domenica 8 novembre 2015

Il centenario di Roland Barthes



Barthes, erotica del segno 
Centenari. Libero perché neutro, lo spazio della letteratura è per Barthes luogo del desiderio, erotico, trasgressivo, anche quando la violenza del testo nega la delicatezza del tratto

Pierluigi Pellini Alias Manifesto 8.11.2015, 6:00 
Se per sod­di­sfare l’ansia di bilanci det­tata dal rituale di ogni cen­te­na­rio – quello della nascita di Roland Bar­thes cade fra pochi giorni, il 12 novem­bre – si ricor­resse all’evidenza spic­cia del mer­cato libra­rio ita­liano, la rispo­sta risul­te­rebbe inap­pel­la­bile. Invec­chiano bene i Miti d’oggi (del 1957), cro­naca fram­men­ta­ria, ma di insu­pe­rata luci­dità e forza cor­ro­siva, di quella moder­niz­za­zione post­bel­lica da cui ancora discende il nostro pre­sente.

Viva è anche la cosid­detta tri­lo­gia let­te­ra­ria, com­po­sta dal bri­co­lage auto­bio­gra­fico del Bar­thes di Roland Bar­thes (del 1975), dai Fram­menti di un discorso amo­roso (del 1977), e soprat­tutto dalla Camera chiara, il libro fol­go­rante sulla foto­gra­fia – uno dei più belli del Nove­cento – uscito nel 1980, poche set­ti­mane prima della morte del suo autore, che a con­clu­sione di un per­corso intel­let­tuale inte­ra­mente votato allo stu­dio dell’artificio semio­tico, della codi­fi­ca­zione, con­ta­mi­na­zione e dis­se­mi­na­zione dei lin­guaggi, fa i conti con «il risve­glio dell’intrattabile realtà», esi­bendo il trauma imme­di­ca­bile della per­dita dell’essere amato (la scom­parsa della madre Hen­riette). Per que­sto, come rifiuta ogni per­ti­nenza esi­sten­ziale all’elaborazione del lutto teo­riz­zata dalla psi­coa­na­lisi, Bar­thes nega para­dos­sal­mente all’immagine foto­gra­fica ogni sta­tuto di ars, leg­gen­dola solo, con pie­tas strug­gente e ver­ti­gi­noso para­lo­gi­smo, come «un’emanazione del refe­rente». Per­ché «la foto dell’essere scom­parso viene a toc­carmi come i raggi dif­fe­riti di una stella», è «il pas­sato e il reale insieme». Nell’anno stesso che segna, nelle sem­pli­fi­ca­zioni sto­rio­gra­fi­che, con l’esaurimento delle avan­guar­die e dei movi­menti di con­te­sta­zione, il defi­ni­tivo ritorno all’ordine (del romanzo tra­di­zio­nale, e della Sto­ria bor­ghese), uno dei pro­ta­go­ni­sti della svolta lin­gui­stica e erme­neu­tica degli anni ses­santa scrive un libro sull’opacità mor­tua­ria del refe­rente, la cui «cer­tezza» impone di «sospen­dere l’interpretazione». Nella nega­zione, a suo modo laca­niana, della pos­si­bi­lità stessa di un meta­lin­guag­gio, si chiude un’epoca. 
Così, oggi può appa­rire morto il Bar­thes cri­tico let­te­ra­rio. Non sono più ristam­pati, in Ita­lia, testi che fino a vent’anni fa erano pre­senza cano­nica in ogni biblio­gra­fia d’esame uni­ver­si­ta­rio: un testo-feticcio del for­ma­li­smo strut­tu­ra­li­sta come Intro­du­zione all’analisi strut­tu­rale dei rac­conti (del 1966) e il modello pre­coce di ogni erme­neu­tica post-strutturalista, S/Z (del 1970). Di quest’ultimo, labi­rin­tica let­tura, o anzi riscrit­tura, della poli­se­mia di un rac­conto di Bal­zac, Sar­ra­sine, Michel Fou­cault ebbe a dire: «la prima vera ana­lisi testuale che io abbia mai letto». Eppure oggi appare ai più illeggibile. 
Il referto del mer­cato sem­bra con­fer­mare, come pre­ve­di­bile, un tenace luogo comune: ci sono due Bar­thes, lo scrit­tore e il cri­tico; e se la for­tuna di quest’ultimo si è eclis­sata, al pari delle mode cul­tu­rali e dei metodi che di volta in volta ha lan­ciato, adot­tato, o sman­tel­lato dall’interno, quella delle opere crea­tive trova invece cau­zione non esau­ri­bile in quel «pia­cere del testo» che dà il titolo al sag­gio del 1973, da molti con­si­de­rato come lo spar­tiac­que fra una prima e una seconda maniera. Per quanto gros­so­lano, il dua­li­smo potrebbe appa­rire in prima appros­si­ma­zione esatto, se non fosse smen­tito dall’unitaria ten­sione, intel­let­tuale e pro­pria­mente ero­tica, che dà forma e com­pat­tezza all’intero cor­pus di Bathes: quella ten­sione che mira a abo­lire ogni distin­guo fra scrit­tura e let­tura, testo e com­mento, teo­ria e pra­tica let­te­ra­ria, oppo­nendo all’estetica della purezza un’etica della con­ta­mi­na­zione; e che sfo­cia in un’apologia del con­cetto cui è dedi­cato il semi­na­rio del 1978, il «neu­tro», inteso come stru­mento filo­so­fico capace di scio­gliere il legame fra segno e refe­rente, svuo­tando cate­go­rie e anti­no­mie (cul­tu­rali, sociali, ses­suali). Un’apologia tanto più signi­fi­ca­tiva nel momento in cui, puer senex, l’attempato orfano con­tem­pla nella più dere­litta dispe­ra­zione la foto­gra­fia ritro­vata della «madre-bambina», da cui prende l’abbrivio esi­sten­ziale la scrit­tura della Camera chiara. 

Per­ciò è tutto Bar­thes a risul­tare ancora vivo, soprat­tutto nei suoi para­dossi. Sem­pre incline, per curio­sità intel­let­tuale e slan­cio di desi­de­rio, a accom­pa­gnare con la rifles­sione teo­rica le spe­ri­men­ta­zioni delle avan­guar­die (dal nou­veau roman a «Tel Quel»), e dispo­sto a dar cre­dito alle avven­ture intel­let­tuali delle gene­ra­zioni più gio­vani, Bar­thes ama in realtà i clas­sici. È a suo agio nel grand siè­cle di Racine e dei mora­li­stes e anche (forse soprat­tutto) nel secolo della vitu­pe­rata nar­ra­tiva rea­li­sta, in quell’Ottocento di cui ha stu­diato una delle figure emble­ma­ti­che nel gio­va­nile Miche­let (del 1954). Per­fino quando riserbo, misura, distacco – i tratti umani che ne carat­te­riz­zano la per­so­na­lità pub­blica – si rove­sciano in pro­vo­ca­to­ria iat­tanza; per­fino quando la vio­lenza dello scritto sem­bra negare la deli­ca­tezza del tratto, è sem­pre in difesa della let­te­ra­tura che alza i toni: del tutto a torto è stata impu­tata a Bar­thes – come del resto a Der­rida, cui lo acco­mu­nano l’elogio dell’écriture e l’idea di un con­ti­nuo dif­fe­ri­mento del senso – qual­che respon­sa­bi­lità nella dis­so­lu­zione del con­cetto stesso di let­te­ra­tura con­su­ma­tasi nel pas­sag­gio fra deco­stru­zio­ni­smo e cul­tu­ral studies. 
In realtà, la denun­cia fami­ge­rata, nella lezione inau­gu­rale al Col­lège de France, della natura intrin­se­ca­mente dispo­tica della comu­ni­ca­zione lin­gui­stica (la lin­gua sarebbe senz’altro «fasci­sta»: affer­ma­zione, va da sé, in buona logica auto­con­trad­dit­to­ria) è certo omag­gio all’amico e rivale Fou­cault: riprende infatti, con spet­ta­co­lare rin­caro, le sue ana­lisi sul discorso del potere; ma solo per sot­trarre, con­tro Fou­cault, la scrit­tura let­te­ra­ria a ogni ipo­teca della doxa domi­nante, facen­done lo spa­zio del desi­de­rio – spa­zio tra­sgres­sivo, ero­tico, libero, pre­ci­sa­mente per­ché neu­tro. In que­sto senso, l’ipotesi restau­ra­tiva, con tanto di ritorno alla sto­ria let­te­ra­ria, for­mu­lata dal più intel­li­gente e oppor­tu­ni­sta fra gli allievi di Bar­thes, Antoine Com­pa­gnon, non è solo apo­sta­sia, non segna solo la vit­to­ria della vec­chia Sor­bona; è anche inve­ra­mento, par­ziale e distorto, di una pos­si­bile invo­lu­zione che la morte pre­coce ha ini­bito allo stesso autore del Pia­cere del testo. 
Pro­prio gli ultimi libri, infatti, pur adot­tando con più esi­bita (e disi­ni­bita) libertà forme fram­men­ta­rie e cen­tri­fu­ghe, pur destrut­tu­rando il rac­conto, dis­se­mi­nando l’argomentazione, osten­tando l’Io – non più pro­scritto – nella sua fra­gile, oscil­lante con­tin­genza, ritro­vano para­dos­sal­mente la lezione dei clas­sici, soprat­tutto dei Pen­sieri di Pascal. Per­ciò l’opera di Bar­thes è forse, in tutto il secondo Nove­cento, la più cospi­cua fonte di scin­til­lanti afo­ri­smi: mai esenti dal sospetto, tor­men­toso innan­zi­tutto per l’autore, di ali­men­tare con bril­lante faci­lità la pre­sunta «impo­stura», di cui lo tac­ciava l’establishment con­ser­va­tore; e invece capaci, sem­pre, di far nascere dall’aporia un pen­siero che s’identifica con l’atto stesso della scrittura. 
Una di que­ste frasi memo­ra­bili sem­bra atta­gliarsi al cen­te­na­rio: «La Sto­ria è iste­rica: essa prende forma solo se la si guarda – e se la si guarda biso­gna esserne esclusi». Per que­sto il con­tri­buto di gran lunga migliore, fra i molti usciti quest’anno, è il libro di una stu­diosa, Tiphaine Samoyault, esclusa per ragioni ana­gra­fi­che da ogni diretta discen­denza, ma coin­volta in un’avventura intel­let­tuale che sente vitale e ine­vi­ta­bile, per noi, nella dif­fi­cile ricerca di con­ci­lia­zione fra desi­de­rio e verità. Il suo Roland Bar­thes (Édi­tions du Seuil, pp. 720, euro 28,00) è molto più di una bio­gra­fia, anche se attinge copio­sa­mente alla mole ancora cospi­cua dei diari e degli appunti ine­diti; è un libro che attra­versa mezzo secolo di cul­tura non solo fran­cese, alter­nando rico­stru­zione della vita, ana­lisi delle opere, con­fronto con altri pro­ta­go­ni­sti della scena let­te­ra­ria (Gide, Sar­tre, Sol­lers, Fou­cault). Senza con­di­scen­denza apo­lo­ge­tica, se è vero che non esita a stig­ma­tiz­zare qual­che indi­zio di sud­di­tanza ideo­lo­gica, sia pure rilut­tante, nei con­fronti del gruppo di «Tel Quel» (con rela­tiva infa­sti­dita cecità durante il viag­gio nella Cina maoi­sta del 1974); senza com­pia­ci­menti scan­da­li­stici; senza ridurre, soprat­tutto, a tesi o fat­ti­zia coe­renza il magma incan­de­scente della vita e dell’opera.
Samoyault rie­sce insomma a sot­trarsi alle sec­che delle due domi­nanti let­ture anti­te­ti­che, che fanno del per­so­nag­gio forse più rap­pre­sen­ta­tivo della cul­tura fran­cese del secondo Nove­cento di volta in volta un ter­ro­ri­sta delle let­tere o un pon­te­fice fumi­sta. Let­ture entrambe inclini a dimen­ti­care quanto scrive Bar­thes nel Pia­cere del testo: «Né la cul­tura né la sua distru­zione sono ero­ti­che; è la faglia fra l’una e l’altra che lo diventa».


La passione di Roland Barthes per l’oriente 
Centenari. Per Barthes, il «suo» haiku, letteratura dello Zen, non ha l’aura dell’ineffabile: indica e designa, ma senza descrizioni e definizioni e senza inviti all’interpretazione 


Paolo Fabbri Alias Manifesto 8.11.2015, 6:00 

In Cri­tica e Verità, Roland Bar­thes scri­veva così di Kafka: «Can­cel­lando la firma dello scrit­tore, la morte fonda la verità dell’opera, che è enigma». Nell’anniversario della sua scom­parsa, anche la ricerca sin­go­lare di Bar­thes, sem­bra fatta per diso­rien­tare. Vista col cotanto (?) senno del poi, segna un per­corso intrec­ciato da molte fila e anno­dato in più punti: da Bre­cht a Nie­tzsche, dalla mito­lo­gia alla reto­rica, da Sarte allo strut­tu­ra­li­smo, da Miche­let a Sade, da Racine a Fou­rier, fino a Mal­larmé, Proust e Sol­lers. Per seguire almeno un filo del pic­colo dedalo è bene orien­tarsi verso l’Oriente. È qui, in Giap­pone e poi in Cina, nella sag­gezza e nell’arte dello Zen e del Tao, che Bar­thes ha spe­ri­men­tato una teo­ria del segno e del testo deci­sivi per il suo pen­siero e la sua scrit­tura.
Il divenire-orientale di Bar­thes ha i suoi primi rife­ri­menti in Bre­cht, in Ejzen­stejn e nel Nie­tzsche di Bataille. Poi nei libri «bud­d­hi­sti» di D. T. Suzuki, di Alan Watts, di Regi­nald Horace Blyth, e di altri che si tro­vano nella tabula gra­tu­la­to­ria dei Fram­menti del discoro amo­roso. Ma l’esperienza per­so­nale deci­siva è il viag­gio in Giap­pone, nel maggio-giugno 1966, di cui Bar­thes ha con­ser­vato una pro­fonda nostal­gia, il retro­gu­sto della lin­gua e la pra­tica dell’ideogramma. Nulla di più semio­tico del Giap­pone. Il viag­gio di Bar­thes si è svolto con la guida intel­let­tuale di Mau­rice Pin­guet, a cui è dedi­cato il libro – l’autore di una straor­di­na­ria ricerca sulla Morte volon­ta­ria in Giap­pone (1984) e di un pene­trante sag­gio su Bar­thes, Le texte Japon ( 2009). Pin­guet ha inten­sa­mente vis­suto l’opacità, il riserbo, la fusione tra eti­chetta ed emo­zione, il for­ma­li­smo ceri­mo­niale – che este­nua il senso senza impo­ve­rirlo – carat­te­ri­stici della la cul­tura nip­po­nica e che inter­ro­ga­vano il suo modo occi­den­tale di inten­dere la signi­fi­ca­zione e l’esperienza. 
Nel 1967 e nel ‘68 (!) Bar­thes scrive L’impero dei segni, mol­te­pli­cità fram­men­ta­ria di pic­coli poemi in prosa, che rin­nova la let­te­ra­tura di viag­gio e a cui si ispi­rerà Jean Bau­dril­lard nel suo libro sull’America del 1986. È l’anno fer­tile del ripen­sa­mento teo­rico e cri­tico di S/Z, e delle grandi ana­lisi di Sade, Fou­rier, Loyola. Testi inno­va­tivi rispetto al metodo strut­tu­rale e in cui emer­gono con­cetti espli­ci­ta­mente rife­riti alle disci­pline orien­tali, lo Zen e il Tao. L’esperienza del satori, i poemi haiku, le prose didat­ti­che dei koan, la nozione pas­sio­nale di wei­wei – il non voler cogliere – che lo con­dur­ranno o soster­ranno nel con­cetto del Neu­tro. Una for­mula già anti­ci­pata nella scrit­tura bianca del Grado Zero della Scrit­tura (1953), il suo primo libro, e che lo accom­pa­gnerà fino agli ultimi semi­nari di Semio­lo­gia Let­te­ra­ria al Col­lège de France, alla fine pre­ma­tura della sua ricerca. Non si tratta di con­cetti scelti per la loro alte­rità eso­tica, ma per l’efficacia euri­stica sull’impensato occi­den­tale della signi­fi­ca­zione, sulla testua­lità e l’estesia (e l’estetica). Bar­thes cer­cava una via – un Tao? – con­tro il dog­ma­ti­smo del senso pieno e quella, sim­me­trica, del senso nullo; una via che ritrova nello Zen e nelle avan­guar­die – nella pit­tura di Twom­bly, nella musica di Cage. Non intende rinun­ciare a una seman­tica e all’enunciazione ver­bale e visiva: il segno per lui non è orien­tato alla realtà, ma verso il signi­fi­cato. Cerca i dispo­si­tivi della scrit­tura – il Neu­tro, il «quasi», e così via – con cui revo­care il senso ovvio della doxa, della dire­zione e fun­zione neces­sa­ria della comunicazione. 
Nell’introduzione al suo ultimo semi­na­rio (1978–79), sulla pre­pa­ra­zione del romanzo, Bar­thes esplora nella forma poe­tica dell’haiku – una ter­zina di poche sil­labe (5–7-5) – il pas­sag­gio testuale da una nota­zione tem­pe­stiva, il kai­ros, e imme­diata, alla scena, poi al rac­conto. Per Bar­thes, il «suo» haiku, let­te­ra­tura dello Zen, non ha l’aura dell’ineffabile: indica e desi­gna, ma senza descri­zioni e defi­ni­zioni e senza inviti all’interpretazione. È il gesto ato­pico e osten­sivo dell’Ecco! È così!: discreto, senza tea­tra­lità e iste­ria. Non è un pen­siero ricco in forma breve, ma un pen­siero breve nelle forme giu­ste che pia­ce­vano a Bar­thes. Come le figure lin­gui­sti­che della sin­cope, dell’anacoluto, dell’asindeto e quelle semio­ti­che della gag, dei volan­tini, dei foto­grammi, degli inter­mezzi e dei graf­fiti. E dei «bio­gra­femi», det­ta­gli di vita decen­trati, fram­menti anno­dati da rap­porti non psi­co­lo­gici ma strut­tu­rali (Roland Bar­thes par Roland Barthes). 
Soprat­tutto nell’analisi delle foto­gra­fie e dei foto­grammi Bar­thes ritrova l’immobilità viva che sarebbe il «noema» dell’haiku. Un «Tilt», una riso­nanza che non si può svi­lup­pare né sognare, la quale può susci­tare il Satori, pas­sag­gio di un vuoto che attra­versa il sog­getto; non l’illuminazione – il sacro è nul­lità! – ma un sisma lieve che fa vacil­lare la cono­scenza e mutare l’affetto: l’amore, la pietà. Que­sta scossa punge il wei­wei, il non-agire del Tao, che non è apa­tia, ma un’astinenza medi­ta­tiva (il sazen), per­ché non è vero che «nulla va fatto», ma anche che «nulla non va fatto». 
Con­tro l’intimidazione del luogo comune che natu­ra­lizza l’arbitrario del signi­fi­cato e l’isteria ver­bosa dell’impegno, Bar­thes ha riven­di­cato l’Assenso, una dispo­ni­bi­lità senza pre­fe­renze, come accadde allo svo­gliato ritorno dal suo viag­gio in Cina, nel 1974, in piena rivo­lu­zione cul­tu­rale. Era stato coin­volto, volente-nolente, da Maria Anto­nietta Macioc­chi e dal gruppo di «Tel Quel», allora fer­vidi maoi­sti; nono­stante gli avver­ti­menti – la visione del film di Anto­nioni e la rinun­cia di Lacan. 
Bar­thes ha lasciato, nel suo postumo Car­net di viag­gio, pub­bli­cato nel 2009, miopi giu­dizi sulla «paci­fica» Cina. Un regime poli­tico la cui comu­ni­ca­zione – tra vio­lenza fisica e tea­tra­lità baroc­cheg­giante – con­tra­riava in tutto e per tutto la sua postura Zen. Il mito­logo d’oggi è stato vit­tima del mito d’allora della Cina comu­ni­sta? Non basta ricor­dare che i suoi pen­sieri più attenti erano rivolti al con­fronto tra i pro­pri ideo­grammi e quelli del Grande Timo­niere. Eppure la sua osser­va­zione che «la Cina è insa­pore» ha atti­vato la ricerca este­tica di Fra­nçois Jul­lien, il filo­sofo sino­logo, il quale ha mostrato quanto l’assenza di sapi­dità ¬ il vento e l’acqua ¬ carat­te­rizzi quel Neu­tro che con­tiene vir­tual­mente tutti i sapori, prima della loro scelta e par­ziale rea­liz­za­zione (Elo­gio dell’insapore, 1991). Mi punge però, ancor oggi il breve testo sul «Bru­sio della lin­gua»: l’ascolto di un chiasso infan­tile nell’idioma cinese che Bar­thes non cono­sceva. Uno stor­mire plu­rale, una ete­ro­fo­nia di voci, una inten­sità di affetti. Bar­thes vi leg­geva, pen­sate!, la fine del pro­getto «libe­ra­to­rio» della ses­sua­lità, allora in voga, e l’utopia, mai abban­do­nata, di una società senza classi!


Risultati immagini per L'amitié de Roland BarthesBarthes e Sollers all’ombra dei veleni di Parigi 

Celebri amicizie . Nel ritrarre l’autore della Mythologies, Sollers ne coglie la tensione politica e quella sorveglianza razionale che fa di lui un erede dell’illuminismo 

Andrea Calzolari Alias Manifesto 8.11.2015, 6:00 

Fitto com’è di rife­ri­menti ai per­so­naggi, agli ambienti edi­to­riali, ai gior­nali e alle rivi­ste che hanno ani­mato la scena cul­tu­rale fran­cese, il libro, appena uscito, che Phi­lippe Sol­lers ha dedi­cato a L’amitié de Roland Bathes (Seuil, pp. 170, euro 19,00) e che com­prende anche un tren­tina di let­tere e car­to­line ine­dite dell’amico scom­parso, è un libro molto pari­gino: pro­pone un ritratto non solo e forse non tanto di Bar­thes, quanto di una lunga ami­ci­zia, o, per meglio dire, offre un ritratto di Bar­thes attra­verso la lente del suo rap­porto con Sol­lers. Ma, nono­stante sia intriso di quello che lo stesso Bar­thes, in una delle mis­sive, chiama il «veleno di Parigi», il volu­metto ha il merito di sot­to­li­neare due aspetti della per­so­na­lità e dell’opera di Bar­thes che oggi sem­brano un po’ tra­scu­rati: la dimen­sione poli­tica (quello che Sol­lers chiama il suo anti­fa­sci­smo) e la sor­ve­glianza razio­nale, che fa di Ber­thes un erede della tra­di­zione illuminista. 
Per com­pren­dere la pro­fon­dità dell’antifascismo di Bar­thes, docu­men­tato fin da quando era gio­va­nis­simo (a dician­nove anni, nel 1934, fondò insieme a com­pa­gni del Liceo Louis-le-Grand un grup­petto anti­fa­sci­sta), baste­rebbe la sua famosa e discussa dichia­ra­zione, secondo la quale «La lin­gua è fasci­sta», «per­ché fasci­smo non è impe­dire di dire, è costrin­gere a dire»; un’affermazione che rie­cheg­gia la con­ce­zione fou­caul­tiana del potere e che soprat­tutto mostra quanto vaste, potenti e minac­ciose fos­sero ai suoi occhi le radici del fasci­smo. Né si può dimen­ti­care con quanta serietà Bar­thes abbia letto e medi­tato Marx (c’è stato un momento, rac­conta il bio­grafo, in cui loro due pen­sa­vano di essere gli unici in Fran­cia, insieme a Althus­ser, a leg­gerlo). Del resto, nota ancora Sol­lers, fin dalle pri­mis­sime opere (penso all’ancora oggi bel­lis­simo Mytho­lo­gies), Bar­thes vide che «la società mente» e stu­dia «siste­ma­ti­ca­mente e molto con­cre­ta­mente il modo in cui la società si rap­pre­senta», insce­nando uno «spet­ta­colo per­ma­nente di men­zo­gne attra­ver­sato evi­den­te­mente dal denaro»; in que­sto senso, egli sarebbe stato il primo teo­rico della società dello spet­ta­colo, anche se Debord non fa mai rife­ri­mento ai suoi testi. 
La ten­sione poli­tica, d’altra parte, non è mai disgiunta da quella luci­dità d’analisi che gli deri­vava anche da Bre­cht: «Bar­thes è lo spi­rito dei lumi – scive Sol­lers –. È il più anti­o­scu­ran­ti­sta degli intel­let­tuali o degli scrit­tori che ho potuto cono­scere»: que­sto elo­gio può sem­brare strano se si pensa a testi certo non facili come S/Z o i Fram­menti, ma il fatto è che la chia­rezza (la saphé­neia o per­spi­cui­tas, una delle vir­tu­tes elo­cu­tio­nis dalla reto­rica clas­sica) signi­fica sol­tanto, notava per esem­pio Leo­pardi, la capa­cità di tra­smet­tere al let­tore quel che si pensa: se le idee che si intende comu­ni­care sono dif­fi­cili o com­plesse il testo non sarà affatto facile, ma non per que­sto sarà poco chiaro. Ora, la dif­fi­coltà nei testi del Bar­thes post-strutturalista deriva da qual­cosa cui si rife­ri­sce egli stesso nella let­tera (qui sotto tra­dotta) in cui elo­gia il testo di Sol­lers su Lau­tréa­mont dicen­dolo di una «chia­rezza rischia­rante» (clarté éclai­rante), non senza aggiun­gere che ci sono anche altri tipi di chia­rezza (la chia­rezza della lin­gua che costringe a dire, della lin­gua «fasci­sta»): quel testo «è un testo, un tes­suto in ana­sto­mosi com­pleta con il tes­suto di Lau­tréa­mont, che smuove infine la scrit­tura del com­mento (cioè che lo distrugge)». 
Il Bar­thes post-strutturalista cerca appunto l’anastomosi elo­giata nel sag­gio di Sol­lers, non si stanca cioè di metter(si) fuori (dal) gioco (del)l’opposizione linguaggio-metalinguaggio.
Lo testi­mo­nia un libro, uscito in tra­du­zione la pri­ma­vera scorsa, che non si rac­co­man­de­rebbe mai abba­stanza a chiun­que si inte­ressi di Bar­thes, il semi­na­rio del 1974–76 Il discorso amo­roso (a cura di Augu­sto Pon­zio, Mime­sis, pp. 656, euo 28,00), in cui il tema viene ripe­tu­ta­mente pro­po­sto e inda­gato nella sua dimen­sione teo­rica, rima­sta piut­to­sto impli­cita nel libro che sca­turì dal semi­na­rio, i giu­sta­mente cele­bri Fram­menti di un discorso amo­roso: l’istanza meto­do­lo­gica che impone di distin­guere tra lin­guag­gio e meta­lin­guag­gio è fon­da­men­tale, ma pro­prio per­ché nes­sun lin­guag­gio può sfug­gire alla presa meta­lin­gui­stica, non esi­ste nes­sun meta­lin­guag­gio che offra un anco­rag­gio sicuro. 
In que­gli anni, come si sa, la stessa esi­genza teo­rica era pro­cla­mata, ben­ché in modi diver­sis­simi, anche da Lacan e da Der­rida (Bar­thes parla tal­volta di «deco­stru­zione» del meta­lin­guag­gio), e tra­la­sciando le carat­te­ri­sti­che che dif­fe­ren­ziano i tre stu­diosi, c’è almeno un aspetto del lavoro di Bar­thes che va messo in rilievo e che Por­zio, non a caso il mag­gior stu­dioso ita­liano di Bach­tin, spiega, nell’introduzione al volume citato, ricor­rendo alla cate­go­ria bach­ti­niana del discorso indi­retto libero. Nel pro­gres­sivo abban­dono della distin­zione tra il discorso inter­pre­tante e il discorso inter­pre­tato, «la parola ripor­tata pene­tra nella parola ripor­tante, la influenza, la con­ta­gia, retro-agendo su di essa, e dando luogo a un rap­porto di inter­fe­renza mas­simo, fino al punto che non si può asso­lu­ta­mente par­lare più di discorso e di meta-discorso». 
In qual­che modo, come è evi­dente, il rifiuto del meta­lin­guag­gio ha una valenza per­for­ma­tiva (e non potrebbe essere diver­sa­mente) anche in Lacan e in Der­rida, le cui scrit­ture non sono affatto assi­mi­la­bili agli stili tra­di­zio­nali deri­vati dalla psi­coa­na­lisi o dalla filo­so­fia.
Nel caso di Bar­thes, si direbbe, è più com­piuto il tra­passo dal critico-semiologo allo scrit­tore tout court, men­tre la dimen­sione teo­rica sfuma e si stem­pera nel gusto, un po’ simile a quella «rage de nom­mer» che lo stesso Bar­thes rim­pro­vera affet­tuo­sa­mente agli stu­diosi di reto­rica, per la bril­lante inven­zione di nomi che mimano, forse un po’ paro­dian­dola, la ter­mi­no­lo­gia scientifico-filosofica; quel che non viene mai meno è però la chiara intel­li­genza che ali­menta una delle più belle prose fran­cesi degli ultimi cinquant’anni. 



Barthes, allarmanti incursioni nel seminario classicista 

Barthes tra gli antichisti. Ma Virgilio può essere polisemico come Balzac? Tra gli anni ’70 e ’80 il metodo di Barthes penetrava, seducente e geniale, nel sistema formativo e esegetico degli antichisti 

Roberto Andreotti il Manifesto 8.11.2015, 1:35 

Quando Bar­thes finì sotto il fur­gon­cino, nel feb­braio 1980, Einaudi stava distri­buendo l’incandescente Bar­thes di Roland Bar­thes ma non era ancora dispo­ni­bile in ita­liano, per esem­pio, L’impero dei segni (Skira 1970), né la Leçon inau­gu­rale al Col­lège de France (’77) né, ma que­sto era ovvio, La cham­bre claire, ultimo libro licen­ziato dall’autore poche set­ti­mane prima. La popo­la­rità di Bar­thes da noi era lie­vi­tata negli ultimi mesi soprat­tutto per via dei Fram­menti di un discorso amo­roso, titolo invi­tante che por­tava la semio­lo­gia su un ter­reno in appa­renza meno esclu­sivo, con­qui­stando let­tori anche al di fuori dei con­sueti con­fini della cri­tica let­te­ra­ria. Bar­thes faceva ten­denza: libri, gior­nali, rivi­ste. Gli si poteva attri­buire una ico­no­gra­fia, com’era acca­duto a Bre­cht, a Sar­tre, a Paso­lini, tant’è vero che dopo la sua morte gli «Struzzi» Einaudi lo met­te­vano diret­ta­mente sulle coper­tine. Il pro­fes­sore con il pul­lo­ver giro­collo e la siga­retta accesa, cir­con­dato dai ragazzi capel­loni, era diven­tato la raf­fi­gu­ra­zione stessa del semi­na­rio strut­tu­ra­li­sta: un labo­ra­to­rio gio­va­nile tota­liz­zante, dotato di una pro­pria «lin­gua spe­ciale» da adepti, dove le ana­lisi testuali a un certo punto lascia­vano fil­trare i ten­ta­tivi di for­nire, mediante la let­te­ra­tura, ‘rap­pre­sen­ta­zioni del mondo’. Que­sto, più o meno, è stato Roland Bar­thes per chi abbia fre­quen­tato una facoltà uma­ni­stica tra il ’75 e l’85, ma, va da sé, altro è averlo ‘incon­trato’ fre­quen­tando i corsi del Dams a Bolo­gna dove furo­reg­giava l’amico Umberto Eco; altro stu­diando, per esem­pio, la filo­lo­gia greca e latina in uno dei temi­bili isti­tuti che pure il Ses­san­totto aveva da poco «libe­ra­liz­zato» (un’ode di Pin­daro o la metrica di Ora­zio non si pote­vano sem­pli­fi­care). È da que­sto secondo, e secon­da­rio, punto d’osservazione che pro­verò a rie­vo­care quale ruolo abbia gio­cato Bar­thes nella «ratio stu­dio­rum» di quella gene­ra­zione.
All’università lo strut­tu­ra­li­smo, con il suo ven­ta­glio di posi­zioni e pro­po­ste dalla lin­gui­stica alle fiabe, ege­mo­niz­zava la ricerca, per­ciò Bar­thes, anche se molti docenti con­si­de­ra­vano con sospetto la sua «semio­lo­gia», in un modo o nell’altro entrava sem­pre nei discorsi. Se l’analisi strut­tu­rale si può appli­care indif­fe­ren­te­mente a una tra­ge­dia di Racine e a Robbe-Grillet, e per­sino a un fatto di cro­naca, per­ché allora non anche a Ovi­dio e a Petro­nio? Baste­rebbe ricor­dare il sem­pre citato pia­cere del testo. Nes­suno si sarebbe sognato di inscri­vere un’istanza del genere, di matrice laca­niana, nel cor­redo cri­tico di un let­tore di let­te­ra­tura antica, ma il fatto stesso che cir­co­lasse un libretto che por­tava quel titolo (e il qua­drato rosso) finiva per riguar­dare anche i clas­si­ci­sti. Così, senza rien­trare nel pro­gramma d’esame, Bar­thes lavo­rava ai fian­chi, e faceva sistema con la biblio­gra­fia con­si­gliata. Il suo metodo sog­get­ti­vante – quasi ago­sti­niano per gli effetti di inte­rio­riz­za­zione che susci­tava – non si adat­tava facil­mente alla filo­lo­gia dei ‘nostri’ autori; tut­ta­via era una pistola carica pun­tata con­tro la resi­stenza sto­ri­ci­sta, nella disputa per la ride­fi­ni­zione della let­te­ra­tura come sistema rego­lato da leggi pro­prie e da una pra­tica ‘inter­te­stuale’.
Occorre però spie­gare meglio la par­ti­co­lare posi­zione di noi stu­denti ‘clas­si­ci­sti’ – per esem­pio rispetto ai col­le­ghi delle facoltà moderne – in quanto discen­denti da una scuola erme­neu­tica che si van­tava di essere auto­suf­fi­ciente e di impie­gare un metodo ‘scien­ti­fico’ teo­ri­ca­mente fon­dato. Per quanto ormai svuo­tata di ogni pre­tesa filo­so­fica, que­sta solida tra­di­zione teneva ancora, argi­nando fra l’altro la deriva alge­brica (o mistica) in cui fini­vano certi strut­tu­ra­li­sti. Del resto la filo­lo­gia clas­sica, sin dai fasti ales­san­drini, ha avuto come sua mis­sione l’esegesi, cioè la spie­ga­zione e il com­mento dei testi: una bus­sola che segna sem­pre il Nord, anche quando si ritrova in ter­ri­tori cri­tici ine­splo­rati. E forse non tutti ricor­dano che Bar­thes si era lau­reato alla Sor­bona pro­prio in Let­tere clas­si­che, si era spe­cia­liz­zato in tra­ge­dia greca, e a par­tire dal ’39, prima di rica­dere nella tuber­co­losi, aveva inse­gnato nei licei (ma que­sto allora non lo sape­vamo).
Bar­thes cri­tico ci appa­riva per­ciò anti-manualistico e a-sistematico (nono­stante un cele­bre semi­na­rio sulle rivi­ste di Moda). Il ‘ritorno del represso’ alleato, in sede d’analisi let­te­ra­ria, con lo sma­sche­ra­mento delle ‘ideo­lo­gie delle forme’? C’era qual­cosa che suo­nasse di più stra­niante, per chi veniva adde­strato – sia pure senza le esa­ge­ra­zioni dei mae­stri tede­schi – alla glo­riosa Quel­len­for­schung che infil­zava con­fronti e «loci simi­les» negli appa­rati in corpo minore dei clas­sici? Eppure que­sti metodi anta­go­ni­sti attec­chi­vano simul­ta­nea­mente, su piani magari com­ple­men­tari. Quel che ci sedu­ceva dei semio­logi e degli strut­tu­ra­li­sti, o quanto meno di quelli come Roland Bar­thes, era sco­prire che non ci offri­vano solo lucidi apri­sca­tole (non sem­pre taglienti, per la verità), cioè stru­menti e pro­to­colli per stu­diare il fun­zio­na­mento dei testi. La pro­po­sta era più ambi­ziosa, non si limi­tava alla teo­ria della let­te­ra­tura, tal­volta si poneva come Kul­tur­kri­tik, come filo­so­fia: dal testo poe­tico al mondo (pen­sando a Lot­man).
Di quali ulte­riori var­chi, oltre alla cri­tica formale/strutturalista e al mar­xi­smo – che da tempo aveva pian­tato le ban­die­rine soprat­tutto negli studi a carat­tere storico-economico –, dispo­neva l’offensiva bar­thiana den­tro le facoltà di Let­tere anti­che, o quanto meno nelle teste più aperte e gio­vani? Anzi­ché for­nire atten­di­bili rico­stru­zioni, mi limi­terò ad accen­nare, hol­ding back the years, a qual­che scam­polo di per­so­nal cri­ti­cism: senza «ria­prire i libri», e scar­tando dai con­tri­buti più ovvi come il sag­gio su «Tacito e il barocco fune­reo» (che noi leg­ge­vamo quasi con­tem­po­ra­nea­mente all’Ammiano Mar­cel­lino di Auer­bach) o l’utilissimo libro-seminario sulla reto­rica antica, tra­dotto per tempo da Bom­piani. Ricordo però i mugu­gni di alcuni amici, allievi del vec­chio Cin­zio Vio­lante, quando li pro­vo­cavo a leg­gere «Il discorso della sto­ria», dove Bar­thes smon­tava molte illu­sioni sulla ‘verità’ del mestiere di sto­rico attra­verso lo stu­dio dell’enunciazione da Ero­doto a Miche­let, e uti­liz­zando con suc­cesso un dispo­si­tivo jakob­so­niano, lo «shif­ter» (il com­mu­ta­tore). Ma il cavallo col quale alla fine Troia fu presa è stato, almeno per noi, la lin­gui­stica post-saussuriana, in quanto essa costi­tuiva la prin­ci­pale arma­tura teo­rica sotto il cui riparo appren­de­vamo
– e sele­zio­na­vamo – i grandi filo­logi: Hjelm­slev, Ben­ve­ni­ste, la Scuola di Praga, Jakob­son. Il primo pro­ba­bil­mente fu Émile Ben­ve­ni­ste, la cui opera aveva agli occhi di Bar­thes un aspetto quasi «roman­ze­sco», e uno stile «ardente e discreto», come disse in un’intervista. Einaudi aveva tra­dotto il Voca­bo­la­rio delle isti­tu­zioni indoeu­ro­pee, il che ren­deva quel monu­mento un ‘por­ta­ble Clas­sic’ del quale disporre anche a casa pro­pria (gra­zie al conto rateale aperto dei geni­tori); nel Ben­ve­ni­ste della Lin­gui­stica gene­rale, invece, il gio­vane lati­ni­sta poteva dare una sor­pren­dente pro­fon­dità cul­tu­rale a tutto ciò che sino a quel momento si era pre­sen­tato come gram­ma­tica arida, che occor­reva sapere e basta: il «geni­tivo», la «frase nomi­nale», la «dia­tesi media» nel sistema ver­bale greco e latino.
Ma per allu­dere a uno dei titoli che pre­fe­ri­sco, l’indiscutibile ruolo con­tun­dente di Bar­thes si mani­fe­stava soprat­tutto nel met­tere alla prova – adot­tan­dolo – il suo stesso gergo cri­tico, così for­ma­li­stico e moderno, ‘indu­striale’: penso in par­ti­co­lare a eti­chette come «tra­sfor­ma­zione sti­li­stica», «denotazione/connotazione», «effetto di reale», tutte feli­ce­mente adat­ta­bili al baga­glio tec­nico di un clas­si­ci­sta (pur­ché alla fine si arri­vasse al risul­tato). Quei dispo­si­tivi meta­let­te­rari attin­ge­vano evi­den­te­mente allo stesso ser­ba­toio, allo stesso modello descrit­tivo dei lin­gui­sti, e così cir­co­la­vano nelle nostre eser­ci­ta­zioni. Come disse una volta Eco, Bar­thes ci faceva cre­dere di ripe­tere piat­ta­mente Saus­sure e Hjelm­slev, in realtà li ribal­tava, li tra­sfor­mava attra­verso le sue sot­tili stra­te­gie di scrit­tura.
Pren­diamo la «con­no­ta­zione», cioè il «senso secondo» di un testo o di un ter­mine: nozione risa­lente al grande Louis Hjelm­slev, che Bar­thes appunto poten­ziò mol­tis­simo, appli­can­dola per esem­pio nel deco­struire l’ideologia dei «miti d’oggi». Essa era entrata di diritto nel nostro abi­tuale voca­bo­la­rio cri­tico, accanto a for­mule più tra­di­zio­nali come «ekph­ra­sis», «indi­retto libero», «chia­smo», «clau­sola» ecc. Poi però stava a noi distin­guere, per esem­pio, la poli­se­mia poten­ziale con cui egli leg­geva Bal­zac (smi­nuz­zan­dolo nelle famose «les­sìe» semi­na­riali che gli ricor­da­vano il cielo rita­gliato ad arbi­trio dagli àuguri), dalla uni­vo­cità cano­nica di un testo antico: sem­pre da ricon­durre invece al sistema for­te­mente con­ven­zio­na­liz­zato che, di fatto, lo met­teva in con­di­zione di inte­ra­gire e di signi­fi­care (come sape­vano bene anche i let­tori coevi).
C’è, a que­sto pro­po­sito, un caso ese­ge­tico diver­tente, che per con­trap­passo potrebbe rias­su­mere in modo esem­plare tutta la peri­co­losa attrat­tiva con cui Bar­thes gal­va­niz­zava, e minac­ciava, i nostri vent’anni. Nel IV Libro dell’Eneide Didone insonne con­fessa alla sorella Anna di bru­ciare per Enea: «Che straor­di­na­rio ospite m’è venuto in palazzo, che por­ta­mento, che forza in cuore e nell’armi!» («…quam forti pec­tore et armis», così tra­du­ceva la Cal­zec­chi One­sti). Un vec­chio filone della cri­tica però, piut­to­sto duro a morire, intende armis come abla­tivo non di arma («le armi») ma di armi («le spalle»): il che dà tutta un’altra colo­ri­tura al ritratto amo­roso dell’eroe tro­iano («quanto forte nel petto e negli omeri!» anno­tava La Penna). Chi pro­pende per la prima let­tura, invece, valo­rizza soprat­tutto il corag­gio virile del guer­riero che è scam­pato all’incendio di Troia, cogliendo una con­no­ta­zione vir­gi­liana tipica, quasi un con­tras­se­gno di genere, una marca les­si­cale e sti­li­stica che all’orecchio esperto fa l’effetto di una for­mula ome­rica. Comun­que la si pensi (a me rie­sce dif­fi­cile cre­dere che una regina parli come una Bond-girl), il regi­stro epico antico, con le sue regole di con­no­ta­zione, non è certo in grado di sop­por­tare i «sensi plu­rimi» atti­vati dai poeti moderni, quelli che Roland Bar­thes sma­sche­rava con foga ele­gante in S/Z.

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