domenica 8 novembre 2015
Il centenario di Roland Barthes
Barthes, erotica del segno
Centenari. Libero perché neutro, lo spazio della letteratura è per Barthes luogo del desiderio, erotico, trasgressivo, anche quando la violenza del testo nega la delicatezza del tratto
Pierluigi Pellini Alias Manifesto 8.11.2015, 6:00
Se per soddisfare l’ansia di bilanci dettata dal rituale di ogni centenario – quello della nascita di Roland Barthes cade fra pochi giorni, il 12 novembre – si ricorresse all’evidenza spiccia del mercato librario italiano, la risposta risulterebbe inappellabile. Invecchiano bene i Miti d’oggi (del 1957), cronaca frammentaria, ma di insuperata lucidità e forza corrosiva, di quella modernizzazione postbellica da cui ancora discende il nostro presente.
Viva è anche la cosiddetta trilogia letteraria, composta dal bricolage autobiografico del Barthes di Roland Barthes (del 1975), dai Frammenti di un discorso amoroso (del 1977), e soprattutto dalla Camera chiara, il libro folgorante sulla fotografia – uno dei più belli del Novecento – uscito nel 1980, poche settimane prima della morte del suo autore, che a conclusione di un percorso intellettuale interamente votato allo studio dell’artificio semiotico, della codificazione, contaminazione e disseminazione dei linguaggi, fa i conti con «il risveglio dell’intrattabile realtà», esibendo il trauma immedicabile della perdita dell’essere amato (la scomparsa della madre Henriette). Per questo, come rifiuta ogni pertinenza esistenziale all’elaborazione del lutto teorizzata dalla psicoanalisi, Barthes nega paradossalmente all’immagine fotografica ogni statuto di ars, leggendola solo, con pietas struggente e vertiginoso paralogismo, come «un’emanazione del referente». Perché «la foto dell’essere scomparso viene a toccarmi come i raggi differiti di una stella», è «il passato e il reale insieme». Nell’anno stesso che segna, nelle semplificazioni storiografiche, con l’esaurimento delle avanguardie e dei movimenti di contestazione, il definitivo ritorno all’ordine (del romanzo tradizionale, e della Storia borghese), uno dei protagonisti della svolta linguistica e ermeneutica degli anni sessanta scrive un libro sull’opacità mortuaria del referente, la cui «certezza» impone di «sospendere l’interpretazione». Nella negazione, a suo modo lacaniana, della possibilità stessa di un metalinguaggio, si chiude un’epoca.
Così, oggi può apparire morto il Barthes critico letterario. Non sono più ristampati, in Italia, testi che fino a vent’anni fa erano presenza canonica in ogni bibliografia d’esame universitario: un testo-feticcio del formalismo strutturalista come Introduzione all’analisi strutturale dei racconti (del 1966) e il modello precoce di ogni ermeneutica post-strutturalista, S/Z (del 1970). Di quest’ultimo, labirintica lettura, o anzi riscrittura, della polisemia di un racconto di Balzac, Sarrasine, Michel Foucault ebbe a dire: «la prima vera analisi testuale che io abbia mai letto». Eppure oggi appare ai più illeggibile.
Il referto del mercato sembra confermare, come prevedibile, un tenace luogo comune: ci sono due Barthes, lo scrittore e il critico; e se la fortuna di quest’ultimo si è eclissata, al pari delle mode culturali e dei metodi che di volta in volta ha lanciato, adottato, o smantellato dall’interno, quella delle opere creative trova invece cauzione non esauribile in quel «piacere del testo» che dà il titolo al saggio del 1973, da molti considerato come lo spartiacque fra una prima e una seconda maniera. Per quanto grossolano, il dualismo potrebbe apparire in prima approssimazione esatto, se non fosse smentito dall’unitaria tensione, intellettuale e propriamente erotica, che dà forma e compattezza all’intero corpus di Bathes: quella tensione che mira a abolire ogni distinguo fra scrittura e lettura, testo e commento, teoria e pratica letteraria, opponendo all’estetica della purezza un’etica della contaminazione; e che sfocia in un’apologia del concetto cui è dedicato il seminario del 1978, il «neutro», inteso come strumento filosofico capace di sciogliere il legame fra segno e referente, svuotando categorie e antinomie (culturali, sociali, sessuali). Un’apologia tanto più significativa nel momento in cui, puer senex, l’attempato orfano contempla nella più derelitta disperazione la fotografia ritrovata della «madre-bambina», da cui prende l’abbrivio esistenziale la scrittura della Camera chiara.
Perciò è tutto Barthes a risultare ancora vivo, soprattutto nei suoi paradossi. Sempre incline, per curiosità intellettuale e slancio di desiderio, a accompagnare con la riflessione teorica le sperimentazioni delle avanguardie (dal nouveau roman a «Tel Quel»), e disposto a dar credito alle avventure intellettuali delle generazioni più giovani, Barthes ama in realtà i classici. È a suo agio nel grand siècle di Racine e dei moralistes e anche (forse soprattutto) nel secolo della vituperata narrativa realista, in quell’Ottocento di cui ha studiato una delle figure emblematiche nel giovanile Michelet (del 1954). Perfino quando riserbo, misura, distacco – i tratti umani che ne caratterizzano la personalità pubblica – si rovesciano in provocatoria iattanza; perfino quando la violenza dello scritto sembra negare la delicatezza del tratto, è sempre in difesa della letteratura che alza i toni: del tutto a torto è stata imputata a Barthes – come del resto a Derrida, cui lo accomunano l’elogio dell’écriture e l’idea di un continuo differimento del senso – qualche responsabilità nella dissoluzione del concetto stesso di letteratura consumatasi nel passaggio fra decostruzionismo e cultural studies.
In realtà, la denuncia famigerata, nella lezione inaugurale al Collège de France, della natura intrinsecamente dispotica della comunicazione linguistica (la lingua sarebbe senz’altro «fascista»: affermazione, va da sé, in buona logica autocontraddittoria) è certo omaggio all’amico e rivale Foucault: riprende infatti, con spettacolare rincaro, le sue analisi sul discorso del potere; ma solo per sottrarre, contro Foucault, la scrittura letteraria a ogni ipoteca della doxa dominante, facendone lo spazio del desiderio – spazio trasgressivo, erotico, libero, precisamente perché neutro. In questo senso, l’ipotesi restaurativa, con tanto di ritorno alla storia letteraria, formulata dal più intelligente e opportunista fra gli allievi di Barthes, Antoine Compagnon, non è solo apostasia, non segna solo la vittoria della vecchia Sorbona; è anche inveramento, parziale e distorto, di una possibile involuzione che la morte precoce ha inibito allo stesso autore del Piacere del testo.
Proprio gli ultimi libri, infatti, pur adottando con più esibita (e disinibita) libertà forme frammentarie e centrifughe, pur destrutturando il racconto, disseminando l’argomentazione, ostentando l’Io – non più proscritto – nella sua fragile, oscillante contingenza, ritrovano paradossalmente la lezione dei classici, soprattutto dei Pensieri di Pascal. Perciò l’opera di Barthes è forse, in tutto il secondo Novecento, la più cospicua fonte di scintillanti aforismi: mai esenti dal sospetto, tormentoso innanzitutto per l’autore, di alimentare con brillante facilità la presunta «impostura», di cui lo tacciava l’establishment conservatore; e invece capaci, sempre, di far nascere dall’aporia un pensiero che s’identifica con l’atto stesso della scrittura.
Una di queste frasi memorabili sembra attagliarsi al centenario: «La Storia è isterica: essa prende forma solo se la si guarda – e se la si guarda bisogna esserne esclusi». Per questo il contributo di gran lunga migliore, fra i molti usciti quest’anno, è il libro di una studiosa, Tiphaine Samoyault, esclusa per ragioni anagrafiche da ogni diretta discendenza, ma coinvolta in un’avventura intellettuale che sente vitale e inevitabile, per noi, nella difficile ricerca di conciliazione fra desiderio e verità. Il suo Roland Barthes (Éditions du Seuil, pp. 720, euro 28,00) è molto più di una biografia, anche se attinge copiosamente alla mole ancora cospicua dei diari e degli appunti inediti; è un libro che attraversa mezzo secolo di cultura non solo francese, alternando ricostruzione della vita, analisi delle opere, confronto con altri protagonisti della scena letteraria (Gide, Sartre, Sollers, Foucault). Senza condiscendenza apologetica, se è vero che non esita a stigmatizzare qualche indizio di sudditanza ideologica, sia pure riluttante, nei confronti del gruppo di «Tel Quel» (con relativa infastidita cecità durante il viaggio nella Cina maoista del 1974); senza compiacimenti scandalistici; senza ridurre, soprattutto, a tesi o fattizia coerenza il magma incandescente della vita e dell’opera.
Samoyault riesce insomma a sottrarsi alle secche delle due dominanti letture antitetiche, che fanno del personaggio forse più rappresentativo della cultura francese del secondo Novecento di volta in volta un terrorista delle lettere o un pontefice fumista. Letture entrambe inclini a dimenticare quanto scrive Barthes nel Piacere del testo: «Né la cultura né la sua distruzione sono erotiche; è la faglia fra l’una e l’altra che lo diventa».
La passione di Roland Barthes per l’oriente
Centenari. Per Barthes, il «suo» haiku, letteratura dello Zen, non ha l’aura dell’ineffabile: indica e designa, ma senza descrizioni e definizioni e senza inviti all’interpretazione
Paolo Fabbri Alias Manifesto 8.11.2015, 6:00
In Critica e Verità, Roland Barthes scriveva così di Kafka: «Cancellando la firma dello scrittore, la morte fonda la verità dell’opera, che è enigma». Nell’anniversario della sua scomparsa, anche la ricerca singolare di Barthes, sembra fatta per disorientare. Vista col cotanto (?) senno del poi, segna un percorso intrecciato da molte fila e annodato in più punti: da Brecht a Nietzsche, dalla mitologia alla retorica, da Sarte allo strutturalismo, da Michelet a Sade, da Racine a Fourier, fino a Mallarmé, Proust e Sollers. Per seguire almeno un filo del piccolo dedalo è bene orientarsi verso l’Oriente. È qui, in Giappone e poi in Cina, nella saggezza e nell’arte dello Zen e del Tao, che Barthes ha sperimentato una teoria del segno e del testo decisivi per il suo pensiero e la sua scrittura.
Il divenire-orientale di Barthes ha i suoi primi riferimenti in Brecht, in Ejzenstejn e nel Nietzsche di Bataille. Poi nei libri «buddhisti» di D. T. Suzuki, di Alan Watts, di Reginald Horace Blyth, e di altri che si trovano nella tabula gratulatoria dei Frammenti del discoro amoroso. Ma l’esperienza personale decisiva è il viaggio in Giappone, nel maggio-giugno 1966, di cui Barthes ha conservato una profonda nostalgia, il retrogusto della lingua e la pratica dell’ideogramma. Nulla di più semiotico del Giappone. Il viaggio di Barthes si è svolto con la guida intellettuale di Maurice Pinguet, a cui è dedicato il libro – l’autore di una straordinaria ricerca sulla Morte volontaria in Giappone (1984) e di un penetrante saggio su Barthes, Le texte Japon ( 2009). Pinguet ha intensamente vissuto l’opacità, il riserbo, la fusione tra etichetta ed emozione, il formalismo cerimoniale – che estenua il senso senza impoverirlo – caratteristici della la cultura nipponica e che interrogavano il suo modo occidentale di intendere la significazione e l’esperienza.
Nel 1967 e nel ‘68 (!) Barthes scrive L’impero dei segni, molteplicità frammentaria di piccoli poemi in prosa, che rinnova la letteratura di viaggio e a cui si ispirerà Jean Baudrillard nel suo libro sull’America del 1986. È l’anno fertile del ripensamento teorico e critico di S/Z, e delle grandi analisi di Sade, Fourier, Loyola. Testi innovativi rispetto al metodo strutturale e in cui emergono concetti esplicitamente riferiti alle discipline orientali, lo Zen e il Tao. L’esperienza del satori, i poemi haiku, le prose didattiche dei koan, la nozione passionale di weiwei – il non voler cogliere – che lo condurranno o sosterranno nel concetto del Neutro. Una formula già anticipata nella scrittura bianca del Grado Zero della Scrittura (1953), il suo primo libro, e che lo accompagnerà fino agli ultimi seminari di Semiologia Letteraria al Collège de France, alla fine prematura della sua ricerca. Non si tratta di concetti scelti per la loro alterità esotica, ma per l’efficacia euristica sull’impensato occidentale della significazione, sulla testualità e l’estesia (e l’estetica). Barthes cercava una via – un Tao? – contro il dogmatismo del senso pieno e quella, simmetrica, del senso nullo; una via che ritrova nello Zen e nelle avanguardie – nella pittura di Twombly, nella musica di Cage. Non intende rinunciare a una semantica e all’enunciazione verbale e visiva: il segno per lui non è orientato alla realtà, ma verso il significato. Cerca i dispositivi della scrittura – il Neutro, il «quasi», e così via – con cui revocare il senso ovvio della doxa, della direzione e funzione necessaria della comunicazione.
Nell’introduzione al suo ultimo seminario (1978–79), sulla preparazione del romanzo, Barthes esplora nella forma poetica dell’haiku – una terzina di poche sillabe (5–7-5) – il passaggio testuale da una notazione tempestiva, il kairos, e immediata, alla scena, poi al racconto. Per Barthes, il «suo» haiku, letteratura dello Zen, non ha l’aura dell’ineffabile: indica e designa, ma senza descrizioni e definizioni e senza inviti all’interpretazione. È il gesto atopico e ostensivo dell’Ecco! È così!: discreto, senza teatralità e isteria. Non è un pensiero ricco in forma breve, ma un pensiero breve nelle forme giuste che piacevano a Barthes. Come le figure linguistiche della sincope, dell’anacoluto, dell’asindeto e quelle semiotiche della gag, dei volantini, dei fotogrammi, degli intermezzi e dei graffiti. E dei «biografemi», dettagli di vita decentrati, frammenti annodati da rapporti non psicologici ma strutturali (Roland Barthes par Roland Barthes).
Soprattutto nell’analisi delle fotografie e dei fotogrammi Barthes ritrova l’immobilità viva che sarebbe il «noema» dell’haiku. Un «Tilt», una risonanza che non si può sviluppare né sognare, la quale può suscitare il Satori, passaggio di un vuoto che attraversa il soggetto; non l’illuminazione – il sacro è nullità! – ma un sisma lieve che fa vacillare la conoscenza e mutare l’affetto: l’amore, la pietà. Questa scossa punge il weiwei, il non-agire del Tao, che non è apatia, ma un’astinenza meditativa (il sazen), perché non è vero che «nulla va fatto», ma anche che «nulla non va fatto».
Contro l’intimidazione del luogo comune che naturalizza l’arbitrario del significato e l’isteria verbosa dell’impegno, Barthes ha rivendicato l’Assenso, una disponibilità senza preferenze, come accadde allo svogliato ritorno dal suo viaggio in Cina, nel 1974, in piena rivoluzione culturale. Era stato coinvolto, volente-nolente, da Maria Antonietta Maciocchi e dal gruppo di «Tel Quel», allora fervidi maoisti; nonostante gli avvertimenti – la visione del film di Antonioni e la rinuncia di Lacan.
Barthes ha lasciato, nel suo postumo Carnet di viaggio, pubblicato nel 2009, miopi giudizi sulla «pacifica» Cina. Un regime politico la cui comunicazione – tra violenza fisica e teatralità baroccheggiante – contrariava in tutto e per tutto la sua postura Zen. Il mitologo d’oggi è stato vittima del mito d’allora della Cina comunista? Non basta ricordare che i suoi pensieri più attenti erano rivolti al confronto tra i propri ideogrammi e quelli del Grande Timoniere. Eppure la sua osservazione che «la Cina è insapore» ha attivato la ricerca estetica di François Jullien, il filosofo sinologo, il quale ha mostrato quanto l’assenza di sapidità ¬ il vento e l’acqua ¬ caratterizzi quel Neutro che contiene virtualmente tutti i sapori, prima della loro scelta e parziale realizzazione (Elogio dell’insapore, 1991). Mi punge però, ancor oggi il breve testo sul «Brusio della lingua»: l’ascolto di un chiasso infantile nell’idioma cinese che Barthes non conosceva. Uno stormire plurale, una eterofonia di voci, una intensità di affetti. Barthes vi leggeva, pensate!, la fine del progetto «liberatorio» della sessualità, allora in voga, e l’utopia, mai abbandonata, di una società senza classi!
Celebri amicizie . Nel ritrarre l’autore della Mythologies, Sollers ne coglie la tensione politica e quella sorveglianza razionale che fa di lui un erede dell’illuminismo
Andrea Calzolari Alias Manifesto 8.11.2015, 6:00
Fitto com’è di riferimenti ai personaggi, agli ambienti editoriali, ai giornali e alle riviste che hanno animato la scena culturale francese, il libro, appena uscito, che Philippe Sollers ha dedicato a L’amitié de Roland Bathes (Seuil, pp. 170, euro 19,00) e che comprende anche un trentina di lettere e cartoline inedite dell’amico scomparso, è un libro molto parigino: propone un ritratto non solo e forse non tanto di Barthes, quanto di una lunga amicizia, o, per meglio dire, offre un ritratto di Barthes attraverso la lente del suo rapporto con Sollers. Ma, nonostante sia intriso di quello che lo stesso Barthes, in una delle missive, chiama il «veleno di Parigi», il volumetto ha il merito di sottolineare due aspetti della personalità e dell’opera di Barthes che oggi sembrano un po’ trascurati: la dimensione politica (quello che Sollers chiama il suo antifascismo) e la sorveglianza razionale, che fa di Berthes un erede della tradizione illuminista.
Per comprendere la profondità dell’antifascismo di Barthes, documentato fin da quando era giovanissimo (a diciannove anni, nel 1934, fondò insieme a compagni del Liceo Louis-le-Grand un gruppetto antifascista), basterebbe la sua famosa e discussa dichiarazione, secondo la quale «La lingua è fascista», «perché fascismo non è impedire di dire, è costringere a dire»; un’affermazione che riecheggia la concezione foucaultiana del potere e che soprattutto mostra quanto vaste, potenti e minacciose fossero ai suoi occhi le radici del fascismo. Né si può dimenticare con quanta serietà Barthes abbia letto e meditato Marx (c’è stato un momento, racconta il biografo, in cui loro due pensavano di essere gli unici in Francia, insieme a Althusser, a leggerlo). Del resto, nota ancora Sollers, fin dalle primissime opere (penso all’ancora oggi bellissimo Mythologies), Barthes vide che «la società mente» e studia «sistematicamente e molto concretamente il modo in cui la società si rappresenta», inscenando uno «spettacolo permanente di menzogne attraversato evidentemente dal denaro»; in questo senso, egli sarebbe stato il primo teorico della società dello spettacolo, anche se Debord non fa mai riferimento ai suoi testi.
La tensione politica, d’altra parte, non è mai disgiunta da quella lucidità d’analisi che gli derivava anche da Brecht: «Barthes è lo spirito dei lumi – scive Sollers –. È il più antioscurantista degli intellettuali o degli scrittori che ho potuto conoscere»: questo elogio può sembrare strano se si pensa a testi certo non facili come S/Z o i Frammenti, ma il fatto è che la chiarezza (la saphéneia o perspicuitas, una delle virtutes elocutionis dalla retorica classica) significa soltanto, notava per esempio Leopardi, la capacità di trasmettere al lettore quel che si pensa: se le idee che si intende comunicare sono difficili o complesse il testo non sarà affatto facile, ma non per questo sarà poco chiaro. Ora, la difficoltà nei testi del Barthes post-strutturalista deriva da qualcosa cui si riferisce egli stesso nella lettera (qui sotto tradotta) in cui elogia il testo di Sollers su Lautréamont dicendolo di una «chiarezza rischiarante» (clarté éclairante), non senza aggiungere che ci sono anche altri tipi di chiarezza (la chiarezza della lingua che costringe a dire, della lingua «fascista»): quel testo «è un testo, un tessuto in anastomosi completa con il tessuto di Lautréamont, che smuove infine la scrittura del commento (cioè che lo distrugge)».
Il Barthes post-strutturalista cerca appunto l’anastomosi elogiata nel saggio di Sollers, non si stanca cioè di metter(si) fuori (dal) gioco (del)l’opposizione linguaggio-metalinguaggio.
Lo testimonia un libro, uscito in traduzione la primavera scorsa, che non si raccomanderebbe mai abbastanza a chiunque si interessi di Barthes, il seminario del 1974–76 Il discorso amoroso (a cura di Augusto Ponzio, Mimesis, pp. 656, euo 28,00), in cui il tema viene ripetutamente proposto e indagato nella sua dimensione teorica, rimasta piuttosto implicita nel libro che scaturì dal seminario, i giustamente celebri Frammenti di un discorso amoroso: l’istanza metodologica che impone di distinguere tra linguaggio e metalinguaggio è fondamentale, ma proprio perché nessun linguaggio può sfuggire alla presa metalinguistica, non esiste nessun metalinguaggio che offra un ancoraggio sicuro.
In quegli anni, come si sa, la stessa esigenza teorica era proclamata, benché in modi diversissimi, anche da Lacan e da Derrida (Barthes parla talvolta di «decostruzione» del metalinguaggio), e tralasciando le caratteristiche che differenziano i tre studiosi, c’è almeno un aspetto del lavoro di Barthes che va messo in rilievo e che Porzio, non a caso il maggior studioso italiano di Bachtin, spiega, nell’introduzione al volume citato, ricorrendo alla categoria bachtiniana del discorso indiretto libero. Nel progressivo abbandono della distinzione tra il discorso interpretante e il discorso interpretato, «la parola riportata penetra nella parola riportante, la influenza, la contagia, retro-agendo su di essa, e dando luogo a un rapporto di interferenza massimo, fino al punto che non si può assolutamente parlare più di discorso e di meta-discorso».
In qualche modo, come è evidente, il rifiuto del metalinguaggio ha una valenza performativa (e non potrebbe essere diversamente) anche in Lacan e in Derrida, le cui scritture non sono affatto assimilabili agli stili tradizionali derivati dalla psicoanalisi o dalla filosofia.
Nel caso di Barthes, si direbbe, è più compiuto il trapasso dal critico-semiologo allo scrittore tout court, mentre la dimensione teorica sfuma e si stempera nel gusto, un po’ simile a quella «rage de nommer» che lo stesso Barthes rimprovera affettuosamente agli studiosi di retorica, per la brillante invenzione di nomi che mimano, forse un po’ parodiandola, la terminologia scientifico-filosofica; quel che non viene mai meno è però la chiara intelligenza che alimenta una delle più belle prose francesi degli ultimi cinquant’anni.
Barthes, allarmanti incursioni nel seminario classicista
Barthes tra gli antichisti. Ma Virgilio può essere polisemico come Balzac? Tra gli anni ’70 e ’80 il metodo di Barthes penetrava, seducente e geniale, nel sistema formativo e esegetico degli antichisti
Roberto Andreotti il Manifesto 8.11.2015, 1:35
Quando Barthes finì sotto il furgoncino, nel febbraio 1980, Einaudi stava distribuendo l’incandescente Barthes di Roland Barthes ma non era ancora disponibile in italiano, per esempio, L’impero dei segni (Skira 1970), né la Leçon inaugurale al Collège de France (’77) né, ma questo era ovvio, La chambre claire, ultimo libro licenziato dall’autore poche settimane prima. La popolarità di Barthes da noi era lievitata negli ultimi mesi soprattutto per via dei Frammenti di un discorso amoroso, titolo invitante che portava la semiologia su un terreno in apparenza meno esclusivo, conquistando lettori anche al di fuori dei consueti confini della critica letteraria. Barthes faceva tendenza: libri, giornali, riviste. Gli si poteva attribuire una iconografia, com’era accaduto a Brecht, a Sartre, a Pasolini, tant’è vero che dopo la sua morte gli «Struzzi» Einaudi lo mettevano direttamente sulle copertine. Il professore con il pullover girocollo e la sigaretta accesa, circondato dai ragazzi capelloni, era diventato la raffigurazione stessa del seminario strutturalista: un laboratorio giovanile totalizzante, dotato di una propria «lingua speciale» da adepti, dove le analisi testuali a un certo punto lasciavano filtrare i tentativi di fornire, mediante la letteratura, ‘rappresentazioni del mondo’. Questo, più o meno, è stato Roland Barthes per chi abbia frequentato una facoltà umanistica tra il ’75 e l’85, ma, va da sé, altro è averlo ‘incontrato’ frequentando i corsi del Dams a Bologna dove furoreggiava l’amico Umberto Eco; altro studiando, per esempio, la filologia greca e latina in uno dei temibili istituti che pure il Sessantotto aveva da poco «liberalizzato» (un’ode di Pindaro o la metrica di Orazio non si potevano semplificare). È da questo secondo, e secondario, punto d’osservazione che proverò a rievocare quale ruolo abbia giocato Barthes nella «ratio studiorum» di quella generazione.
All’università lo strutturalismo, con il suo ventaglio di posizioni e proposte dalla linguistica alle fiabe, egemonizzava la ricerca, perciò Barthes, anche se molti docenti consideravano con sospetto la sua «semiologia», in un modo o nell’altro entrava sempre nei discorsi. Se l’analisi strutturale si può applicare indifferentemente a una tragedia di Racine e a Robbe-Grillet, e persino a un fatto di cronaca, perché allora non anche a Ovidio e a Petronio? Basterebbe ricordare il sempre citato piacere del testo. Nessuno si sarebbe sognato di inscrivere un’istanza del genere, di matrice lacaniana, nel corredo critico di un lettore di letteratura antica, ma il fatto stesso che circolasse un libretto che portava quel titolo (e il quadrato rosso) finiva per riguardare anche i classicisti. Così, senza rientrare nel programma d’esame, Barthes lavorava ai fianchi, e faceva sistema con la bibliografia consigliata. Il suo metodo soggettivante – quasi agostiniano per gli effetti di interiorizzazione che suscitava – non si adattava facilmente alla filologia dei ‘nostri’ autori; tuttavia era una pistola carica puntata contro la resistenza storicista, nella disputa per la ridefinizione della letteratura come sistema regolato da leggi proprie e da una pratica ‘intertestuale’.
Occorre però spiegare meglio la particolare posizione di noi studenti ‘classicisti’ – per esempio rispetto ai colleghi delle facoltà moderne – in quanto discendenti da una scuola ermeneutica che si vantava di essere autosufficiente e di impiegare un metodo ‘scientifico’ teoricamente fondato. Per quanto ormai svuotata di ogni pretesa filosofica, questa solida tradizione teneva ancora, arginando fra l’altro la deriva algebrica (o mistica) in cui finivano certi strutturalisti. Del resto la filologia classica, sin dai fasti alessandrini, ha avuto come sua missione l’esegesi, cioè la spiegazione e il commento dei testi: una bussola che segna sempre il Nord, anche quando si ritrova in territori critici inesplorati. E forse non tutti ricordano che Barthes si era laureato alla Sorbona proprio in Lettere classiche, si era specializzato in tragedia greca, e a partire dal ’39, prima di ricadere nella tubercolosi, aveva insegnato nei licei (ma questo allora non lo sapevamo).
Barthes critico ci appariva perciò anti-manualistico e a-sistematico (nonostante un celebre seminario sulle riviste di Moda). Il ‘ritorno del represso’ alleato, in sede d’analisi letteraria, con lo smascheramento delle ‘ideologie delle forme’? C’era qualcosa che suonasse di più straniante, per chi veniva addestrato – sia pure senza le esagerazioni dei maestri tedeschi – alla gloriosa Quellenforschung che infilzava confronti e «loci similes» negli apparati in corpo minore dei classici? Eppure questi metodi antagonisti attecchivano simultaneamente, su piani magari complementari. Quel che ci seduceva dei semiologi e degli strutturalisti, o quanto meno di quelli come Roland Barthes, era scoprire che non ci offrivano solo lucidi apriscatole (non sempre taglienti, per la verità), cioè strumenti e protocolli per studiare il funzionamento dei testi. La proposta era più ambiziosa, non si limitava alla teoria della letteratura, talvolta si poneva come Kulturkritik, come filosofia: dal testo poetico al mondo (pensando a Lotman).
Di quali ulteriori varchi, oltre alla critica formale/strutturalista e al marxismo – che da tempo aveva piantato le bandierine soprattutto negli studi a carattere storico-economico –, disponeva l’offensiva barthiana dentro le facoltà di Lettere antiche, o quanto meno nelle teste più aperte e giovani? Anziché fornire attendibili ricostruzioni, mi limiterò ad accennare, holding back the years, a qualche scampolo di personal criticism: senza «riaprire i libri», e scartando dai contributi più ovvi come il saggio su «Tacito e il barocco funereo» (che noi leggevamo quasi contemporaneamente all’Ammiano Marcellino di Auerbach) o l’utilissimo libro-seminario sulla retorica antica, tradotto per tempo da Bompiani. Ricordo però i mugugni di alcuni amici, allievi del vecchio Cinzio Violante, quando li provocavo a leggere «Il discorso della storia», dove Barthes smontava molte illusioni sulla ‘verità’ del mestiere di storico attraverso lo studio dell’enunciazione da Erodoto a Michelet, e utilizzando con successo un dispositivo jakobsoniano, lo «shifter» (il commutatore). Ma il cavallo col quale alla fine Troia fu presa è stato, almeno per noi, la linguistica post-saussuriana, in quanto essa costituiva la principale armatura teorica sotto il cui riparo apprendevamo
– e selezionavamo – i grandi filologi: Hjelmslev, Benveniste, la Scuola di Praga, Jakobson. Il primo probabilmente fu Émile Benveniste, la cui opera aveva agli occhi di Barthes un aspetto quasi «romanzesco», e uno stile «ardente e discreto», come disse in un’intervista. Einaudi aveva tradotto il Vocabolario delle istituzioni indoeuropee, il che rendeva quel monumento un ‘portable Classic’ del quale disporre anche a casa propria (grazie al conto rateale aperto dei genitori); nel Benveniste della Linguistica generale, invece, il giovane latinista poteva dare una sorprendente profondità culturale a tutto ciò che sino a quel momento si era presentato come grammatica arida, che occorreva sapere e basta: il «genitivo», la «frase nominale», la «diatesi media» nel sistema verbale greco e latino.
Ma per alludere a uno dei titoli che preferisco, l’indiscutibile ruolo contundente di Barthes si manifestava soprattutto nel mettere alla prova – adottandolo – il suo stesso gergo critico, così formalistico e moderno, ‘industriale’: penso in particolare a etichette come «trasformazione stilistica», «denotazione/connotazione», «effetto di reale», tutte felicemente adattabili al bagaglio tecnico di un classicista (purché alla fine si arrivasse al risultato). Quei dispositivi metaletterari attingevano evidentemente allo stesso serbatoio, allo stesso modello descrittivo dei linguisti, e così circolavano nelle nostre esercitazioni. Come disse una volta Eco, Barthes ci faceva credere di ripetere piattamente Saussure e Hjelmslev, in realtà li ribaltava, li trasformava attraverso le sue sottili strategie di scrittura.
Prendiamo la «connotazione», cioè il «senso secondo» di un testo o di un termine: nozione risalente al grande Louis Hjelmslev, che Barthes appunto potenziò moltissimo, applicandola per esempio nel decostruire l’ideologia dei «miti d’oggi». Essa era entrata di diritto nel nostro abituale vocabolario critico, accanto a formule più tradizionali come «ekphrasis», «indiretto libero», «chiasmo», «clausola» ecc. Poi però stava a noi distinguere, per esempio, la polisemia potenziale con cui egli leggeva Balzac (sminuzzandolo nelle famose «lessìe» seminariali che gli ricordavano il cielo ritagliato ad arbitrio dagli àuguri), dalla univocità canonica di un testo antico: sempre da ricondurre invece al sistema fortemente convenzionalizzato che, di fatto, lo metteva in condizione di interagire e di significare (come sapevano bene anche i lettori coevi).
C’è, a questo proposito, un caso esegetico divertente, che per contrappasso potrebbe riassumere in modo esemplare tutta la pericolosa attrattiva con cui Barthes galvanizzava, e minacciava, i nostri vent’anni. Nel IV Libro dell’Eneide Didone insonne confessa alla sorella Anna di bruciare per Enea: «Che straordinario ospite m’è venuto in palazzo, che portamento, che forza in cuore e nell’armi!» («…quam forti pectore et armis», così traduceva la Calzecchi Onesti). Un vecchio filone della critica però, piuttosto duro a morire, intende armis come ablativo non di arma («le armi») ma di armi («le spalle»): il che dà tutta un’altra coloritura al ritratto amoroso dell’eroe troiano («quanto forte nel petto e negli omeri!» annotava La Penna). Chi propende per la prima lettura, invece, valorizza soprattutto il coraggio virile del guerriero che è scampato all’incendio di Troia, cogliendo una connotazione virgiliana tipica, quasi un contrassegno di genere, una marca lessicale e stilistica che all’orecchio esperto fa l’effetto di una formula omerica. Comunque la si pensi (a me riesce difficile credere che una regina parli come una Bond-girl), il registro epico antico, con le sue regole di connotazione, non è certo in grado di sopportare i «sensi plurimi» attivati dai poeti moderni, quelli che Roland Barthes smascherava con foga elegante in S/Z.
Iscriviti a:
Commenti sul post (Atom)
Nessun commento:
Posta un commento