di Danilo Taino Corriere 22.11.15
No, professor Piketty, la disuguaglianza non può diventare la spiegazione del mondo. Non del terrorismo di Parigi. Fare risalire tutto alle disuguaglianze — naturalmente create da noi occidentali — porta a uno strabismo mortale. Fa credere che Daesh e simili combattano, seppur con armi orribili, contro un’ingiustizia e per migliorare le condizioni dei popoli musulmani. In realtà, combattono le biblioteche e i cinema della sua e nostra Parigi, l’Opera, i ristoranti della città, il Louvre, la Sorbonne, le canzoni di Edith Piaff, lo Chablis, Voltaire e l’immensa folla dei grandi francesi, e occidentali; per mantenere i popoli musulmani nella povertà e nell’ignoranza, non per lasciarli crescere e istruire. I numeri, le statistiche (cibo del professor Thomas Piketty) sono importanti per cercare di capire il mondo. Usati però per sostenere una posizione ideologica — la colpa dell’Occidente — confondono, fanno perdere l’orientamento nella risposta da dare al terrorismo. In un articolo su Le Monde , il professore sostiene, tra le altre cose, che la zona che va dall’Egitto all’Iran, via Siria, Iraq e Penisola Araba è «la regione più diseguale del pianeta»: tra il 60 e il 70% del Pil della regione fa capo alle monarchie del petrolio, che hanno il 10% della popolazione. Monarchie colpevolmente sostenute dall’Occidente.
Che l’Occidente abbia fatto errori gravi, nel Novecento, è sicuro. Ma sostenere che la povertà di grandi masse del Medio Oriente (in realtà la regione a più bassa crescita del pianeta) dipenda da America e Francia e non dalla mancanza di istituzioni del diritto e della democrazia, dall’assenza di mercati liberi, dalla disastrosa condizione femminile, dalla repressione religiosa e politica è un passo troppo lungo e poco giudizioso da fare. Più veritiero sarebbe ammettere che Parigi è il risultato glorioso dell’Occidente, un modello anche per i musulmani, non il tiranno del Medio Oriente.
di Giovanni Orsina La Stampa 22.11.15
La parola chiave è «controllo». I terroristi cercano di dimostrare a noi occidentali che la nostra superbia è vuota. Che possono rubarci il controllo sulle nostre vite sottomettendoci alle loro regole. E la nostra debolezza di occidentali consiste nella consapevolezza - magari non esplicita, ma quanto presente! - che il controllo sulle nostre vite lo abbiamo già perduto anche a prescindere dal terrorismo. Meglio: che quel controllo in realtà non lo abbiamo mai avuto, o comunque non nella misura iperbolica in cui ci era stato promesso. In maniera più o meno consapevole, così, in noi si insinua il dubbio che stiamo difendendo un’isola che non c’è. E le nostre difese vacillano.
La si può definire autodeterminazione, o se si preferisce sovranità su se stessi. Comunque la si chiami, è la più ambiziosa promessa della modernità occidentale: il diritto degli esseri umani di decidere del proprio destino senza essere subordinati ad alcunché di esterno e superiore. La parola è fuori moda, ma in questo caso la si deve usare: senza essere subordinati a Dio. Per molti decenni abbiamo cercato di far fronte alla «morte di Dio» per via politica, cercando nelle filosofie della storia e nelle utopie collettive quell’ancoraggio «assoluto» che la secolarizzazione aveva distrutto.
Poi, grosso modo fra gli Anni Sessanta e gli Ottanta del secolo scorso, il pensiero critico che aveva corroso le religioni trascendenti ha finito di corrodere anche quelle politiche e immanenti. E l’individuo, coi suoi diritti, è rimasto solo.
A quel punto, però, è toccato all’autodeterminazione individuale essere assolutizzata: se Dio è morto e il comunismo pure, se il paradiso non mi aspetta né in questo mondo né nell’altro, allora non potrò tollerare che la promessa che mi è stata fatta di essere sovrano su me stesso non sia realizzata appieno. Sennonché, è una promessa che non può essere mantenuta: se la vogliamo mettere sul filosofico, a motivo dell’imperfezione ineliminabile dell’umanità; in termini storici, invece, perché il mondo che ha preso forma negli ultimi cinquant’anni è diventato un meccanismo a tal punto complesso che nessuno riesce più a controllarlo, e tutti, chi più chi meno, gli sono inevitabilmente subordinati (sto liberamente seguendo qui la lezione dello storico francese Marcel Gauchet).
Il terrorismo islamico attacca due volte la promessa occidentale di autodeterminazione assoluta, da fuori e da dentro. Da fuori ne denuncia la natura utopica. Cari occidentali, ci dicono i terroristi, vi riportiamo sotto il controllo di quel Dio al quale pensavate di essere sfuggiti, e lo facciamo dandovi la dimostrazione somma del vostro essere umanamente limitati: con la morte. La vostra morte; quella dei prigionieri sgozzati in mondovisione; ma anche la nostra di martiri, che vi diamo l’esempio di una radicale sottomissione volontaria. Da dentro, il terrorismo denuncia il fallimento del progetto occidentale. Continuiamo a dare una lettura sociologica dei terroristi nati e cresciuti in Europa, guardando alle periferie degli spostati. Ma non tutti i terroristi sono dei perdenti: non lo era, ad esempio, Jihadi John; non lo era Hasna Aitboulahcen, che è morta mercoledì scorso a Saint-Denis. Forse vale la pena affiancare una spiegazione filosofica a quella sociologica, allora: poveri o ricchi, emarginati o integrati, costoro hanno chiaramente ritenuto insufficiente la risposta occidentale alla loro domanda di senso e identità. Se l’utopia dell’assoluta sovranità su se stessi è fallita, paiono dirci, allora tanto vale tornar sottomessi a Dio. E farlo nella maniera più clamorosa possibile: uccidendo e morendo.
A ogni episodio della sfida terrorista l’Occidente risponde producendo delle ondate di retorica sempre più potenti e - in tutta franchezza - sempre più intollerabilmente stucchevoli. In quest’ultima settimana abbiamo toccato delle vette forse (speriamo) irripetibili: il pianista che suona John Lennon in mezzo alla strada; il musulmano bendato che si fa abbracciare a Place de la République; il compianto per il cane morto nel blitz a Saint-Denis. La retorica, però, ha tutta l’aria di nascondere il vuoto: la cattiva coscienza, la sensazione di fallimento, e - più ancora che l’incapacità, perché la capacità invece ci sarebbe eccome - la sostanziale non-volontà di difendersi. Continuiamo a ripetere che i terroristi non cambieranno il nostro modo di essere, ma le nostre parole hanno il suono falso e atterrito di uno scongiuro.
Se tutto quel che ho scritto finora ha un senso, forse la nostra reazione dovrebbe essere l’esatto contrario di quel mantra: la presa d’atto che dobbiamo almeno in parte cambiare il nostro modo di essere - che, se vogliamo salvarci, dobbiamo rinunciare a qualcosa. Sul piano pratico sta già accadendo: nei prossimi mesi, inevitabilmente, alcuni nostri diritti saranno compressi, perderemo in privacy e libertà di movimento. Forse, prima o poi, qualcuno di noi occidentali dovrà andare (o meglio: tornare) a combattere e morire in Medio Oriente. Ma il terreno più difficile è quello teorico: dovremmo capire che l’assoluta sovranità su se stessi è una promessa che non può essere mantenuta, e che continuare a farla è autolesionistico; dovremmo accettare i macroscopici, inevitabili difetti del modello di vita occidentale, smettendo di sentirci in colpa per le sue imperfezioni, e pensando al contempo che quel modello resta malgrado tutto il migliore che sia emerso finora (eh sì!), perché garantisce una sovranità su se stessi comunque molto maggiore dei modelli alternativi; dovremmo riconoscere che la nostra libertà non si regge sul vuoto ma su alcuni - pochi - valori che è pericolosissimo mettere in discussione, e che bisogna essere disposti a difendere.
Ne saremo capaci? Se non lo saremo, che Dio ci aiuti.
di Danilo Taino Corriere 22.11.15
L’attacco di Daesh e dei terroristi alle idee di libertà e democrazia è violento. Ma è il caso di tenere i nervi saldi: i valori occidentali sono forti. Non allo stesso modo ovunque, ma forti in tutto il mondo. Una ricerca condotta da Pew Research Center in 38 Paesi dei cinque continenti ha stabilito che, in media, il 56% della popolazione ritiene che sia «molto importante» il diritto di espressione senza censura; il 55% pensa che lo sia anche il diritto di cronaca; il 50% vuole un Internet libero. Il 74% considera «molto importante» la libertà di religione, il 65% stabilire gli stessi diritti tra uomini e donne, il 61% l’esistenza di un sistema politico fondato su elezioni periodiche con almeno due partiti. Le percentuali crescono, sempre sopra all’ 80% e fino al 94% nel caso della libertà di religione, se a chi ritiene questi valori «molto importanti» si somma chi li considera «in qualche modo importanti».
In assoluto, la quota più alta di massimo riconoscimento di queste conquiste di libertà e democrazia la si incontra negli Stati Uniti: per esempio, 91% sulla parità dei diritti tra uomo e donna (l’Italia è all’ 82% ) e 84% sulla libertà di culto ( 75% in Italia). La situazione è meno brillante nei Paesi del Medio Oriente considerati (i più aperti) ma non drammatica: il 57 % dei turchi è per la libera scelta in fatto di religione, la stessa quota dei giordani, ma la percentuale sale a 73 nei Territori palestinesi, a 75 in Israele e 86 in Libano. Anche in fatto di diritti di genere, il Libano ( 75% ) e Israele ( 69% ) sono sopra la media globale ( 65% ): Palestina, Turchia e Giordania sono invece tra il 40 e il 50% . Ovunque, i cittadini più istruiti e con un reddito maggiore riconoscono l’importanza della libertà dei media più dei meno istruiti e più poveri (con un record della Germania dove, tra chi ha studiato di più, l’ 82% ritiene molto importante il diritto di cronaca, contro il 60% di chi ha studiato meno). Due elementi che sottolineano l’importanza dell’educazione e della crescita economica nell’affermazione globale delle libertà e della democrazia.
Con questi numeri, Daesh e simili non possono sperare di farcela. Come non possono cambiare una città con 376 sale cinematografiche (in Arabia Saudita ce n’è una), 134 musei, 143 teatri, 69 librerie pubbliche, più di 300 tra monumenti, chiese, statue, edifici, fontane illuminate ogni notte. E che per di più si chiama Parigi.
“Per riformare l’Islam bisogna partire da quello europeo”di Paolo Mastrolilli La Stampa 22.11.15
Rafforzare i controlli alle frontiere europee, partendo dall’adozione di una legge per l’immigrazione legale; dare ai giovani musulmani nati e cresciuti nel continente abbastanza ragioni per preferire la vita alla morte; ma soprattutto riformare l’islam, cominciando proprio a casa nostra. È la strategia in tre punti che il professore di Democrazia e diritti umani al Bard College Ian Buruma suggerisce all’Europa, oltre alle necessarie misure immediate di sicurezza, per affrontare nel lungo periodo l’emergenza del terrorismo.
Rafforzare i controlli sugli ingressi nel continente, attraverso una legge sull’immigrazione: perché?
«Al momento l’Europa non ha un canale per l’accesso legale delle persone che vogliono venire per motivi economici. Questo le costringe a mentire, fingendo di essere rifugiati politici, e ciò compromette l’intero sistema. A causa del calo demografico, avremmo bisogno degli immigrati, soprattutto quelli istruiti in fuga dalla Siria. Dobbiamo però creare un sistema che consenta a loro di venire, e a noi di selezionare gli accessi, in modo poi da poter controllare meglio le frontiere esterne del continente».
Dare ai giovani musulmani nati e cresciuti in Europa abbastanza ragioni per preferire la vita alla morte. Cosa vuol dire?
«Questa ondata di violenze è cominciata con le proteste nelle periferie di Parigi, che non avevano nulla a che vedere con l’islam. Quello era il risentimento di persone non integrate, che faticavano a trovare lavoro e condizioni decenti di vita. L’islam radicale poi è diventato lo sfogo di questa rabbia, quando non sono arrivate risposte. Abdelhamid Abaaoud, invece, era un giovane integrato che aveva frequentato una buona scuola. Qualcosa è accaduto poi nella sua vita, che ne ha fatto un terrorista. Queste persone sono nate e cresciute nel continente, sono cittadini dei nostri Paesi, e non ha senso parlare di espulsioni o altri provvedimenti simili. Bisogna invece integrarle meglio, aiutarle a trovare lavoro cambiando le modalità del mercato, in modo da renderle meno vulnerabili alla propaganda dell’islam radicale».
Ma è colpa del nostro sistema, che li emargina, o dell’islam radicale, che li spinge alla violenza?
«Entrambi gli elementi sono importanti, si muovono appaiati. Proprio per questo, però, è necessario diminuire le motivazioni che espongono questi giovani alla retorica jihadista, facendo preferire loro la morte in un’azione terroristica alla vita».
E sull’altro elemento, cioè il fondamentalismo, come possiamo intervenire?
«Non c’è dubbio che questa emergenza, al di là delle misure contingenti per difenderci nell’immediato o fermare la guerra in Siria, si risolverà solo con la riforma dell’islam. Però non possiamo aspettare che essa avvenga nei Paesi arabi e musulmani».
Quindi lei cosa propone?
«Quello che ha già suggerito lo studioso francese Oliver Roy, e cioè la “europeizzazione” dell’islam. La riforma, in altre parole, dobbiamo cominciarla noi sul nostro continente».
E come?
«Partendo dalle moschee dove si professa la fede, e si costruiscono i cittadini. Il punto non è chiuderle, ma farle gestire da imam nati e cresciuti in Europa, invece di prenderli dalla Siria o l’Arabia. Persone che condividono genuinamente i nostri valori, e li trasmettono ai fedeli, pur restando liberi di praticare la loro religione come credono».
“Se i musulmani sono anti-occidentali è pure colpa nostra” Jean-Philippe Platteau: “Grande civiltà rovinata dalle élite corrotte”intervista di Giordano Stabile La Stampa 22.11.15
L’Islam non è condannato all’arretratezza e a una battaglia di retroguardia contro la modernità. Non più di altre grandi culture o civiltà, almeno. Ma se non viene aiutato dall’Occidente rischia di ritrovarsi ostaggio delle sue correnti più conservatrici. È la tesi di Jean-Philippe Platteau, professore emerito all’Università di Namur e uno dei massimi esperti mondiali dell’impatto delle istituzioni sociali e politiche sullo sviluppo, a Torino per la tredicesima Lezione Luca d’Agliano in economia dello sviluppo.
Professor Platteau, perché Occidente e Islam si scontrano molto di più che, per esempio, Occidente e induismo?
«Prima dobbiamo chiederci che cosa intendiamo per modernità. La globalizzazione, o occidentalizzazione, ha come cardini materialismo, individualismo, ateismo. Nel mondo islamico le masse sono ancora in gran parte analfabete, tradizionaliste e conservatrici. E questo favorisce le correnti reazionarie dell’islam che resistono alla mondializzazione. Ma in realtà si trovano le stessi correnti nell’induismo e nel buddismo, penso alla Birmania. Ci sono state grandi civiltà islamiche aperte e tolleranti. Ancora all’inizio del Novecento in Egitto c’era una legislazione modellata su quella di Francia, Svizzera, anche nel diritto civile».
E poi che cosa è andato storto?
«Ci sono ragioni interne ed esterne. La principale è forse la particolarità del clero. Nell’islam sunnita non esiste una gerarchia. Quindi chiunque può autoproclamarsi imam, predicare, avere la sua moschea. Se prendiamo l’Egitto, abbiamo un clero ufficiale, quello dell’università Al Ahzar per intenderci, vicino a un potere oppressivo e corrotto (quasi sempre amico dell’Occidente), un clero espressione delle famiglie più ricche e in vista, e corrotto a sua volta. È chiaro che questi religiosi hanno poca presa sulle masse. Ed ecco che i predicatori radicali invece hanno molto seguito e soffiano sul malcontento. E non c’è modo, nella tradizione islamica sunnita, di «scomunicarli». Lo stesso rapporto esiste anche fra la monarchia saudita e i suoi ulema. In fondo Osama bin Laden era un «dissidente» politico. La sua evoluzione a terrorista anti-occidentale nasce dallo scontro con il potere saudita».
E come nasce?
«Bisogna ripercorre la storia dei movimenti islamisti. Tutti i Paesi avevano come obiettivo l’abbattimento delle dittature, compresa quella degli Al Bashar in Siria. La decisione di Bin Laden di attaccare l’Occidente nasce invece dalla pretesa di Bush senior, dopo la prima guerra del Golfo, di impiantare basi Usa in Arabia Saudita. Il re pressato, acconsente. Gli ulema non si oppongono. Per Bin Laden è un affronto ai luoghi sacri e una violazione della sovranità nazionale. Da lì in poi la priorità diventa la lotta all’Occidente».
La percezione negativa dell’Occidente è però diffusa in tutto il mondo islamico. Che errori abbiamo fatto?
«La radice comune di tutti i movimenti islamisti è la resistenza al colonialismo. E questo vale per l’Algeria, l’Egitto, l’Iraq, un’invenzione degli inglesi che imposero un re straniero alla popolazione locale. E vale anche per il Caucaso russo. Ma c’è un’altra ragione fortissima. La questione palestinese. Che vale in tutto il mondo arabo e noi sottovalutiamo. Anche in Egitto viene vissuta come una ferita. La stessa pace con Israele è vista come una pace mutilata, perché presupponeva la risoluzione della questione palestinese. Che non è mai arrivata, per responsabilità soprattutto degli Usa. Ciò è visto come un tradimento, un’altra umiliazione. La vittimizzazione tipica del mondo islamico fa il resto. E il rigetto dell’Occidente è sempre più forte».
Come sta cambiando il senso della frontieradi Armando Torno Il Sole 22.11.15
Una parola si aggira per l’Occidente, a volte come un fantasma, altre volte trasformandosi in certezza. È il confine, o frontiera che dir si voglia. Dopo i tragici fatti di Parigi in molti ne chiedono il controllo ferreo, come un tempo. Anche se oggi affermare che essi continuano a garantire la loro funzione storica (sacra è da evitare, per pudore, dopo la prima guerra mondiale) diventa quasi impossibile. Ci accorgiamo che i confini cambiano significato a seconda di chi ne parla.
Le migrazioni, le necessità continue e costanti di scambi, viaggi, confronti stanno muovendo sempre più obiezioni ai valori che sembravano protetti da tale parola, ai vincoli che pone, alle garanzie che offre. Forse ci troviamo – o stiamo giungendo - nella condizione descritta da Henry David Thoreau in Una settimana sui fiumi Concord e Merrimack: “Le frontiere non sono a est o a ovest, a nord o a sud, ma dovunque un uomo fronteggia un fatto”.
Queste considerazioni nascono da riflessioni sul confine che si stanno moltiplicando in numerosi ambiti. Il terrorismo fa scoppiare anche i significati fin ora assunti dal termine, tanto che non manca qualcuno che crede alla necessità di un suo restauro semantico. E mentre si cercano di proteggere nuovamente i confini degli Stati, la cultura li ha smarriti. In questi giorni, per fare uno dei possibili esempi, a Roma, ai Mercati di Traiano, sono in corso degli incontri (sino al 26 novembre) su “Lo sguardo oltre il confine. Un viaggio tra le immagini”. È un invito ad andare oltre i significati culturali offerti da arte e architettura; o meglio, si pone in evidenza la necessità di varcare i confini a cui sovente ci siamo aggrappati grazie a figure e geometrie compiacenti.
Inoltre sul secondo numero di Scenari, un quadrimestrale di approfondimenti culturali pubblicato dall’editrice Mimesis, ove sono raccolte molteplici voci di pensiero, un saggio di Edoardo Greblo dal significativo titolo Confini in movimento, pone il problema politico. Tra l’altro in esso si legge: “Il mondo globalizzato tende a mettere radicalmente in discussione i presupposti spaziali che hanno dominato la politica moderna e che hanno alimentato un regime geopolitico volto a delimitare le singole sovranità le une dalle altre e a distinguerle grazie a confini rigidi e stabili”. Per tale motivo “l’ideale dell’autosufficienza territoriale è infatti in evidente contraddizione con la crescente interdipendenza dei popoli del pianeta e con le migrazioni transnazionali, con i flussi materiali di persone in fuga da paesi flagellati…”. Anche se gli Stati mostrano “scarsi segni di cedimento”, e torna la tendenza a erigere muri protettivi, l’idea stessa di confine ha subìto una sorta di trauma. La nazione cara al Risorgimento sognata da Alessandro Manzoni in Marzo 1821, “Una d'arme, di lingua, d’altare,/ Di memorie, di sangue e di cor”, non c’è più, ammesso che sia mai esistita. Vittorio Sereni ha lasciato nell’omonima raccolta un’idea esistenziale di Frontiera. È tutto quello che ci resta.
L’ambito geopolitico non è che un esempio. I confini, per dirla in breve, ci proteggono da taluni problemi dandocene in cambio altri; non sono un impedimento ai terrorismi di oggi, che ormai nascono in casa utilizzando idee che non rispettano le frontiere. La scienza moderna, da parte sua, ha violato quei limiti in cui taluni dogmatici desideravano dovesse muoversi, compresi i confini di vita e morte; il pudore, che per Giovannino Guareschi ci distingueva dalla specie animale, non ha più le dogane giuridiche che diedero vita a non pochi processi nell’Italia del miracolo economico. Chi potrebbe ancora parlare di “comune senso del pudore”? Soltanto uno storico. Per questi e per innumerevoli altri motivi anche i “confini sacri” di una nazione (evitiamo “patria” per le difficoltà che oggi sta attraversando questo antico concetto) non li sentiamo più come tali. Quanti in Italia sarebbero pronti ad andare in guerra per difenderli? Meglio non rischiare di conoscerne la percentuale. È più facile trovare volontari per altre missioni.
Forse vale la pena ricordare che il confine ha più un valore fiscale e psicologico che non patriottico, così come taluni principi difesi dai sindacati assomigliano a quei valori che i moralisti del buon tempo antico ritenevano indiscutibili. Difendono anch’esso dei confini. Con un tocco di spirito romantico. E lo fanno in un momento in cui le frontiere sono diventate la realtà più flessibile (e discussa) del Vecchio Continente.
«Islamofascismo? Il nodo è la Siria E i Paesi sunniti» L’Isis è diventato per molti giovani una missione. E una patria da salvare «I terroristi sono quasi sempre ragazzi nati e cresciuti in Occidente»intervista di Massimo Gaggi Corriere 22.11.15
NEW YORK «L’Europa paga un errore tragico: per anni si è occupata solo della Grecia, che era un problema minore. Atene non sarebbe stata una minaccia alla costruzione europea nemmeno se fosse uscita dalla moneta unica. La Ue, invece, ha ignorato per anni la guerra civile siriana senza capire che proprio da lì poteva partire un attacco capace di mettere in pericolo la sua stessa sopravvivenza come istituzione politica». Profondo conoscitore del Medio Oriente e dei problemi del mondo islamico, Vali Nasr, rettore della Scuola di studi politici internazionali della John Hopkins University d Washington, un accademico americano di origine iraniana, avverte da anni che da Damasco possono partire terremoti capaci di scuotere mezzo mondo.
Non pensa che si siano messi in moto meccanismi che vanno oltre la capacità di mobilitazione di una singola organizzazione terroristica? Ci sono le numerose centrali del terrore africane e molte cellule europee sembrano seguire percorsi autonomi ispirati a eruzioni di quello che alcuni chiamano islamofascismo.
«Non c’è dubbio che sono fenomeni complessi, con molti scenari in movimento. C’è l’Africa, ci sono i terroristi europei pronti a farsi esplodere. C’è chi vede tutto in chiave religiosa, chi teme i rifugiati, chi nega che povertà ed emarginazione sociale abbiano avuto un peso, visto che ci sono anche terroristi cresciuti nella Scandinavia ricca e tollerante. Ci sarà anche una corrente di neofascismo islamico, non lo nego. Ma se andiamo a cercare spiegazioni per tutti i rivoli rischiamo di perdere il quadro d’insieme. Che, a mio avviso, è chiaro: il nodo centrale è la Siria. Se non ci fosse stata la guerra civile siriana, oggi l’Isis non esisterebbe».
Quindi secondo lei gli ordini partono tutti da Raqqa.
«Le strategie sicuramente vengono da lì, mentre per le decisioni e la capacità organizzativa cellule come quelle di Parigi e quella belga di Molenbeek sicuramente possono anche muoversi in autonomia. Ma il fatto che esista un’organizzazione terrorista con una sua base territoriale è cosa di enorme importanza. Sul piano operativo e anche su quello psicologico. Un ribelle reclutato dall’Isis, magari un criminale comune, all’improvviso si sente investito di una missione: ha non solo un’ideologia estremista, ma anche una patria da difendere».
Bombardare le roccaforti del Califfato e cercare di porre fine alla guerra civile contro il regime di Assad, quindi, è più importante della neutralizzazione di tutte le cellule europee...
«La crisi dura da anni, la situazione si è incancrenita nel disinteresse generale. Ora il quadro è talmente grave che non ci possono più essere soluzioni semplici. Servono varie cose, tutte difficili. Intanto porre fine alla guerra civile dando sostanza alle intese raggiunte di recente a Vienna: finché ci sono mille fazioni che si combattono tra loro è impossibile attaccare in modo adeguato e battere lo Stato Islamico. Ma, anche se arrivasse il cessate il fuoco, sarebbe solo un primo passo. Bisogna poi esercitare una pressione fortissima sui Paesi arabi sunniti per obbligarli a smettere — governi e singoli cittadini — di foraggiare o tollerare l’Isis, anch’esso sunnita. Non è più accettabile il doppio gioco di Paesi come l’Arabia Saudita che fa parte della coalizione contro l’Isis, ma, in realtà, si impegna in armi solo contro i ribelli sciiti in Yemen: la minaccia dello Stato Islamico è di gran lunga la più grave anche per loro. L’Europa poi, deve imparare a essere più inclusiva, a non ghettizzare i musulmani, a non abbandonare i giovani alla disoccupazione. Ci sono anche terroristi benestanti, è vero, ma povertà e disagio sociale sono alleati potenti per i reclutatori del califfato».
La sensazione è che il Medio Oriente sia sempre più frammentato e non solo per lo scontro sciiti-sunniti e la deflagrazione del mondo sunnita: milioni di profughi stanno destabilizzando altri Paesi importanti come Giordania, Libano e, soprattutto, l’Egitto, impoverito anche dal crollo del turismo, oltre che dei prezzi petroliferi.
«Sì, ma tutto nasce sempre dalla guerra civile a Damasco. L’onda dei migranti come la diffusione di combattenti sempre più feroci. Oggi siamo tutti attoniti davanti al fenomeno dei foreign fighters che rischiano di tornare dalla Siria a seminare il terrore in Occidente, ma dovremmo ricordarci che già anni fa scoprimmo che gli estremisti più violenti in Algeria ed Egitto erano arrivati dall’Afghanistan».
Negli Usa, che pure di profughi siriani ne hanno accettati pochissimi, siamo alla fobia dei repubblicani con proposte di discriminazione su base religiosa e schedature.
«Sbagliato farsi prendere dalla paura per l’immigrato. Quanto avvenuto fin qui in Europa ci dice che i terroristi sono quasi sempre ragazzi nati e cresciuti in Occidente. Musulmani francesi di seconda o terza generazione, gente che spesso non parla l’arabo. Salvo una o due eccezioni, tra i rifugiati non sono venuti fuori estremisti pericolosi: è gente in fuga dalla guerra che cerca lavoro e di rifarsi una vita. Sbagliato e pericoloso criminalizzarli».
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