martedì 24 novembre 2015

L'Invisibile Ovunque e la Prima guerra mondiale: il nuovo romanzo di Wu Ming

Wu Ming: L'Invisibile Ovunque, Einaudi

Risvolto
Il libro dell’Altrove di Wu Ming, oltre l’arco ventennale che va da Q a L’Armata dei Sonnambuli.
«Non gli servono pensieri lucidi, adesso. Non gli serve una mente sveglia. Inciampa, gli mancano le forze. Fuori i barbari! Fuori i barbari! Cade per terra con la faccia nella polvere. Rimane giú, senza uno sforzo per rialzarsi. Italia! Italia! Chiude gli occhi e trattiene il respiro».
L’invisibile ovunque racconta quattro vite nella Grande guerra, saltando dal fronte italiano a quello francese e ritorno. Chi vive in queste pagine sa che «niente uccide un uomo come l’obbligo di rappresentare una nazione» (Jacques Vaché) e adotta strategie per evadere dall’orrore. Qualcuno sceglie la sfida all’istituzione psichiatrica, accettando il rischio che la follia simulata diventi reale. Qualcuno si arruola negli Arditi, scansando la vita di trincea, al prezzo di divenire un uomo-arma, pugnale con braccia e gambe che un potere futuro potrà usare a suo piacimento. Qualcuno cerca di nascondersi nelle pieghe della guerra, praticando l’umorismo e il paradosso, fantasticando piani grandiosi per assaltare il mondo che ha vomitato un tale abominio. Qualcuno coltiva l’utopia di un’invisibilità che renda impossibile agli uomini combattersi.


L’invisibile ovunque
 Wu Ming wumingfoundation


Movimenti di un mimetismo socialmente necessario 
L'Invisibile Ovunque. Sullo sfondo della prima guerra mondiale, quattro movimenti. «L’Invisibile ovunque» dello scrittore collettivo Wu Ming per Einaudi 

Simone Pieranni il Manifesto 24.11.2015

In ogni libro si possono trovare le impronte che l’autore lascia in alcuni punti strategici della sua opera; oggetti e parole, dialoghi e allusioni, comprensibili a vari livelli, traiettorie, interpretazioni. Alcune di queste tracce sono proprie dell’autore, si perdono nella totalità dell’opera e in mezzo ai riferimenti che il lettore sarà capace di creare partendo dalla sua esperienza di lettura.
André Breton, ad esempio, per dare un indizio su chi fosse nella realtà Nadja, arrivò a usare Trotzky per indicare attraverso il nome maschile quello della donna che aveva ispirato la protagonista. 
Il collettivo di scrittori Wu Ming nell’ultima opera L’Invisibile ovunque (Einaudi, pp. 216, 17,50 euro) fanno esattamente questo: su un’impalcatura che miscela stili, vicende e personaggi connessi alla prima guerra mondiale cospargono il testo di citazioni, allusioni e riferimenti letterari di ogni genere. Ne esce un libro di difficile classificazione, con molteplici chiavi di lettura. Alcuni di questi richiami sono voluti nella loro immediatezza, altri sono più oscuri nel procedere, finendo per «mischiare» questi elementi quasi a costituire un metodo di scrittura, spingendo i quattro «movimenti» distinti che compongono il libro verso una direzione, mantenendo tuttavia un certo grado di connessione tra le storie, attraverso rinvii tra le diverse vicende raccontate.
Non è il «dunque» ma il «come», come scrive Breton quando spiega il surrealismo. 
E il «come» dipende necessariamente dal «cosa»: sullo sfondo delle quattro storie, frammenti di un’unica grande Storia, c’è la prima guerra mondiale celebrata in modo eroico e retorico da tutta la stampa nostrana. Ne L’Invisibile Ovunque (dedicato al giornalista italiano recentemente scomparso Luca Rastello) gli autori di Q, Manituana e L’Armata dei sonnambuli decidono di «non celebrarla», sottolineando l’ipocrita delinquenza del conflitto e celebrando — invece — le diverse volontà di sottrazione dall’ottusa e drammatica carneficina, quasi fino a farla «scomparire».
Nel volume non si fanno sconti a tattiche suicide, all’ipocrisia dei generali e di una nazione che poi millanterà eroismi di ogni specie. «La demotivazione montava, l’assurdità della strategia e della tattica messe in atto dallo Stato maggiore era ormai consapevolezza comune. La sensazione che andava prendendo piede tra la truppa era che si stesse morendo per niente. Per tutta risposta il generalissimo Cadorna aveva inasprito le misure contro i «codardi». 
E ancora: «Quella che l’Italia vendette agli storici militari come “la Battaglia di Vittorio Veneto” fu più che altro l’inseguimento di un nemico in ritirata, spossato e sbandato, quando non addirittura già ammutinato». Nel primo episodio del libro i Wu Ming decidono di sistemarsi all’interno di una narrazione classica, rapida e incisiva, nel solco dei racconti di guerra, per descrivere l’arruolamento di un giovane italiano tra le fila degli Arditi (e si sottolinea un lessico che sarà poi ripreso e fagocitato durante il fascismo, perché tutto parte da lì, dalla prima guerra mondiale). 
Nel secondo episodio gli autori si concentrano sulla follia. È un gioco riuscito che indaga quell’equilibrio sottile tra pazzia per evitare la guerra e la pazzia di chi ci crede e di chi la fa. In questo secondo movimento, la scrittura prende distanza dai canoni del romanzo tradizionale, mischiando piani e tempi narrativi, con inserti metaforici, lettere e «letteratura» costituita da rapporti psichiatrici. 
Il terzo movimento continua questa sbandata, «un controcanto al Nadja di Breton», come l’hanno definito gli autori sul loro sito, condotta con surrealismo e riferimenti e rimandi continui tra storia e arte. I Wu Ming, presentando il libro, hanno evocato richiami a Roberto Bolaño. Una presenza che si intravede nella capacità di «mischiare» le storie, concentrandosi su alcune di esse, per lasciarle poi cadere a indicare la frammentarietà delle vicende. Ma c’è soprattutto il richiamo alla novità letteraria che è stata Bolaño, come scrive su Nazione Indiana Helena Janeczek: «Nella composizione del buco nero, l’istanza del romanzesco deve fallire, la realtà continuare a superare la fantasia del verosimile: la realtà di un male irriducibile perché concreto, anzi reificato». 
Infine ne L’Invisibile Ovunque arriva il quarto movimento, saggio in forma romanzata che conclude il libro e svela le diverse chiavi di lettura per il volume. È il capitolo che si oppone alle «brillanti cronache» che i media mainstream tentano di fare passare, sviluppando un ragionamento sul mimetismo – anche culturale – che ci si augura venga ampiamente ripreso. Come rendersi invisibili, ma allo stesso tempo in grado di modificare la realtà che ci si presenta? 
È il cruccio di una stramba divisione dell’esercito francese, poi trapiantata in Italia. «In fondo – si legge — stava proponendo ai militari di non scommettere più sullo slancio eroico, sulla gloriosa morte in battaglia, sul mostrarsi impavidi in faccia al nemico. Mimetizzarsi non è come nascondersi?» Mimetizzarsi non significa però nascondersi, e non costituisce neanche l’aspetto più importante, chiedersi se equivalga a negarsi o meno. 
L’aspetto importante sembra proprio il «come», per fare cosa, per dire cosa. Nel caso del racconto dei Wu Ming, il mimetismo militare avrebbe dovuto proteggere i soldati, anziché i tank, le macchine. Ma gli ideatori scoprono ben presto che «non era la carne da cannone che si doveva risparmiare, ma il cannone». Ed eccoci alla possibilità del mimetismo, per non farsi «beccare» ma soprattutto per cambiare gli esiti di una battaglia, anche culturale.


“Noi Wu Ming diciamo addio alla Storia” 
Il collettivo di autori si congeda dal genere con “L’invisibile ovunque” sulla Grande guerra
MICHELE SMARGIASSI Repubblica 27 11 2015
BOLOGNA In un chiostro del mistico labirinto delle sette chiese di Santo Stefano, la nebbia di novembre inumidisce l’anagrafe di marmo del grande macello di un secolo fa. Assieme ai Wu Ming, i quattro autori “senza nome” del collettivo di scrittura bolognese che vent’anni fa rivoluzionò il romanzo storico in Italia, passeggiamo in laica meditazione fra le lapidi ai caduti della Prima guerra mondiale. Ossia l’epoca in cui si svolgono i quattro racconti di “L’invisibile ovunque” (Einaudi). Il libro che per loro, Wu Ming, segna l’evasione dalla loro stessa storia, verso terreni nuovi della narrazione.
Neppure voi avete resistito alla tentazione del centenario, quindi?
«Le librerie sono piene di rievocazioni, in montagna si imbellettano i cam–
minamenti e si lucidano i fili spinati per i pacchetti turistici, ma l’occasione l’hanno colta in pochi. L’occasione di riflettere su quanto quella guerra abbia condizionato pesantemente il nostro presente. Si è preferito un anniversario di retorica della conciliazione. La cultura italiana è tornata indietro anche rispetto all’antiretorica pacifista di Uomini contro, si è recuperato perfino l’interventismo democratico. Una volta prestato l’omaggio rituale al cliché della “inutile strage”, si è archiviata la grande guerra come una sorta di catastrofe naturale, deprecabile, inevitabile. Si è come ricucito chirurgicamente un trauma storico e politico. Ma il filo è marcito sulle ferite...».
È un libro-verità, il vostro, allora?
«No. Non è “il grande romanzo dei Wu Ming sulla guerra”, qualcuno forse si aspettava le ottocento pagine epiche, forse è il libro più sottile che abbiamo mai scritto (ma solo in apparenza, perché è denso come un file zippato…). Per noi il modo di chiudere quel percorso ventennale attraverso il romanzo storico che iniziò nel ‘95 con Q e che è finito con L’armata dei sonnambuli ».
Un genere che avete reinventato, il neoromanzo storico italiano, che ha avuto fortuna ed epigoni: rinnegate tutto?
«Niente affatto, né possiamo giurare che non ci torneremo mai. Ma dopo averlo esplorato, deformato, forzato, abbiamo piegato le sbarre della finestra e ce ne siamo andati. Questo libro è un po’ la mappa della nostra evasione da un genere che almeno a noi ha dato tutto ciò che poteva dare».
Verso quale destinazione?
«Qui ci sono quattro racconti, che sono poi quattro spostamenti progressivi della forma narrativa. Il primo è nello stile del romanzo storico classico: un individuo alle prese con la grande storia, un racconto immaginario ispirato a racconti familiari e storie orali. Il secondo è una sorta di docufiction che fonde in una storia virtuale vicende reali tratte da diari e memorie di persone reali. Il terzo è un anti-romanzo di taglio surrealista, del resto il suo protagonista è André Breton. Il quarto è quello che gli anglosassoni hanno chiamato mockumentary, e funziona al contrario del secondo: vicende largamente immaginarie vengono proposte nello stile del saggio storico. Nell’insieme, è un po’ come offrire ai lettori la tastiera più vasta delle cose che ci piace scrivere ora».
Anche la tecnica di scrittura è cambiata?
«Anche quella ha preso una forma più individuale. Per la prima volta, anche se il progetto è stato deciso in comune, anziché editare assieme il testo, ciascuno di noi quattro ha scritto un racconto che è stato semplicemente riletto dagli altri».
Perché la prima guerra mondiale? Si prestava bene all’esperimento?
«Non è in realtà neppure un libro sulla grande guerra: la attraversa, in qualche modo la evade. È precisamente un libro sull’evasione. Per quello che racconta, e per come lo fa».
Cosa intendete per evasione?
«Una strategia umana molecolare di fuga dall’orrore, una forma di resistenza individuale alla stretta del potere, di cui la guerra è solo l’espressione più evidente. Da un punto di vista puramente narrativo, sono quattro storie di uomini che eludono la paura della guerra in modi diversi».
La storia quasi-vera della “brigata camaleonte” è una delle più avvincenti del libro. Ma alla luce della cronaca recente, è anche inquietante. I guerrieri mimetizzati nell’ambiente, che sbucano dal nulla, non sono in fondo i commando stragisti del Daesh nascosti nelle nostre città?
“La tuta mimetica nacque per salvare la vita, non per aggredirla meglio. Per rendere il corpo del soldato invisibile al nemico, per proteggerlo. Poi il suo scopo è cambiato, è diventato il mascheramento del cecchino che colpisce senza essere visto. Ma nella teoria della mimetizzazione è rimasta la traccia di una domanda ancora aperta: può esistere un modo per nascondersi completamente agli occhi della guerra? Farsi questa domanda è già un atto di resistenza, anche ai terrori di oggi».
Quelle raccontate nel libro sono fughe individuali. Un po’ sorprendente da parte vostra: affezionati al romanzo corale come scrittori, sostenitori dell’azione collettiva nel vostro impegno politico...
«Qualcuno magari si aspettava da noi il racconto di una diserzione di massa, di una brigata intera che si ribella contro i comandi militari, cose che peraltro non ci furono... Magari le avremmo inventate se fossimo, come qualcuno continua a pensare, scrittori di manuali di istruzioni sovversive in forma di romanzi. Certo, la coralità dei nostri romanzi precedenti era voluta, programmatica, ma non era ideologicamente obbligatoria. Continuiamo a credere che senza l’organizzazione e l’azione comune non si va da nessuna parte, ma non sempre è possibile salvarsi collettivamente, ci sono momenti in cui sei da solo, e sono quei momenti che abbiamo sentito il bisogno di esplorare».
Un elogio della fuga, del si salvi chi può, del ciascuno per sé?
«Intendiamoci, l’evasione non è una diserzione. Disertare è abbandonare una causa comune che potrebbe anche avere un senso. Evadere è sottrarsi con uno scarto geniale al vicolo cieco, per ricostruirsi altrove. George Jackson, uno dei fratelli di Soledad, dice: prima fuggo, poi cerco un’arma. La diserzione è istinto di sopravvivenza, l’evasione è offensiva. Ma non c’è intento morale o pedagogico nelle intenzioni del libro. Il nostro impegno, quando scriviamo, è prima di tutto liberare la narrazione. Questa volta il nostro punto di partenza era: come si possa mentire alla guerra, per
detournarne la logica, per fregarla, per ingannarla. L’esito narrativo dell’individualità non era in programma, è esploso da solo nelle narrazioni, ha stupito un po’ anche noi ma l’abbiamo accettato. È vero però che nessuna delle quattro storie di evasione individuale è vincente, tutte finiscono in tragedia o fallimento. Ma ci sono storie per quando lotti con gli altri, e storie per il momento in cui vacilli da solo sull’orlo di un dirupo. L’invisibile ovunque l’abbiamo scritto per momenti come questo».

Nessun commento: