla Quarta Crociata, che nel 1204 aveva “deviato” su Costantinopoli scagliando sul ricco impero una razzia ben più vandalica e rovinosa di quella portata due secoli e mezzo dopo dalla conquista turca. Un modello di guerra santa cristiana perpetrata da eserciti cristiani che portavano nel nome di Dio devastazioni e massacri di massa.
Non solo la natura dell’antico califfato – cui la propaganda dell’Is oggi rinvia con la stessa tendenziosa attualizzazione ideologica con cui poteva rifarsi Mussolini alla Roma di Augusto – non ha nulla a che fare con quella del sedicente stato islamico di al-Baghdadi. Non solo la sovrastruttura religiosa che invoca non rispecchia quella dell’antico islam a livello scritturale, dottrinale, storico. Ma il comportamento dell’islam nelle sue guerre califfali è il contrario esatto di quello che abbiamo visto, in una sorta di aberrante trailer, nell’atroce regia degli attentati di Parigi. L’immagine del barbaro musulmano che il copione vuole offrirci, coerente con le sanguinarie performance con cui l’Is ha scandito la sua avanzata in oriente, mirante a indurre nell’occidente un delirio collettivo, porta le nostre più profonde paure al parossismo nel momento in cui ci restituisce non tanto un’immagine di sé quanto quella sedimentata dal tempo nel nostro inconscio sociale: un’immagine propagandistica creata nel medioevo, nella sua storiografia confessionale in particolare papista, e ripresa acriticamente a partire dall’11 settembre da una propaganda globale che ha insinuato l’”intrinseca negatività” della religione musulmana. Quella di Parigi è una narrazione orrifica del fondamentalismo che ha poco di fondatamente orientale, ma è essenzialmente costruita con materiali occidentali. È una riverberazione mediatica della nostra idea dell’infedele islamico come barbaro sterminatore storicamente ancora meno legittima di quella del cristiano come crociato specularmente propalata nel 2001 dal fanatico proclama urbi et orbi di Osama Bin Laden, quando, pochi giorni dopo l’11 settembre, lanciò attraverso al-Jazeera il suo storico appello “contro i crociati americani”. Lo spettacolo sacrificale di Parigi è un uso mistificato di una narrazione fittizia dell’islam: della sua fiction, concepita per produrre orrore mettendo in scena un dramma che ha l’insensatezza incalzante dell’horror occidentale, che coinvolge il giovane pubblico dello stadio e del teatro, che avvera nel sangue il suo plot e lo amplifica riecheggiandolo nell’utenza mediatica totale.
Quella di Parigi è un’autentica autodemonizzazione. Più che riuscita, se ha spinto Obama a proclamare che l’Is è il diavolo. Affermazione giusta e perfino salutare se intesa a livello psicologico, perché è appunto questo, il male assoluto, che l’Is vuole rappresentare.
Molto pericolosa e ingiusta se rischia di immedesimare quel diavolo nella religione e nella tradizione che falsamente l’Is sostiene di rappresentare. Nella fantasia di sé come incarnazione dell’islam che con la sua strategia comunicativa vuole diffondere è deviante, accecante, ambiguo, delusivo e già in questo autenticamente diabolico, secondo la tradizionale accezione patristica cristiana del diavolo, in greco diabolos, l’obliquo, il mistificatore, il tentatore che nel deserto usa le nostre stesse visioni e fantasie. Contro l’entificazione del diavolo, la sua identificazione nell’uno o nell’altro ente reale, si sono battuti due millenni di teologia cristiana, da Agostino in poi. Nel discorso più profondo di ogni religione, il demonio, il maligno, è l’ingannatore che agisce in noi. Se l’Is descrive e oggettiva la nostra stessa demonizzazione dell’islam, il fanatismo dell’Is realmente rappresenta il diavolo, ma attraverso lo specchio capovolto della nostra fragilità: la vulnerabilità all’ideologia, la semplificazione della verità storica, la censura, o autocensura, della sua e nostra complessità.


Enzo Bianchi. Non si può mai uccidere in nome di Dio
 Lo ha detto papa Francesco: utilizzare la religione per giustificare terrore e odio è una bestemmia. Per questo il dolore per ciò che è accaduto in Francia non deve portarci a rispondere alla violenza con la violenza. Altrimenti rischiamo di fare il gioco dell’unica divinità non invocata in nessuna preghiera: il denaro, che genera tante guerre
ENZO BIANCHI

«Utilizzare il nome di Dio per giustificare la strada della violenza e dell’odio è una bestemmia ». Queste parole forti di papa Francesco, pronunciate
all’indomani della carneficina di Parigi, «inqualificabile affronto alla dignità della persona umana», continuano a risuonare con forza in queste ore in cui la strada perversa che «non risolve i problemi dell’umanità» sembra ormai l’unica che troppi hanno deciso di intraprendere. Da più parti si sono levati appelli pacati alla fermezza e al non arrendersi alla brutalità disumana, continuando in una vita quotidiana che non si lascia attanagliare dalla paura, che coltiva amicizie, fraternità, normalità di rapporti in quella che definiamo una convivenza civile e che è frutto maturato anche sulle macerie della seconda guerra mondiale.
Eppure qualcosa suona tragicamente stonato in questo coro di dignitosa fermezza di fronte al male: è il fragore delle bombe che prima e dopo i drammatici fatti di Parigi cadono ogni giorno sulla popolazione in Siria, senza distinzione tra civili, combattenti, terroristi; è l’impercettibile sussurro che sui media occidentali riporta le vittime di attentati sanguinosi a Beirut; è l’impalpabile silenzio che avvolge le origini dei gruppi terroristici, le loro fonti passate e presenti di approvvigionamento di denaro e armamenti... Sì, se rispondiamo all’odio con l’odio, se pensiamo di sconfiggere la violenza con una violenza più forte, se riteniamo che la guerra sia la risposta giusta ad atti che hanno come scopo proprio quello di trascinarci in guerra, allora hanno già vinto loro.
Da anni, almeno dall’apocalisse dell’11 settembre, le più alte autorità delle diverse religioni, vanno ripetendo con forza che non si può uccidere in nome di Dio, che chi si appella a Dio per giustificare il male assoluto che compie bestemmia il Dio che invoca. Eppure si fa strada con sempre maggior chiarezza una verità scomoda che nessuno grida: chi uccide così brutalmente degli esseri umani lo fa sì in nome di dio, ma di un dio che non è invocato in nessuna preghiera. Quel dio in nome del quale si combattono guerre spietate si chiama denaro. Un dio che regola il commercio delle armi e il contrabbando del petrolio, inquina gli affari di troppe banche e corrompe troppe persone al potere, condiziona rapporti diplomatici e perverte prospettive di crescita e di sviluppo, sfrutta, consuma e uccide il pianeta e quanti vi abitano. Arrendersi a questo dio e alla sua capacità di seduzione, rispondere al male con il male, alla morte sofferta con la morte inflitta significherebbe che hanno già vinto loro, le forze del male.
Ma allora, come si esce da questa spirale di violenza? Con l’arrendevolezza, la pusillanimità, la rassegnazione? No di certo, ma con la forza, la risolutezza, la tenacia di chi si oppone al male con il bene, di chi tesse ogni giorno la tela dell’umanità e della fraternità. L’ora degli operatori di pace non conosce stagioni: sono chiamati a lavorare nei giorni e nei luoghi tranquilli così come nelle zone e nei tempi di guerra; per loro non c’è corsa alle armi perché non stanno mai fermi con le loro mani e i loro cuori disarmati. Ingenui buonisti? Ma nella storia sono proprio gli operatori di pace a essersi rivelati portatori di speranza e realizzatori di utopie, a differenza di quanti si ritenevano realisti e spietati ed erano osannati per la loro carica di rabbia, per l’orgogliosa pretesa di spegnere un fuoco con un incendio ancora più grande. Ci vuole infatti molto più coraggio a lottare incessantemente per tutta una vita con la forza disarmata della ragione che a svuotare in un minuto il caricatore di un’arma automatica, a indossare un’unica volta un giubbotto esplosivo o a premere in un batter d’occhio il bottone di sganciamento di una bomba. E ci vuole più coraggio ad affermare con coerenza e responsabilità le proprie convinzioni di pace e a tradurle in azioni concrete che a gettare irresponsabilmente benzina sul fuoco della frustrazione e della paura con parole che uccidono come pietre.
La risposta al terrorismo non è e non può essere implementare o esportare il terrore: può solo essere rinsaldare la nostra intima resistenza al male, lavorare per la verità e la giustizia, costruire la pace anche al cuore delle macerie di guerra. Ma per credere veramente nell’umanità, occorre ascoltare la ragione, impegnarsi nel dialogo, restare miti ricercatori della pace. Se non ora, quando?

Lo spirito bastardo della République
Intervista . L’ostilità verso l’«altro» anche se nato e cresciuto in Francia e l’idea di una nazione di razza bianca si sovrappongono e convivono con i valori di libertà, uguaglianza e fraternità. Intervista a Pascal Blanchard, uno dei massimi studiosi della storia coloniale e franceseGuido Caldiron Manifesto 19.11.2015, 0:36
Molti dei temi che sono al centro del suo lavoro, dalla mancata assunzione del passato coloniale fino alla ricerca di una nuova identità da parte dei giovani francesi figli o nipoti degli immigrati arabi o africani, sembrano rappresentare lo scenario che fa da sfondo ai fatti di questi giorni. La strage compiuta dagli jihadisti non potrà che rendere tutto ancora più difficile. Quale è la situazione nel suo paese?
Penso che la crisi che attraversa la Francia vada al di là della tragedia che ha colpito Parigi. Piuttosto, proprio questi fatti rappresentano uno degli aspetti più visibili e drammatici della situazione del paese: il fatto stesso che dei giovani francesi abbiano scelto di raggiungere le fila degli jihadisti per poi decidere di portare la morte e il terrorismo laddove sono nati, la dice lunga di quanto grave sia la crisi. Solo che in questi casi si rischia sempre di non guardare al modo in cui i fenomeni hanno preso piede.
La Francia della paura e dell’odio, del sospetto e del pregiudizio ha infatti preso da tempo il posto di quella del vivere insieme. Stiamo dimenticando ogni giorno di più gli ideali e le idee che abbiamo appreso dalla Rivoluzione francese, come i diritti dell’uomo e il fatto di aprire le nostre porte agli stranieri. E questo si avverte anche sul piano culturale. Da un lato, gli intellettuali di destra, i «neoreazionari» hanno inaugurato tutto un vocabolario per descrivere quello che considerano come «il declino» della Francia e la perdita della sua grandeur. Evocano «il paese dei bei tempi andati», in cui tutti stavano al loro posto, le donne in cucina e gli indigeni nelle colonie, quando non parlano apertamente, l’ha fatto di recente un’esponente del centro-destra, del fatto che questo sarebbe un paese «di razza bianca». Dall’altro, gli intellettuali di sinistra che hanno affrontato per primi e in modo utile il tema del meticciato e della contaminazione tra le culture, non sembrano più in grado di farsi sentire e forse anche di comprendere ciò che sta accadendo, fino a pensare che l’integrazione dei giovani delle ultime generazioni dell’emigrazione postcoloniale sia fallita, quando in realtà è proprio il passato coloniale che struttura ancora oggi i rapporti umani, sociali, territoriali. Il radicalismo jihadista partecipa a questa etnicizzazione dei rapporti sociali, dando voce all’odio per la Francia e per l’Occidente di una parte dei giovani figli dell’immigrazione.
Lei ha spiegato come i simboli e il profilo della République non rappresentino più tutti i suoi cittadini. Anche a causa dell’estendersi delle diseguaglianze sociali, che hanno reso ancora più marcate le differenze culturali che attraversano la società francese, per i giovani maghrebini, neri e musulmani è sempre più difficile identificarsi con Marianne. Dunque, cosa fare?
Il problema è proprio questo: l’identità dell’«altro», di colui che non risponde ai canoni tradizionali della cultura, dell’origine, oggi perfino della religione, non sembra trovare spazio nel modo in cui la République si pensa e si rappresenta. Credo siano due i fattori decisivi che hanno caratterizzato il processo che ha portato a questo stato di cose.
Il primo riguarda il fatto che non si è mai davvero superato il passato coloniale del paese che ha finito per mescolarsi con il profilo stesso delle sue istituzioni. Penso al refrain sui «nostri avi Galli» che viene impartito anche agli studenti le cui famiglie sono originarie proprio di quello che fu il vasto impero di Parigi o all’accento sulle politiche di assimilazione che hanno guidato il sistema educativo e culturale. A questo si deve aggiungere che la Francia, in quanto culla dei diritti dell’uomo, dei valori di libertà, uguaglianza e fraternità che dai tempi della rivoluzione non hanno mai cessato di essere diffusi ai quattro angoli del mondo, ha sempre avuto un rapporto contraddittorio con tutto ciò.
I valori della République nata dalla presa della Bastiglia hanno infatti convissuto per più di due secoli con l’idea dell’inferiorità dell’«altro» che dominava il suo spazio coloniale, con l’idea che quel dominio fosse giustificato anche dal colore della pelle e che, a differenza di quanto accaduto ad esempio negli imperi britannico o giapponese, Parigi inseguiva l’utopia della piena assimilazione culturale dei cittadini dei paesi colonizzati. Così, ancora oggi se si parla con un giovane che appartiene alla seconda o alla terza generazione dell’immigrazione senegalese o algerina, ci si rende conto che essere il discendente di un indigeno delle colonie, significa per molti versi, anche se si è nati e cresciuti in Francia, non avere la stessa storia del resto dei cittadini francesi. In altre parole, non si è mai voluto costruire una memoria comune, scrivere una storia che fosse il «frutto di storie», intese in senso plurale come rappresentanza della diverse componenti del paese, in modo da impedire che la narrazione pubblica della République non si discostasse troppo dal suo volto quotidiano, soggettivo e privato. È questo il lavoro decisivo che resta ancora da fare.
Nel frattempo che i valori repubblicani attuino, per così dire, la loro riforma, non sarebbe sufficiente che si prendesse atto dell’esistenza di una dinamica comunitaria, se non di una prospettiva multiculturalista, in seno alla società francese?
Lei ha ragione, ma affermare questo in Francia equivale a riconoscere quella crisi dei valori della République che in molti, specie tra i rappresentanti politici e nel mondo intellettuale, si ostinano a negare. Personalmente credo che la Francia sia una società multiculturale a cui il sistema del multiculturalismo, per come lo conosciamo oggi, vada però stretto. Il punto non è però quello di cercare il «modello» sociale adatto per il paese, ma di affrontare i problemi che sono già sul terreno. Ho qualche dubbio a contrapporre le forme di multiculturalismo che regolano la vita collettiva negli Stati Uniti o in Gran Bretagna e il cosiddetto modello repubblicano francese, il cui vero limite è che ha smesso di funzionare perché non ha preso atto delle trasformazioni e delle modifiche profonde che sono intervenute nella nostra società.
Paradossalmente in Francia si parla di comunità si fa riferimento alla Bretagna o alla Corsica, ma si esita a farlo per descrivere le molteplici identità fiorite nel paese con il passare del tempo. A questo si deve aggiungere che il nostro è l’unico paese al mondo che continua a promuovere, almeno sulla carta, l’integrazione di chi viene da altre realtà culturali. Da ciò la difficoltà che si registra in modo sempre più drammatico nel definire un nuovo percorso che assicuri allo stesso tempo, da un lato, l’espressione della diversità come di un pieno diritto di cittadinanza di ciascuno e, dall’altro, l’unità nazionale di un paese e di un popolo. In questo momento, nel paese si fronteggiano coloro che sembrano rifarsi ancora all’esperienza coloniale e che ritengono che in base al colore della pelle o alla fede religiosa un individuo possa o meno essere considerato a tutti gli effetti francese e chi ritiene invece che l’idea stessa di cittadinanza non abbia nulla a che fare con le nozioni di razza o cultura. Oggi, queste due prospettive si contrappongono in modo radicale perché, per alcuni, il fatto stesso che la società francese possa aprirsi alle differenze significa che si sta avviando verso il declino e, in ultima istanza, verso la sua fine.
A scorrere le biografie degli assalitori del Bataclan viene da pensare che dieci anni sopo la grande rivolta delle banlieue il sogno di trasformazione di alcuni giovani delle periferie si è trasformato in un incubo di morte e autodistruzione. È così?
Proprio perché ho studiato a lungo l’immagine stereotipata dell’indigeno delle colonie che si è imposta in Francia, praticamente fino ad oggi, rifuggo dalla generalizzazioni anche quando riguardano i giovani delle attuali periferie urbane. Non esiste uno solo «giovane delle banlieue», ma milioni di ragazzi che nascono e crescono in questi quartieri e che seguono diverse traiettorie scolastiche, lavorative, politiche e culturali.
Non si può racchiudere questa molteplicità nelle scelte di qualche migliaia di giovani che si sono avvicinati al radicalismo islamico e al terrorismo, andando a combattere in Siria o compiendo attentati in Europa. È una parte ultraminoritaria del mondo giovanile dei quartieri popolari, come della comunità dei fedeli musulmani — che per altro segnalo essere composta in Francia al 30% da convertiti che non provengono da famiglie di tradizione islamica. La stragrande maggioranza ha continuato a vivere la propria vita e sono moltissimi coloro che sono ancora impegnati in attività sociali nei loro quartieri. Piuttosto, ciò che colpisce nelle vicende di questi giovani jihadisti è come sia spesso la ricerca spasmodica di un’identità a caratterizzare il loro percorso: qualcosa che ha che fare con un profondo malessere interiore, con il rapporto non risolto con la Francia come con se stessi. Molti di costoro sembrano non saper più chi sono e non a caso la scelta di integrare lo Stato islamico o altre simili organizzazione terroriste equivale in molti casi ad annullare la propria individualità nel contesto di una guerra dove la ricerca della morte è considerata come il bene supremo.

Gli scaffali di Pascal Blanchard
Storico, documentarista e ricercatore del Cnrs, Pascal Blanchard è uno dei maggiori studiosi dell’epoca coloniale. Responsabile scientifico della mostra «Exhibitions. L’invention du sauvage», ha realizzato i documentari «Paris couleurs» (France 3) e «Noirs de France» (France 5). Co-direttore della raccolta «Un siècle d’immigration des Suds en France» (Gra), ha dedicato diverse opere alla storia delle comunità immigrate, realizzando opere considerate già dei classici come «Le Paris arabe. Deux siècles de présence des Orientaux et des Maghrébins en France», «Le Paris asie» e «La France noire. Trois siècles de présences», tutti pubblicati da La Découverte. Per lo stesso editore parigino sono usciti «La fracture colonial» e «Le grand repli», scritto insieme ai colleghi Nicolas Bancel e Ahmed Boubeker, un volume che affronta la grande crisi sociale e culturale che attraversa la Francia.

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