mercoledì 11 novembre 2015

De te fabula narratur: politica e favole, narrazioni e imbroglioni

Favole e politica. Pinocchio, Cappuccetto Rosso e la guerra fredda
L'esperienza favolistica e assai narrativa del Rettorato a Urbino avrà certamente aiutato il prof. Pivato a scrivere un libro che si presenta comunque interessante [SGA].

Stefano Pivato: Favole e politica. Pinocchio, Cappuccetto Rosso e la guerra fredda, Il Mulino pagg. 188 euro 19

Risvolto
Nell'età delle masse la politica deve parlare a tutti e adottare un linguaggio semplice e persuasivo; il parlare figurato, per metafore e apologhi, è strumento principe della propaganda. Così non stupisce che la politica ami, alla lettera, raccontar favole. Non tanto (o non solo) nel senso di dire panzane, ma in quello di riusare strutture narrative proprie della tradizione favolistica, mescolando al dato reale elementi di satira, leggende, miracolistica, zoologia, fisiognomica, profezia. Ecco allora Pinocchio diventare campione fascista ma anche comunista, il lupo di Cappuccetto rosso impersonare Togliatti e Truman e Stalin vestire i panni dell'Orco mangiafuoco. Il grottesco mondo della propaganda politica riportato alla luce in un divertente e istruttivo campionario di favole che la politica, soprattutto negli anni della guerra fredda, ha propinato agli italiani. 


L’eterno ritorno di Pinocchio sulla scena politica 
Il personaggio è il più citato nella metafora pubblica italiana. Un saggio di Stefano Pivato spiega perché

SIMONETTA FIORI Repubblica 11 11 2015
L’ultimo Pinocchio ha il naso di Renzi, comparso anche domenica scorsa a Bologna in un manifesto della destra in piazza. Ma il penultimo indossava il riportino di Berlusconi. E se la nuova versione del Gatto e la Volpe mostra i volti di Verdini e Lotti, la stessa ditta negli anni Cinquanta era impersonata niente meno che da Nenni e Togliatti. Sempre secondo i loro avversari politici. Perché possono cambiare governanti e oppositori, geografie ideali e identità culturali, può addirittura
finire un secolo e iniziarne un altro dai contorni ancora incerti, ma la comunicazione politica italiana non può fare a meno della fiaba di Collodi. E qualcosa vorrà pur dire se quello che viene considerato il romanzo di formazione dell’identità nazionale è stato ferocemente saccheggiato dalle parti in lotta. Non solo per menare fendenti ma anche per appropriarsene con finalità pedagogica. Così al Pinocchietto socialista agli albori del Novecento farà seguito quello in camicia nera e addirittura in divisa repubblichina. Per poi rinascere nel dopoguerra a mezzo servizio tra scudocrociato e falce e martello.
Pinocchio ovvero «il personaggio fiabesco più citato nella metafora pubblica italiana». All’uso elettorale di Pinocchio dedica un denso saggio Stefano Pivato, studioso attento al rapporto tra favole e politica in un paese che tuttora abbonda di falchi e colombe, pitonesse e grilli parlanti, volpi massime e mastri ciliegia. Favole e politica è il titolo dell’ultimo volume (Il Mulino) che raccoglie il campionario di apologhi, leggende, miracolistica, fisiognomica e profezia messo in campo dalla propaganda in Italia (ma non solo da noi). E se dovessimo trovare una ragione di questo fenomeno, non bastano gli studi di Ellen Key sul Novecento come “secolo del fanciullo”. Perché oggi non si tratta più della precoce alfabetizzazione del mondo infantile, che giustificava la proiezione di un codice fantastico nel mondo adulto, ma dell’infantilizzazione allarmante di una classe politica che nel XXI secolo resta aggrappata a un immaginario arcaico, soprattutto contro le donne. O perché belle quindi pericolosissime e “dominanti” o perché di aspetto normale quindi “impresentabili”. Comunque sempre mostri temibili, da liquidare al più presto.
Nella morfologia della fiaba politica, la parte da star spetta al pupazzo di Collodi, «cucinato in tutti i modi// fino al punto che ohibò// poco o nulla ne restò», per dirla con Jacovitti che ci costruì sopra una filastrocca. E se agli inizi del Novecento era il figlio di un proletario imbevuto degli ideali del socialismo, negli anni Venti si sarebbe trasformato in un feroce squadrista che somministra l’olio di ricino e prende a calcioni il Negus. Il fascismo era riuscito a fascistizzare Garibaldi, figuriamoci se si ferma davanti al burattino nazionale, che però resta senza fata turchina. Non ce n’è bisogno – spiega Pivato – perché il ruolo salvifico può essere affidato solo al regime. Benito Mussolini, in sostanza, al posto della bella bambina dai capelli azzurro-verdi. Ancora più impressionante risulta il pupazzo arruolato nelle file della Repubblica Sociale, che da pezzo di legno diventa uomo solo dopo aver aderito al credo nazista. Ma com’è possibile questa vertiginosa metamorfosi del monello più impertinente della letteratura italiana, personificazione di indisciplina e disobbedienza? Pivato ci spiega che fu proprio questo il miracolo operato dalla pedagogia littoria: convogliare le energie eversive del personaggio contro i nemici della patria. Così Pinocchio diventa un piccolo superuomo dannunziano, eroe solitario che agisce senza la complicità dei suoi compari.
Le avventure di Pinocchio nei palazzi della politica non finiscono qui. Ed eccolo ricomparire nel dopoguerra nei panni comunistissimi di Chiodino, che ne è la versione tecnologica in sintonia con la pedagogia del reale predicata da Botteghe Oscure. Piccolo chiodo, non pezzo di legno. Figlio di padre scienziato, non più falegname. E al posto di fate, grilli e volpi canaglie, una pletora di disoccupati, operai e senza tetto. «Marxismo in pillole», tuonò il settimanale democristiano La Discussione. «Pinocchio bolscevico». Nella polemica interviene anche Rodari che naturalmente difende le storie di Chiodino uscite sul Pioniere. E ricorda che ai cattolici Pinocchio non era andato mai molto giù perché «non prega mai» ed esprime «una morale tutta umana a terrena». La polemica su Pinocchio privo di sentimenti religiosi risaliva agli anni Venti quando dal mondo dei fedeli si sollevarono voci di protesta contro il burattino che non si affida mai al Padre Nostro. Ma già durante la guerra era cominciata un’inversione di tendenza, con una lettura teologica del burattino – esemplare sintesi «di perdizione, espiazione e resurrezione » – e addirittura con la conversione di Collodi giudicato «un cattolico a sua insaputa». All’interpretazione cristologica di Piero Bargellini avrebbero presto replicato con sarcasmo i critici comunisti, proponendo di sostituire Geppetto con il Padre, la fatina con la Madonna e il corvo e le altre bestiole con i «Santi intercessori».
La disputa per la proprietà del pupazzo perdurò alcuni decenni, non solo tra scudocrociato e falce e martello, ma anche con un’incursione del socialdemocratico Saragat che ne fece il suo eroe vessato da Stalin-Mangiafuoco. Ma la favola più compiutamente pinocchiesca è quella prodotta dalla Dc in una campagna elettorale nei primi anni Sessanta: oltre al Gatto Pietruccio (Nenni) e alla Volpe Palmira (Togliatti), incontriamo un Paese degli Allocchi che promette benessere e danari ma in realtà nasconde le miserie del comunismo impersonate da Bulgarina e Polonuccia, Cecosloveta e Romenina. La guerra fredda prima o poi sarebbe finita, ma non la vocazione della politica a raccontare favole. E Pinocchio & company tuttora sopravvivono come metafora di bugia e oscuro intrigo. Sempre simbolo dell’identità italiana, ma forse in un modo che Collodi non poteva prevedere.
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Pinocchio bolscevico e la Volpe Palmira Da Cappuccetto Rosso a Cenerentola, la reinvenzione delle favole in chiave politica nello scontro tra Dc e Pci all’inizio della Repubblica: uno studio di Stefano Pivato Massimiliano Panarari Stampa 28 12 2015
Niente politica senza storytelling, ormai si sa. Ma queste benedette narrazioni, grosso modo, ci sono sempre state, sotto forma di ideologia e, talvolta, perfino di fiabe vere e proprie. Già, perché la narrazione favolistica si sposa benissimo con quella politica. Se ne avvalgono i comici (si pensi a Roberto Benigni con Berlusconi o a Maurizio Crozza con tutti, nessuno escluso) e, naturalmente, i politici stessi, come Pier Luigi Bersani con le sue metafore colorite (diciamo così…) che stando ad alcuni linguisti affonderebbero le radici nel mondo contadino (e nel suo senso del fiabesco).
La reinvenzione della favola in chiave politica l’ha letteralmente fatta da padrona in una fase di durissimo scontro ideologico quale quello della Guerra fredda, come racconta il nuovo libro dello storico Stefano Pivato. Un’epoca di ferro e fuoco, al cui inizio il mondo cattolico paventava che le orde di cosacchi (avanguardie dell’Armata Rossa) calassero su Roma e conducessero i loro cavalli ad abbeverarsi alla fontana di San Pietro, un’immagine «montata ad arte e propaganda» e riconducibile a una delle visioni di don Bosco.
In Favole e politica (il Mulino, pp. 188, € 19), accanto a questa e altre mitografie, vediamo sfilare Cappuccetto Rosso e Pinocchio, la trasfigurazione socio-ideologica del duello tra i ciclisti Fausto Coppi e Gino Bartali (con il comprimario Fausto Magni, adottato dal Msi), e una serie di leggende nere che adattavano al furibondo scontro tra i partiti gli archetipi dell’orco e del cannibale (quintessenza della minaccia verso quanto di più sacro e intoccabile possa avere una famiglia: i figli piccoli). Un repertorio spesso grottesco, che mixava agli elementi di derivazione favolistica altri di tipo fisiognomico, zoologico, satirico, e poi shakerava il tutto subordinandolo alla finalità essenziale, che era quella della propaganda nell’età della politica di massa, in cui il messaggio andava semplificato e reso appetibile a grandi numeri di elettori. 
Dunque, come evidenzia Pivato, nella sua funzione ancillare rispetto alla costruzione del consenso la «favola politica» trasfigura l’impianto classico della fiaba e la concatenazione narrativa della storia. E, avendo un fine strumentale, vale in maniera molto bipartisan per l’arruolamento presso una parte politica come per quella rivale. 
Dai fascisti ai comunisti
Così Pinocchio - protagonista di un romanzo reputato centrale per la formazione dell’identità nazionale - venne adottato da tutti gli orientamenti ideologici. Il fascismo lo convertì in una specie di superuomo dannunziano (un salto non male rispetto al modello originario dell’ingenuo «burattino»). Nel dopoguerra, si appuntarono su di lui le attenzioni interessate del rigidissimo (stile pezzo di legno, per l’appunto) pedagogismo comunista che lanciò sul settimanale a fumetti Il Pioniere le avventure di Chiodino, una rivisitazione del personaggio collodiano in lotta per la giustizia sociale e contro la discriminazione razziale «di matrice americana», immerso in un universo di operai e disoccupati, e che arrivò a farsi cosmonauta nel nome dell’internazionalismo «interplanetario» e sullo sfondo della battaglia per il primato spaziale ingaggiata da Usa e Urss. 
Di fronte al fuoco di fila della stampa democristiana che lo descriveva alla stregua di un «Pinocchio bolscevico», lo stesso scrittore per l’infanzia engagé Gianni Rodari ammetteva apertamente il debito e la fonte di ispirazione. Il Pci aveva impugnato la laicità di Pinocchio come una delle bandiere della sua propaganda destinata ai più piccini, ma nel 1961 si interruppe l’embargo cattolico nei confronti della marionetta (accusata fino ad allora di assenza di senso religioso). Alla vigilia delle elezioni di quell’anno, la Dc pubblicò difatti l’opuscolo Le disavventure di Pinocchio, dove la sua via crucis tra kolkhoz, prigionie reiterate e inganni del «Gatto Pietruccio» (Nenni) e della «Volpe Palmira» (Togliatti) si concludeva miracolosamente bene grazie all’intervento di Geppetto, e con l’ammonimento alla «Fatina dai capelli tricolori» (la Repubblica italiana) di stare attenta all’imminente pericolo (elettorale) rosso. 
L’Orco baffone Stalin
Gli eredi dell’Orco baffone (Stalin) erano in agguato, e la satira anticomunista era riuscita a far penetrare negativamente nell’immaginario collettivo la sua figura anche grazie all’assimilazione con i supercattivi - estremisti sotto il profilo politico oltre che pilifero - delle fiabe (da Mangiafuoco a Barbablù), oppure fumettizzandola, come nella versione comic della Fattoria degli animali di Orwell realizzata dal Psdi, nella quale Napoleone (che ne era l’allegoria) veniva trasformato in un più italico «Mustacchione». 
Secondo il campaigning (come diremmo adesso) clericale e dc, i social-comunisti - che «mangiavano i bambini» - erano cannibali e draghi, mentre, per contro, quello delle sinistre annetteva Cappuccetto Rosso (nelle cui vesti si trovava un’Italia prossima a essere divorata dal Lupo-Stati Uniti) e Cenerentola (simbolo del Paese vittima dell’avidità dei governi complici dell’«imperialismo a stelle e strisce»). Insomma, favolisticamente di tutto di più, perché, a parte Babbo Natale, le opposte propagande reclutarono proprio tutti quanti.

Il lupo cattivo? Somiglia a Togliatti Scaffale. "Favole e politica. Pinocchio, Cappuccetto Rosso e la Guerra fredda" di Stefano Pivato: personaggi delle fiabe e propaganda Fabrizio Scrivano Manifesto 15.1.2016, 0:03
La cultura popolare è da sempre affollata di storie favolose e improbabili, che però riescono non tanto a essere davvero credute e prese per vere ma ad orientare e giustificare altre scelte che non avrebbero alcuna giustificazione. A dirla tutta, questa dinamica non riguarda solo le credenze popolari. Infatti, più in generale, non c’è come una credenza sciocca e infondata a rendere sicura una persona. Il motivo per cui ci si affida alle fiabe non è, però, la facile credulità.



Come ci si potrebbero riempire testa e coscienza di frottole e poi condurre una vita normale e sensata? Certamente è vero che le favole aiutano a produrre quei meccanismi di autoillusione che mettono al riparo dalla delusione e che proteggono anche dalla compagnia della paura. Tuttavia non è per faciloneria che si aderisce al racconto mendace. Si pensa, invece, magari del tutto inconsciamente, che se qualcuno si è dato la pena di creare una fiaba, una leggenda, una favola – la si chiami come si preferisce – un motivo più importante della verità debba esserci; un motivo che serva ad affermare un principio, un valore, e spesso un potere che li controlli e custodisca. Alla gente piace raccontare le cose per apologhi, e preferisce in genere che le cose siano narrate nello loro forma simbolica o metaforica.
Come si spiegherebbe, altrimenti, la fiducia che da sempre l’umanità investe nei sogni, fossero segni e presagi o solo immagini della mente? Le fiabe e le favole, si pensa, contengono un simile messaggio o significato occulto, esigono un’interpretazione e anche se si sbaglia tutto nel farla, esse mantengono intatte la loro funzione di guida.
Questo è ciò che accadeva in altre epoche. Ai tempi in cui la fiaba e il sogno rimanevano legati al campo della narrazione, cioè nell’area letteraria del racconto e dell’elaborazione verbale dell’immagine. Forse prima dell’invenzione della comunicazione di massa e prima della società dell’informazione. Perché quando la favola entra in questi circuiti, cambiano le modalità con cui la favola collabora con la verità e con l’opinione.
Il libro di Stefano Pivato, Favole e politica. Pinocchio, Cappuccetto Rosso e la Guerra fredda (Il Mulino, pp. 188, euro 19) sembra per lo più indagare in questo territorio sufficientemente ibrido, in cui cioè la favola, intesa come retaggio e strumento di trasmissione di una sapienza antica, non è più favola ma è convertita e contaminata negli strumenti e nelle modalità della comunicazione.
Più precisamente l’autore, uno storico che ha dedicato numerosi studi alla cultura di massa (il turismo, la canzone, la politica e anche un soggetto ben più insolito, cioè la rumorosità della civiltà moderna) sceglie il terreno della propaganda politica e focalizza preferibilmente gli anni compresi tra la fine della seconda guerra mondiale e la nascita della televisione.
Le fonti e il materiale sono assai vari. Si va dalla satira politica alla cronaca sportiva, dalla falsa notizia dei giornali alla circolazione orale delle leggende, e naturalmente, come indica il titolo del saggio, alla riutilizzazione in ambito politico della fiaba.
La stessa eterogeneità dei materiali presi in analisi fa pensare al fatto che nel contesto della propaganda politica, i cui spazi sono definiti dai mezzi e dai luoghi della propaganda, la riutilizzazione spregiudicata di narrazioni e figure tratte da altri contesti non va troppo per il sottile: ogni storia e ogni personaggio può essere arruolato nell’agone politico.
L’importante è che la contesa del voto, che passa anche per la formazione della coscienza e dal sistema di aspettative, si appropri delle immagini e delle parole che sono presenti e circolano tra le persone da convincere. Il messaggio politico vuole inglobare ciò che sta già nella testa delle persone e piegarlo ai significati che vuole veicolare. Senza esagerare, si può dire che la comunicazione politica ruba e vandalizza la memoria di ciascuno, la memoria di tutti, a fini elettorali.
Ecco perché Pivato può raggruppare ricerche che apparentemente sembrano definire diversi argomenti e contesti. Le immagini familiari dell’orco o dell’uomo nero, come a ricreare un terrore irrazionale; la competizione sportiva tra Bartali e Coppi, declinata in una sfida senza alcuna correttezza tra i simboli della famiglia; la riutilizzazione spietata delle Avventure di Pinocchio da parte della propaganda fascista e democristiana, ma anche la revisione in Chiodino della figura dell’automa nelle pagine del Pioniere, la rivista per bambini di ispirazione comunista diretta da Gianni Rodari; la fomentazione di leggende metropolitane createsi sulla distorsione di altre storie, come l’abbeverarsi dei cavalli cosacchi a San Pietro, ripresa dal quel grande canzonatore che fu Giovannino Guareschi; la creazione di miti sociali, come la pedagogia felice nell’Unione sovietica e, al rovescio, la terribile menzogna dei comunisti mangia bambini.
Tutte situazioni ricostruite con precisione nel loro prodursi e diffondersi in un’Italia apparentemente ingenua, infantile, istruita con superficialità. E si può dire, infine, imbrigliata in una grande contraddizione. Quella di essere obbligata ad ascoltare ciò di cui è sempre desiderosa: le favole.

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