«Hanno colpito lo spirito del Sessantotto». Christian Boltanski, tra i più grandi artisti contemporanei viventi, è nato a Parigi quando la seconda guerra mondiale non era ancora finita. Dai genitori ha conosciuto presto il racconto di Auschwitz e il rapporto con la memoria è il punto di partenza di tutta la sua opera. Lo scorso 13 novembre era nella sua casa alle porte della capitale francese. «Come tutti, ho seguito l’evoluzione dei fatti nelle dirette televisive — dice Boltanski- La prima cosa che ho pensato è: potevo esserci anche io. Le vittime facevano quelle semplici, meravigliose cose che tutti amiamo fare, senza nemmeno riflettere».
Boltanski, crede che stiamo vivendo una guerra?
Questa emozione non ho alcuna difficoltà a capirla, per quanto mi sia sembrata a volte un po’ ostentata e, per essere sincero, di un’indecenza irreprensibile che non provoca altro che una nausea vaga ma persistente, un disagio paragonabile a quello che proviamo quando, nel corso di una funerale, degli sconosciuti piangono più forte della famiglia del defunto. A me sembra che rispettare il lutto di coloro che hanno perduto dei parenti sia capire che il nostro cordoglio e la nostra empatia, per quanto sinceri, non possono paragonarsi al dolore infinito che li ha colpiti. Ma l’orrore per gli attentati e la natura stessa delle reti sociali su internet non invitano, evidentemente, a contenersi.
È dunque necessario che l’emozione si esprima, anche maldestramente, ma non possiamo ammettere che lo faccia nella forma coercitiva di un’imposizione. Questa imposizione, infatti, condanna in anticipo come complice o criminale qualsiasi sforzo di esercitare la propria capacità di giudizio. Assistiamo, come già accadde a gennaio, a un capovolgimento aberrante della massima spinoziana: ci sarebbe concesso di ridere, deplorare e maledire, ma mai di capire. Perché “capire”, certo, è “scusare” — ed è vergognoso, in un paese che ha una così alta opinione della propria statura intellettuale, dover scrivere che questa equivalenza è di un’insondabile stupidità. Ma il nostro amore per la dicotomia è smoderato. Ci fermeremo dunque alla denuncia unanime della “barbarie”. Effettivamente è molto semplice, ed è più comodo. Questo ci eviterà di interrogarci su una società che vuole riconoscersi in un testo che si dice pubblicato dal New York Times che riporta i più grotteschi luoghi comuni sulla Francia — e qui si vede che l’emozione non impedisce che si tragga da una tragedia un vantaggio narcisistico. Chi oserebbe criticare questa società così festosa, così sottilmente trasgressiva, da suscitare, proprio a motivo della sua perfezione, l’ira dei cattivi?
Questo ci eviterà di constatare che i cosiddetti cattivi ne sono in gran maggioranza il prodotto, e ci risparmierà dal porre questa domanda terribile: che cosa accade in Francia perché un’ideologia ripugnante come il salafismo divenga un oggetto del desiderio? — e cercare di capirlo, ho di nuovo vergogna di doverlo scrivere, non è scusare nessun criminale, né impedisce che si faccia di tutto per punirli. Questo ci eviterà di chiederci se la stigmatizzazione cieca e collettiva di una parte dei nostri concittadini non sia il modo più sicuro di incoraggiare la radicalizzazione — cosa che ben sanno i “barbari”, i quali, da parte loro, non fanno lo sbaglio di non cercare di capire il proprio nemico. Questo ci eviterà di inorridire nel sentire una giornalista di France Inter chiedere con grande naturalezza a un parlamentare se l’ignobile proposta di Wauquiez di aprire una Guantanamo alla francese non sia, dopotutto, un’idea così cattiva. Questo ci eviterà, infine, di chiederci se ciò che ora rischiamo di perdere, all’inaudita velocità che caratterizza sempre le catastrofi — ciò che abbiamo già, temo, cominciato a perdere — non sia più fondamentale dello champagne, dell’odore del pane caldo e delle scappatelle in un albergo parigino.
Cosa c’è dentro la testa di un jihadista? Cosa c’è dentro la testa di chi pensa, se pensa: uccido, dunque sono? Cominciamo dal sorriso del terrorista Abdelhamid Abaaoud. Nelle foto la sua espressione oscilla tra il cinismo e la spavalderia. Era uno che non si tirava indietro, perché aveva sangue freddo. Eppure, scrive Bernardo Valli, «il fanatismo a volte non basta, va sollecitato». Ecco il punto. In che modo va sollecitato? Con l’uso della chimica? Della droga? Delle anfetamine? Le anfetamine, come la cocaina (ma ancor meglio, per così dire, perché l’effetto anfetaminico è meno acuto e più duraturo della cocaina) aumentano, in particolar modo, la dopamina nel sistema nervoso centrale. La dopamina è il neurotrasmettitore edonico, quello che dà piacere. Presa a lungo, ed eventualmente iniettata nelle vene (nell’albergo degli attentatori di Parigisono state ritrovate siringhe) porta a un senso di onnipotenza, riduce o azzera la già debole empatia per l’altro essere umano, per cui è più facile ucciderlo come una cosa. Quest’anfetamina, per lo più prodotta in Siria, a base di fenetillina, caffeina e altri principi attivi (Captagon) è la più facile da preparare, la più economica e la più efficace per ottenere l’effetto auspicato: rendere dei ragazzi, già sbandati, già fanatici, già paranoici, già psicopatici, degli zombie completi, delle macchine da carneficina. Il Captagon sembra essere la droga ideale per creare l’uomo senza morale, il nichilista perfetto, il moderno Raskolnikov.
È stato pubblicato, a settembre, in Germania, Der totale Raush (“La totale euforia”), il libro di uno storico, Norman Ohler, che avrebbe voluto scrivere un romanzo sulla Germania nazista. Ma da bravo storico ha fatto ricerche, tra cui gli interrogatori del medico personale di Hitler, Theo Morell, e ha trovato le prove che la Wehrmacht era un esercito di drogati. E la droga era simile a quella che sostiene le imprese dei jihadisti: una metanfetamina, il Pervitin, in grado di eliminare stanchezza e depressione, e capace di indurre sentimenti d’invincibilità. Occorre sottolineare che l’uso di anfetamine in ambito militare ha riguardato sia l’esercito giapponese, tra il 1939 e i 1954 (i kamikaze) sia quello americano. Dunque fin qui nulla di sorprendente. Il fatto nuovo, però, è che i miliziani dello Stato Islamico hanno un conflitto etico-religioso che tutti gli altri soldati non hanno: la legge coranica, infatti, gli proibisce l’uso di fumo, alcol e droghe. Allora l’Is, per un verso, soprattutto mediaticamente, cerca di dimostrare la sua fedele interpretazione dei comandi religiosi. D’altra parte la produzione, la diffusione e il commercio di droga è considerato uno dei mezzi che loro hanno a disposizione per aggredire e vincere l’occidente infedele e cristiano. Dunque le droghe vengono utilizzate dall’Is sia come sorta di virus stupefacente per vincere l’occidente cristiano dopo averlo drogato, sia come mezzo per autofinanziarsi. Il conflitto con la religione coranica emerge nel momento in cui si hanno le prove che il Captagon, questa pillola della ferocia, è usato proprio dai miliziani jihadisti. Se così è, se l’anfetamina è stata perfino canonizzata dai jihadisti, se questa pasticca è entrata a far parte del rituale iniziatico dell’Is, come un simbolo, o perfino un farmaco che il miliziano quotidianamente ingoia, contraddicendo il divieto coranico in tema di droghe, è necessario che ci sia un motivo forte. E il motivo sembra essere la necessità di trasformare la ribellione, il vuoto esistenziale, il disagio psichico, il disturbo di personalità condito di fanatismo religioso e odio culturale del neomiliziano, in qualcos’altro. In una macchina di morte. In uno zombie onnipotente e incapace di comprendere il valore della vita. Ecco allora da dove deriva il sorriso, che è ghigno, ghigno chimico, del ragazzo Abaaoud. Allora sembra proprio che da solo il fondamentalismo, il fanatismo, non basti. Anche una religione fondamentalista necessita di un oppio ulteriore, chimico, di un doping psicotropo, per riuscire a essere disumana.
L’autore, psicoterapeuta, ha scritto Il manicomio chiimico ( Elèuthera)
Iterribili attacchi a Parigi e in Tunisia non sono frutto del caso. I primi, commessi da terroristi in maggioranza francesi, traumatizzano la Francia, mentre i secondi mirano a suscitare una nuova ondata di migranti attraverso il Mediterraneo. Come ha spiegato Gilles Kepel, in questo modo Daesh intende provocare una reazione indiscriminata contro l’islam, che a sua volta scatenerebbe una contro- reazione dei musulmani, solidale con gli islamisti. Con la prospettiva di scatenare in Francia una guerra civile che rischierebbe di estendersi ad altri Paesi. Benché basata su fantasie deliranti, la strategia della tensione islamista ha già sconvolto la società e la politica francese. In effetti, Daesh gioca sui dubbi e sulle angosce che da decenni tormentano la società, su questioni quali l’identità nazionale, l’immigrazione e la religione musulmana; tanto più che in questi ultimi anni alcuni saggisti di successo insistono nell’additarla come la principale causa di quello che considerano come il declino francese. E per di più questa strategia suscita paure sempre più manifeste. A quanto emerge dai sondaggi, i francesi vorrebbero più autorità e un rafforzamento delle frontiere, approvano le misure drastiche in materia di sicurezza e diffidano sempre più dell’islam, benché almeno per ora distinguano i musulmani in generale dai terroristi che si richiamano all’islam.
Si è venuta a creare così una spirale politica vertiginosa. Da un lato assistiamo a una rilegittimazione del politico. Si riprende coscienza dell’importanza del potere statuale, che ha tra le sue missioni, secondo una linea di pensiero risalente a Thomas Hobbes, quella di garantire la protezione dei cittadini. Ma più in generale, si esprime un grande desiderio di unità e coesione. Si tratta però di un desiderio ambiguo e illusorio, poiché fa capo ad almeno due diverse concezioni del patriottismo e del’unità nazionale: l’una è caratterizzata dal ripiegamento su se stessi, mentre l’altra vorrebbe mantenere uno spirito d’apertura. In ogni caso, non si sono mai prodotte e vendute tante bandiere tricolori, né si è mai sentita intonare così spesso la Marsigliese.
D’altro lato, la politica stessa è scossa, se non addirittura stravolta. Il presidente della Repubblica dichiara che la Francia è in guerra, proclama lo stato d’emergenza con tutto il suo apparato di disposizioni di sicurezza, e propone di modificare la Costituzione. Da abile politico, fa sue le proposte più dure avanzate da anni dall’opposizione di destra e dal Front National. Di conseguenza, quasi automaticamente la sua popolarità, in qualche modo istituzionale, sta risalendo. La sinistra si allinea al suo presidente, a eccezione di alcune voci che si preoccupano per le sorti delle libertà e denunciano la scarsa attenzione per la frattura sociale, ritenuta all’origine delle vocazioni jihadiste. La destra, presa di contropiede, si vede costretta ad approvare, pur continuando a criticare il governo. Un trionfo per Marine Le Pen, che ha l’accortezza di gestirlo con modestia, spiegando però che si doveva ascoltarla prima. Il Front National ha dunque il vento in poppa, in vista delle imminenti elezioni regionali del 6 e 13 dicembre. Il problema fondamentale della sicurezza è diventato prioritario e determinante dopo il trauma del 13 novembre, a discapito di qualunque altro tema, come per l’appunto quello delle regioni, e più in generale, l’economia, l’occupazione, le disuguaglianze e l’effetto serra. E ciò alla vigilia della grande Conferenza mondiale sul clima – già indicato da François Hollande come assoluta priorità – che si aprirà il 30 novembre. L’agenda politica ha dunque subito un mutamento totale. E se dovessero verificarsi altri attentati, il modo di concepire e organizzare la politica andrebbe verosimilmente incontro a cambiamenti durevoli. Già da qualche tempo il divario tra destra e sinistra è sempre meno visibile e vitale, davanti alla concorrenza di altre controversie, ad esempio tra gli europeisti e i loro avversari. Le preoccupazioni sulla sicurezza hanno dunque operato una trasformazione fondamentale. Eppure la Francia non è abbattuta. Non è un Paese in ginocchio. Sono in atto numerosissime iniziative, da parte delle autorità ma anche di semplici cittadini, per commemorare i drammi vissuti e dimostrare la volontà di resistenza dei francesi. Resta comunque il grande interrogativo su come la Francia riuscirà ad abbattere fin nelle sue radici la sfida del terrorismo. Alcuni insegnamenti si potrebbero trarre dall’esperienza italiana degli anni di piombo, che certo presentano moltissime differenze, ma anche alcuni aspetti comparabili, quantunque non identici. Il compito di sconfiggere il terrorismo e di sventare le sue trappole non si pone solo per i francesi, ma per tutti gli europei.
Sun Tzu, stratega cinese, vissuto tra il VI o V secolo avanti Cristo, sosteneva che la guerra è l’ultima risorsa di uno statista e la battaglia l’ultima risorsa di un comandante. Queste parole tornano alla mente quando si pensa al crescendo di appelli alle armi che risuonano a Parigi, a Bruxelles come a Londra. Quello che si vuole da tante parti non è neanche più uno scontro di civiltà alla Huntington.
Joeseph Stiglitz L’America resta lontana: l’Europa faccia da sola
Il disimpegno viene dalla frustrazione di 8 anni di Bush, ma 7 anni di Obama non hanno risolto il problemaintervista di Federico Fubini Corriere 26.11.15
A quarant’anni dallo studio che gli sarebbe valso il Nobel per l’Economia, Joseph Stiglitz non cambia stile: fuori dagli schemi, eclettico invece che ideologico, fermo sui valori. È la miscela che ha messo in mostra ieri a Roma al Forum dell’Istituto Einaudi per l’economia e la finanza. La stessa che lo spinge verso conclusioni decisamente crude sull’emergenza siriana: questa volta, dice, l’Europa dovrà fare da sé. Senza gli Stati Uniti.
Gli attentati di Parigi e le loro conseguenze nuoceranno alla ripresa in Europa?
«Il fatto fondamentale è che l’euro è broken , è guasto. Non la struttura dei singoli Stati, proprio quella della zona euro è tale da impedire la crescita. L’austerità imposta dalla Germania rende il quadro anche più complicato. Dunque anche lo scenario più ottimistico è negativo, e questa emergenza non fa che peggiorare le cose».
Teme che l’allarme terrorismo freni i consumi?
«Esatto. Prima degli attentati c’era un po’ di ottimismo in Italia, non molto, ma era l’ottimismo di 7 anni di recessione che forse stanno finendo. Non è come dire che cresceremo, ma forse abbiamo toccato il fondo. Certo il sistema era già disfunzionale prima degli eventi».
Non dirà che l’area euro rischia un’altra recessione.
«Sì. Ma non ho mai fatto una grande differenza fra recessione e stagnazione. Il punto di fondo è che l’Europa è in stagnazione, un po’ meglio un anno, un po’ peggio un altro. Gli attentati di Parigi sono uno choc negativo importante, ma il quadro resta quello».
Alcuni Stati spenderanno di più in difesa e sicurezza. Almeno daranno uno stimolo keynesiano all’economia?
«Solo se c’è un rilassamento dei vincoli di bilancio. Non se si fanno tagli altrove per compensare. Se i maggiori investimenti nella sicurezza venissero tagliando sull’istruzione, per esempio, gli effetti sulla crescita sarebbero negativi».
Due terroristi di Parigi sono sbarcati come rifugiati attraverso la Grecia: l’Europa deve frenare i flussi?
«Non so se l’Europa o anche gli Stati Uniti siano in grado di filtrare le persone. In passato non hanno avuto grandi risultati, ma non ci hanno provato davvero. L’altra questione è se questi terroristi si sarebbero infiltrati comunque, se non fossero potuti arrivare sui barconi: magari ci sarebbero riusciti, con un po’ più di difficoltà. Sono le domande che l’Europa deve porsi. Per quanto riguarda poi l’economia, dipende dalla situazione in ogni Paese. Per esempio in Grecia, con una disoccupazione al 25%, avere più stranieri che cercano lavoro non aiuta».
Vale anche per l’Italia?
«Vale per l’Italia e fondamentalmente per qualunque Paese a parte la Germania. L’idea che gli immigrati siano uno stimolo è un po’... voglio dire, se l’Europa spendesse per accoglierli e si potesse allentare un po’ il bilancio pubblico, sarebbe un conto. Ma non vedo indicazioni di questo tipo. Così, con una maggiore offerta di disoccupati quando ce ne sono già in eccesso, si possono creare divisioni sociali».
Per stabilizzare la Siria serve l’impegno americano. Ma da quando gli Stati Uniti possono contare sul petrolio di scisto, l’interesse per il Medio Oriente non è un po’ sceso?
«La politica estera del mio Paese non è determinata dall’interesse dell’americano medio, ma di certi gruppi dell’ establishment . L’indipendenza energetica non significa che non ci siano interessi di certe aziende americane in Arabia Saudita. No, il disimpegno viene dalla consapevolezza che la politica di George W. Bush ha fallito, in Medio Oriente abbiamo creato più problemi di quanti ne abbiamo risolti e non c’è motivo di pensare che riusciremo in futuro. Meglio star fuori. Il disimpegno viene dalla frustrazione di 8 anni di Bush, ma 7 anni di Barack Obama non hanno risolto il problema».
In Europa l’indecisione di Obama sulla Siria preoccupa. Cambierà qualcosa nel prossimo futuro?
«No. O meglio, ritiro ciò che ho detto. Ci sono le elezioni e penso che alcuni dei candidati, se eletti, probabilmente torneranno a impegnare l’America in Medio Oriente».
Hillary Clinton?
«Sì. Anche Jeb Bush. I repubblicani più matti invece sono votati dagli isolazionisti».
Vuole dire che per stabilizzare la Siria dovremo aspettare un’altra amministrazione Usa fra 16 mesi?
«Penso che la sua affermazione sia probabilmente corretta. Gran parte degli americani vede l’Isis come il primo problema e l’obiettivo di liberarsi di Assad come un residuo delle primavere arabe del 2011. Una nuova amministrazione potrebbe mettere da parte la questione di Assad, lavorare con la Russia sull’Isis e poi fare i conti in seguito. Assad è uno dei peggiori dittatori, ma in fondo noi americani non facciamo di mestiere quelli che rimuovono i dittatori».
Anche Obama la vede così?
«Lui fatica a cambiare marcia. Ha detto che lavorerà con la Russia solo se Mosca accetta di far uscire di scena Assad. Ma la Russia è schierata in difesa di Assad. Significa che noi americani stiamo subordinando quella che dovrebbe essere la nostra priorità numero uno, l’Isis, a un vecchio impegno a cambiare i cattivi regimi».
Insomma, la Francia e l’Europa dovranno fare da sole?
«Già. In fondo l’Isis è una minaccia più imminente per l’Europa. Forse i governi europei cercheranno di cooperare con Vladimir Putin, ma penso che prima dovrebbero dire al presidente russo che non lasceranno cadere l’Ucraina. Lì c’è un conflitto congelato e l’Europa deve chiarire che non permetterà alla Russia di scioglierlo nel senso sbagliato in cambio di un patto contro l’Isis».
Lei crede alla determinazione strategica dell’Europa?
«Sì, ho fiducia, eccetto su un punto: la Germania ha commesso il profondo errore strategico di diventare troppo dipendente dal gas russo. Si è messa nella posizione in cui il suo interesse e quello del mondo libero sono diversi. Per il momento si è comportata in maniera ragionevole. Ma come economista mi preoccupo quando vedo un paese il cui interesse è contrario al benessere europeo» .
Le derive della paura tra guerre e povertà
Democrazia. Guerre, migrazioni, terrorismo. O restiamo prigionieri di una vecchia razionalità o si cambia paradigma contro il disastro contemporaneodi Ignazio Masulli il manifesto 26.11.15
Oltre alla crisi economica esplosa nel 2008, i paesi dell’area euro-atlantica attraversano una crisi politica che appare anch’essa priva di prospettive, a meno di un drastico cambiamento di rotta. Nel corso di un anno, ci siamo trovati di fronte a due fenomeni che hanno disvelato tutta l’impotenza di modelli di pensiero e azione politica non più praticabili.
Il primo fenomeno riguarda il crescendo dei flussi migratori verso quest’area negli ultimi anni. Si tratta di persone che bussano alle nostre porte cercando scampo da guerre e conflitti civili che proprio gli Stati uniti e i loro maggiori alleati europei hanno intrapreso e fomentato negli ultimi decenni, in una sorta di tardo colonialismo malamente travestito da buone intenzioni. Se si sommano i rifugiati e richiedenti asilo negli Usa, Gran Bretagna, Germania, Francia e Italia, il loro numero era di circa un milione e mezzo alla fine dell’anno scorso, contro un totale di 55 milioni nel mondo. Insieme ad essi e in numero maggiore, sono coloro che continuano ad intraprendere lunghi viaggi della speranza verso gli stessi paesi per sfuggire al sovrapporsi insostenibile di povertà endemiche e nuovi squilibri causati dallo sfruttamento massiccio di lavoro a basso costo e dall’espoliazione di risorse naturali, perpetrati dalle multinazionali dei paesi più ricchi.
Ma, nonostante queste precise responsabilità, l’atteggiamento prevalente negli Usa e, ancor più, in Europa è stato quello di “fortezze assediate”.
Sentimenti di timore o apertamente xenofobi presenti in larghe fasce delle popolazioni autoctone non sono stati scoraggiati, ma anzi assecondati e strumentalizzati politicamente. E ciò non solo da partiti di estrema destra, ma anche da sedicenti moderati. E ciò ha trovato riscontro in una disponibilità all’accoglienza da parte dei governi, in Europa e negli Usa, nulla o davvero risibile in confronto alle decine di milioni di persone che hanno trovato rifugio nei paesi vicini, ben più poveri delle mete maggiormente agognate.
A questo si è aggiunto un secondo fenomeno che ha fatto da cartina di tornasole dell’umanità e della doppiezza politica di Stati che si considerano potenti. Il sanguinoso e folle attacco terroristico a Parigi sembra aver dato la stura a nuovi venti di guerra. Gran parte della popolazione in Francia, in altri paesi europei e negli States è come abbandonata alla deriva di sentimenti di paura, mentre non mancano manifestazioni di avversione per tutto ciò che sembra collegabile al “fanatismo islamico”.
Per parte loro, i governanti non sembrano preoccuparsi tanto di tali pericolose reazioni, quanto piuttosto della strumentalizzazione elettorale che ne fanno le opposizioni di destra.
Anche in questo caso alcuni Stati membri dell’Unione europea o della Nato sembrano voler gonfiare le vele verso nuove crociate, incuranti della pretestuosità e dei risultati fallimentari delle due guerre in Iraq, di quella in Afghanistan, del sostegno dato al rovesciamento di regimi autoritari in Libia, Egitto e Siria, nonché delle strumentalizzazioni di contrapposizioni etniche e conflitti interni in altri paesi, specie nell’Africa centrale e orientale (Mali, Nigeria, Repubblica Centrafricana, Sudan, Eritrea, Somalia).
Di fronte a queste prove d’ inadeguatezza e avventurismo, a prese di posizione che mal celano responsabilità e doppiezze, non possiamo non chiederci perché a 25 anni dalla fine dell’equilibrio bipolare, pur minaccioso e soffocante, le potenze del vecchio blocco atlantico, insieme ai maggiori paesi asiatici non siano ancora riusciti a stabilire un nuovo ordine internazionale. Un ordine dotato di maggiore equilibrio e stabilità e, soprattutto, tale da poter reggere alle sfide del presente e del prossimo futuro.
La risposta è da ricercare nell’amara constatazione che, nel corso della nostra storia, l’organizzazione stessa del potere si è conformata all’obiettivo primario di far fronte manu militari a minacce, più o meno probabili, che potessero venire dall’esterno
Non a caso, il paesaggio del nostro passato è costellato da fortezze e armamenti, fino agli ultimi, capaci di distruzione totale. Né meno minacciose e pericolose sono state le recinzioni immateriali tracciate dalla contrapposizione di etnie, nazioni, razze.
Tale constatazione ci deve rendere consapevoli del fatto che ci troviamo, oggi, di fronte ad un punto di biforcazione.
O restiamo prigionieri di una vecchia razionalità politica basata sui rapporti di forza, l’ordine gerarchico, la competizione ineludibile, l’individuazione dell’avversario da abbattere. Così andando verso il disordine entropico. O compiamo il salto necessario per affrontare, in termini nuovi, i problemi strettamente interconnessi e di dimensioni globali che attraversano il mondo contemporaneo.
Ma per compierlo è necessario fare emergere ed esprimere un’altra pulsione antropologica altrettanto forte di quella prevalsa nel passato e solo sacrificata ad essa. E’ una pulsione che conosciamo bene, sia come individui che come comunità, e che tante volte siamo stati capaci di esprimere, anche nella vita sociale e politica. E’ la pulsione che ci spinge alla comprensione e alla ricerca di rapporti di solidarietà e di armonia con gli altri. Una pulsione che può e deve ispirare una nuova razionalità politica basata sul rispetto anche di chi si trova in posizione diversa o distante da noi, che preferisca la cooperazione alla competizione, che ripudi, una volta e per sempre, la violenza e la guerra. E non si continui a dire che queste sono mere aspirazioni lontane dalla realtà, magari più adatte a leader spirituali, perché “la politica è un’altra cosa”.
Si tratta, invece, di constatare che di fronte allo svuotamento della politica, quasi completamente schiacciata dall’affermazione diretta di interessi economici ed obiettivi di potere unilaterali e strumentali, è urgente ritrovare le coordinate di senso e la capacità di scelta di un’azione politica in grado d’interpretare e perseguire il bene comune.
Olivier Roy Il nichilismo dei convertiti alla jihad
intervista di Stefano Montefiori Corriere 26.22.15
PARIGI Olivier Roy, grande orientalista francese docente all’Istituto universitario europeo di Fiesole, offre un’analisi originale del fenomeno jihadista in Europa. Prodotto, secondo lui, di due fattori: il nichilismo di alcuni giovani, e il conflitto generazionale tra genitori e figli.
Alcuni immigrati di seconda generazione, nati in Francia, si distaccano dall’Islam pacifico dei padri arrivati dal Marocco o dall’Algeria; vivono alcuni anni all’occidentale, si secolarizzano e poi tornano all’Islam — nella sua versione jihadista — perché «è l’unica causa radicale sul mercato».
Lo stesso accade ai non pochi europei che si convertono: innanzitutto sono in rivolta contro la società, nichilisti e radicalmente antagonisti. Poi esprimono questa ribellione abbracciando le idee jihadiste, quelle che garantiscono oggi il maggiore grado di rifiuto del sistema.
Professor Roy, intanto che cosa pensa della risposta militare della Francia in Siria?
«Sradicare l’Isis porterà un colpo al terrorismo, senza dubbio. Attaccare lo Stato Islamico in Siria e Iraq va bene, può essere utile. Ma ho due dubbi. Intanto manca una strategia per il dopo. Che cosa faremo poi a Mosul, a Falluja? Ce ne andiamo? Torneranno. Restiamo? Buona fortuna».
E poi?
«Poi resterà il problema della radicalizzazione dei giovani. I giovani non si rivoltano contro la società francese a causa dell’Isis. Sono vent’anni che i giovani francesi e più in generale europei si rivolgono al terrorismo islamista, e l’Isis esiste da soli due anni. Prima i giovani si radicalizzavano per il Gia algerino, poi per Al Qaeda, poi per la guerra in Bosnia. Dopo l’Isis ci sarà qualcun altro».
Dipende anche dai continui problemi del Medio Oriente, dall’instabilità, dalle questioni irrisolte come quella israelo-palestinese?
«No, niente a che vedere. C’è tutta una teoria in Europa secondo la quale i giovani passano al terrorismo a causa delle ferite mai rimarginate, della questione palestinese... Non è vero. Questa gente non parla quasi mai della Palestina, non attacca ambasciate o consolati israeliani, se si rivolge contro una sinagoga lo fa per antisemitismo, non contro Israele per antisionismo. La mobilitazione pro palestinese e anti israeliana, per esempio il movimento BDS, o la Flottiglia per Gaza, non ha niente a che vedere con gli ambienti jihadisti, sono due bacini completamente differenti».
Qual è il movente ?
«Alla base c’è un nichilismo, una repulsione per la società, che si ritrova anche a Columbine e nelle altre stragi di massa negli Stati Uniti, o in Norvegia con il massacro di Anders Breivik che fece 77 morti a Oslo e Utoya. C’è una descrizione degli assassini del Bataclan che ricorda Breivik in modo impressionante: uccidevano con sguardo freddo, con calma e metodo, senza neanche manifestare odio. Il nichilismo, la rivolta radicale e totale, è comune a tutti questi episodi, e in Europa prende la forma del jihadismo tra alcuni musulmani di origine o convertiti».
Qual è il peso di questi convertiti?
«Fondamentale, anche per spiegare la natura del jihadismo europeo. Nell’attacco di Parigi un ruolo importante nella logistica lo hanno giocato, dalla Siria, i fratelli Jean-Michel e Fabien Clain. Il fenomeno dei convertiti non è spiegabile se aderiamo alla diffusa analisi post coloniale della radicalizzazione. Alcuni miei amici progressisti, di sinistra o piuttosto estrema sinistra, mi dicono «questi giovani sono vittime di razzismo, di discriminazioni, è per questo che si ribellano». Non è vero. Nessuno ha discriminato i ragazzi francesi anche di buona famiglia che si convertono. Eppure vanno in Siria pensando di tornare per fare stragi».
Oltre al nichilismo, l’altro elemento è il conflitto generazionale?
«Sì, le famiglie sono spaccate. I genitori musulmani non se ne fanno una ragione, talvolta vanno in Turchia per tentare di riprendersi i loro ragazzi. Non abbiamo avuto alcun problema con gli immigrati musulmani arrivati nei decenni scorsi dal Maghreb. Ce l’abbiamo con alcuni dei loro figli, la seconda generazione, nati qui, che parlano il francese meglio dei padri e a un certo punto si sono secolarizzati. Le testimonianze coincidono: i futuri terroristi a un certo punto lasciano l’Islam dei padri e vivono all’occidentale, si dedicano al rap, bevono alcol, fumano spinelli, e poi all’improvviso cambiano, si lasciano crescere la barba, diventano islamisti, integralisti. Sempre in contrapposizione ai padri. Sono tanti i fratelli terroristi, dai Kouachi ai Clain agli Abdeslam entrati in azione a Parigi: la dimensione generazionale è evidente».
Paradossalmente la secolarizzazione non aiuta?
«È così. La secolarizzazione, la mancata trasmissione dell’Islam dei padri, favorisce l’islamismo. Islam dei padri che peraltro i convertiti non hanno mai conosciuto. Quindi, non si tratta di radicalizzazione dell’Islam. Ma di islamizzazione del radicalismo».
Uno Stato sunnita per battere l’Isis
L’idea di dar vita a un «Sunnistan» sulle ceneri di Siria e Iraq garantendo una nazione curda e una enclave alawitadi Massimo Gaggi Corriere 26.11.15
NEW YORK Sconfiggere l’Isis ma non per tornare alla divisione precedente dei confini tra Siria e Iraq: meglio costruire un nuovo Stato sunnita nell’area già occupata dallo Stato Islamico e in quelle che il «califfo» sta cercando di conquistare. Curiosamente a proporre la creazione di questo Sunnistan non è un leader movimentista arabo, ma un arci conservatore americano: John Bolton, l’ex ambasciatore Usa all’Onu ed ex viceministro degli Esteri di George W. Bush.
Strana figura di diplomatico pirotecnico che, anziché cercare mediazioni prende posizioni incendiarie, Bolton è un radicale, anomalo anche per un mondo politico repubblicano sempre più influenzato dall’estremismo ideologico. Ma questo personaggio controverso — all’inizio dello scorso decennio un «neocon» considerato uno degli architetti della guerra di Bush contro l’Iraq — è anche un intellettuale raffinato, capace di analisi acute che poi mescola con proposte sconsiderate. Come quella, formulata qualche mese fa, di un attacco preventivo contro gli impianti atomici iraniani: una necessità, secondo Bolton, che non crede agli impegni presi da Teheran.
La proposta della creazione di un Sunnistan è anch’essa appoggiata su una nuvola d’impraticabilità, visto il caos inestricabile che regna nella regione e la probabile fiera opposizione di alcune potenze — sicuramente Russia e Iran, ma nemmeno la Turchia sarebbe felice — a un simile progetto. Eppure l’idea è suggestiva e fa discutere. Se non altro perché mette in luce una delle cause di debolezza dell’Occidente: la mancanza di una visione che vada oltre la distruzione dell’Isis. Cancellare lo Stato Islamico per fare cosa? Per tornare ai confini dell’accordo Sykes-Picot, il patto tra due potenze coloniali, Gran Bretagna e Francia, che nel 1916 portò alla definizione di frontiere irachene tracciate artificialmente da alcuni burocrati? Da anni molti analisti sostengono che la realtà attuale del Medio Oriente richiederebbe ben altro, ma nessuno è stato in grado di mettere in piedi un’iniziativa politica di un qualche spessore. Delle obiezioni ai vecchi accordi coloniali non si è, poi, quasi più parlato da quando ad abolire quei confini ci ha pensato proprio il «califfato» con una dichiarazione politica che mandava il soffitta il patto del 1916.
Tocca adesso a un personaggio come Bolton, un po’ apprendista stregone un po’ dottor Stranamore, riaprire la questione con un ragionamento che, se non porta verso soluzioni praticabili, ha, comunque, una sua lucidità. Una volta distrutto lo Stato Islamico che facciamo? si chiede Bolton. Restituiamo la Siria liberata a Damasco, cioè a un Assad difficile da eliminare, e le terre irachene al regime filo-iraniano di Bagdad? Per Bolton bisogna prendere atto che Siria e Iraq, così come erano state disegnata dopo la dissoluzione dell’impero ottomanno, non esistono più: la nascita dello Stato islamico ha portato ormai di fatto alla nascita di uno Stato curdo indipendente al nord e a una mobilitazione dei sunniti contro il regime dell’alawita Assad a ovest e contro quello sciita di Bagdad a est.
L’ex ambasciatore Usa all’Onu sembra considerare dati ormai consolidati non solo la realtà curda e l’alleanza Teheran-Bagdad, ma anche la permanenza al potere di Assad a Damasco. La soluzione per la quale l’Occidente e anche gli altri Paesi arabi, soprattutto quelli del Golfo, dovrebbero battersi è, quindi, quella del Sunnistan: geograficamente una versione allargata dello Stato Islamico che occuperebbe gran parte dell’attuale territorio della Siria e la parte occidentale dell’Iraq. Il centro-sud di questo Paese, comprese Bagdad e Bassora, diventerebbe uno Stato sciita satellite del regime degli ayatollah, mentre la costa mediterranea della Siria si trasformerebbe in un piccolo Stato alawita governato da Assad o dai suoi successori. A nord il Kurdistan.
Difficile ma non impossibile, secondo Bolton. L’ex ambasciatore, ora tornato all’«American Enterprise Institute», il principale think tank della destra americana, ammette che, oltre alla Russia e all’Iran, anche la Turchia potrebbe avere da ridire. Ma secondo lui alla fine Ankara accetterebbe la nuova realtà statuale per avere un po’ più di stabilità ai suoi confini meridionali.
Ma chi la governerebbe? Il vecchio «esportatore di democrazia» ammette che il Sunnistan non sarebbe esattamente una Svizzera, «né una democrazia jeffersoniana. Ma in questa regione non ci sono alternative a regimi militari e governi autoritari». Verrebbe da dire che Bolton si è pentito di aver promosso, 12 anni fa, il rovesciamento del regime di Saddam, se non fosse che anche di recente l’ex ambasciatore ha detto che sarebbe pronto a ripetere l’invasione dell’Iraq.
Ma poi, nell’articolo-proposta pubblicato dal New York Times , Bolton sostiene che a governare il nuovo Stato dovrebbero essere capi tribù e leader sunniti presentabili, e anche ex capi del partito Baath. Cioè gli uomini di Saddam Hussein. Comunque preferibili gli islamisti radicali, ammette oggi Bolton.
Fareed Zakaria «La colpa di Erdogan Ha chiuso gli occhi sui jihadisti in Siria»
Cosa faremo per mettere ordine nella Siria liberata? Senza risposta, sarà una nuova Libia «Ma per batterli non servono le truppe sul terreno»intervista di Paolo Valentino Corriere 26.11.15
«Io spero solo che Mosca non reagisca in modo sproporzionato. È evidente che i piloti russi hanno commesso un errore minimo, volutamente o meno, ma non c’è dubbio che la reazione turca è stata eccessiva, quasi cercassero l’incidente. L’abbattimento dell’aereo russo illustra purtroppo molto bene la complessità e i rischi di ogni azione militare in Siria. Ci sono sei Paesi attivamente coinvolti nelle operazioni: Turchia, Russia, Stati Uniti, Iran, Giordania e Francia. Non solo non sono coordinati, ma non sono neppure tutti sulla stessa linea, nel senso che non è sempre chiaro chi appoggi chi. Ma il problema più grave è che manca ogni coordinamento politico».
Al telefono da New York, Fareed Zakaria non risparmia critiche pesanti all’atteggiamento tenuto dalla Turchia nella vicenda siriana. Secondo l’analista della Cnn , uno dei più attenti studiosi del mondo globalizzato, «Ankara ha assunto una posizione assurda, priva di giustificazioni strategiche».
Può spiegarlo?
«Erdogan voleva la cacciata di Assad a ogni costo, ma quando ha visto che non ci riusciva, ha reagito consentendo a chiunque combattesse il regime siriano, fossero pure i jihadisti, di usare il territorio turco. Ankara lo nega, ma è confermato da tutti i rapporti d’intelligence. È stato un atteggiamento destabilizzante. L’altro errore è che l’unico gruppo che in effetti combatte Isis-Daesh, cioè i curdi, è stato contrastato dalla Turchia. Si può capire, vista l’esperienza con il terrorismo curdo. Ma è stata una reazione insensata: i curdi di cui parliamo vogliono solo creare una zona sicura tra Siria e Iraq e c’è un modo per negoziarlo anche con Ankara. Spero, ora che è stato rieletto, che Erdogan cambi atteggiamento. Ma non è detto. La sua politica estera era cominciata con lo slogan “zero problemi con i Paesi vicini” e oggi Ankara ne ha con tutti, dall’Egitto all’Iran. È uno dei rischi del mondo post americano: le potenze regionali diventano più importanti, ma non per questo sono più strategiche e sagge».
Lei rimane scettico sull’efficacia di ogni azione militare contro l’Isis, anche dopo Parigi. Perché?
«Perché dobbiamo essere misurati e seri su come conseguire gli obiettivi che ci siamo proposti. La domanda fondamentale è: una volta deciso di mettere i boots on the ground per sconfiggere lo Stato Islamico, cosa faremo per mettere ordine nella Siria liberata? Senza risposta a questo interrogativo, vedremo le stesse cose viste in Iraq, Libia, Yemen: vuoto di potere, caos politico, violenza jihadista, sangue. L’Isis si squaglierà, mimetizzandosi nel deserto o tra la popolazione, pronta a materializzarsi di nuovo non appena saremo partiti».
Ma il processo diplomatico iniziato a Vienna non è il binario parallelo che dovrebbe accompagnare l’azione militare?
«Non sono sicuro che una maggior pressione militare possa farci avanzare più rapidamente verso una soluzione politica. In Vietnam gettammo più bombe che in tutta la Seconda guerra mondiale: fu quello a portare i nordvietnamiti al tavolo negoziale? Ho qualche dubbio. Dobbiamo coinvolgere Russia e Iran a pieno titolo, lavorare con loro e individuare un’architettura politica che abbia senso: gli alawiti in Siria sono una minoranza del 14%. Si ripete lo scenario del Libano, con la minoranza cristiana, e dell’Iraq, con i sunniti, dove la ribellione della maggioranza contro la minoranza al potere, ha prodotto la guerra civile. In Libano è durata 15 anni, in Iraq continua. Ora tocca alla Siria e la chiave è come sempre trovare un posto a quella minoranza, che non può più governare, ma che non può essere eliminata. Credo che la soluzione sia quella di una “spartizione morbida”».
La sua riluttanza sull’intervento di terra rispecchia quella dell’amministrazione Obama. Sembra una situazione rovesciata rispetto al 2001: allora gli Stati Uniti sotto attacco erano per intervenire, mentre l’Europa frenava; oggi a essere attaccata è la Francia e sono gli europei (o meglio, alcuni) a spingere per l’ intervento e Washington a frenare.
«È vero solo in parte. L’aviazione Usa ha condotto 9 mila raid aerei contro l’Isis in Siria, la Francia alcune centinaia. Washington è pienamente impegnata. La riluttanza è nel cominciare a conquistare territorio, perché al momento nessuno sa dire cosa farne».
Siamo in guerra con l’Islam o è l’Islam in guerra con se stesso?
«Questo è soprattutto un conflitto interno al mondo islamico. Non è uno scontro delle civiltà. Isis è un’organizzazione sunnita che vuole sterminare gli sciiti, prendendo la loro terra e creando un Califfato wahabita. Certo, è anche anticristiana e antioccidentale. Ma non dimentichiamo che la ragione per cui attaccano la Russia è il suo coinvolgimento in Siria e così vale per la Francia.
È un’organizzazione settaria, limitata nella capacità geografica: non sono in grado di tenere a lungo i territori curdi, né possono contare su un forte appoggio di popolazioni locali anche nelle terre che controllano, come dimostrano i milioni in fuga».
Come li sconfiggiamo?
«Bisogna essere pazienti. Nessuna società può essere al 100% sicura quando gli attacchi avvengono in luoghi della vita quotidiana, come i caffè, i ristoranti. E in fondo il solo tentativo ambizioso del 13 novembre, quello allo stadio, è fallito. La sicurezza ha funzionato. Se coordiniamo le intelligence, blocchiamo le fonti di finanziamento, limitiamo la loro capacità di muoversi, i terroristi non possono vincere. Ma dobbiamo farlo senza isterismi. Mi preoccupa il fatto che in Europa stia prevalendo un’atmosfera di paura, un’onda di sentimento anti islamico. È grave perché ciò rischia di distruggere i fondamenti dell’Europa: apertura e integrazione, di cui oggi c’è più e non meno bisogno. I Paesi europei devono condividere più informazioni, avere migliori controlli alle frontiere esterne, avere procedure comuni per il diritto d’asilo, ma non chiudersi a riccio, cosa fra l’altro impossibile. Occorre più Europa».
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