venerdì 13 novembre 2015
La prospettiva moderna dalla geografia all'arte figurativa
di Franco Farinelli Corriere 12.11.15
Per Mark Rothko, alla metà del secolo scorso, il problema era
«ricondurre lo spettatore dentro l’immagine» dipinta, il diavolo nella
bottiglia. Ma quando ne era uscito?
La questione riguarda la storia dell’arte, certo, ma la risposta è
letteralmente geografica. Senza la riscoperta della Geografia di
Tolomeo, avvenuta a Firenze nei primissimi anni del Quattrocento, non vi
sarebbe stata l’invenzione della prospettiva lineare moderna, che Erwin
Panofsky chiamava «artificiale» per distinguerla da quella naturale
degli antichi. E senza la prospettiva fiorentina non vi sarebbe stata
l’intera modernità.
Non vi sarebbe stato lo spazio inteso come riduzione della faccia della
Terra a complesso di parti l’un l’altra interscambiabili, primo «regno
dell’equivalenza generale», come più tardi Marx dirà del mercato. Non vi
sarebbe stato lo Stato, macchina spaziale che oggi mostra la sua
ruggine.
Prima ancora, non vi sarebbe stata appunto la distanza tra spettatore e
immagine da cui lo spazio trae origine, quel divario tra i terminali del
processo cognitivo cui a metà del Seicento Cartesio darà veste canonica
ma che nasce in forma esemplare e allo stesso tempo concretissima sotto
il portico dell’Ospedale degli Innocenti, concepito da Brunelleschi
qualche mese dopo la traduzione latina del testo tolemaico: il testo
che, anche se finora quasi nessuno se ne è accorto, è proprio il libro
che «facea tutta la guerra», il volume che nell’Orlando Furioso il mago
Atlante tiene in mano per incantare il reale, sicché quest’ultimo «al
falso più che al ver si rassomiglia».
La prospettiva moderna, la tecnica di ricondurre a misura l’intervallo
spalancato tra il soggetto e l’oggetto, è insomma nient’altro che la
traduzione orizzontale del verticale dispositivo geometrico che
nell’opera di Tolomeo serve a trasformare la sfera terrestre in una
mappa, dunque a sottrarre una dimensione al mondo: marchingegno che i
traduttori moderni chiameranno proiezione, termine che deriva
dall’alchimia e che segnala la precisa consapevolezza di avere a che
fare con la più grande metamorfosi che si possa immaginare.
Nasceva in tal modo lo spazio della modernità, un ordine visivo generale
in grado di informare nel corso del tempo non soltanto il pensiero
plastico di tutto il pianeta ma, come codice dell’organizzazione
territoriale, di soppiantare ovunque la vecchia logica dei luoghi. E in
funzione di tale ricostituita genealogia, per cui il discorso artistico
diventa un’estensione ed un’articolazione di quello geografico, molti
problemi acquistano una veste inedita, e una nuova formulazione.
Un solo esempio: il celebre dibattito sul primato delle arti, la disputa
se la suprema forma d’espressione fosse la pittura o la scultura, che
tra Cinque e Seicento coinvolse in Italia i massimi artisti e fior di
teorici. A rileggere oggi i loro scritti appare evidente come i
partigiani della pittura fossero tolemaici fino in fondo, perché
difensori dell’unicità del punto di vista e di conseguenza
dell’immobilità del soggetto: condizione essenziale per la riuscita del
trucco prospettico come faceva notare Pavel Florenskij, stupito di come
lo spettatore sembrasse paralizzato, quasi fosse stato avvelenato col
curaro.
Rivendicando al contrario la pluralità dei punti di vista, Benvenuto
Cellini e i pochissimi altri sostenitori del primato della scultura
sulla pittura implicavano un registro della figurazione assolutamente
opposto, non soltanto perché fondato sulla mobilità del soggetto, ma
anche per una ragione inscritta ancor più nel profondo della cultura
occidentale.
Nella geometria classica noi chiamiamo definizioni ciò che per Euclide
sono veri e propri limiti, qualcosa cioè che il ragionamento non può
oltrepassare, e cui egli dà letteralmente il nome di «montagne». Come
dire che sotto tal profilo Cellini e compagni risultano non soltanto
anti-tolemaici ma prima ancora anti-euclidei, sostenendo non soltanto la
molteplicità delle visuali ma anche la necessità del loro raccordo:
dunque un «sistema figurativo» (avrebbe detto Pierre Francastel)
assolutamente anti-spaziale, riflesso non della pianura (di cui la
superficie sulla quale si tracciano le linee è per Euclide e Tolomeo
evidentemente la copia) ma della pratica dell’ambito montano, in cui a
ogni passo la veduta può cambiare, e il soggetto deve continuamente
connetterla alle precedenti. Nel segno dunque di un’altra possibile
geografia, anch’essa sconfitta dalla storia.
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