domenica 29 novembre 2015

Napoli nella Belle Époque

Napoli, Belle ÉpoqueFrancesco Barbagallo: Napoli, Belle Époque, Laterza, Roma-Bari, pagg. 196, € 18,00

Risvolto

L’immagine predominante di Napoli, tra il 1860 e il 1915, è quella di ex-capitale di un grande regno, ‘città regia’ in decadenza incapace di trasformarsi in ‘città borghese’, metropoli tra le più popolose d’Europa, il cui fascino è compromesso dalle miserabili condizioni di vita della gran parte dei suoi abitanti. Ma Napoli, fino alla grande guerra, non è solo questo: è anche una metropoli europea moderna, una città dall’elevato livello culturale dove si realizzano esperienze di rilievo sul piano professionale, sul terreno commerciale, nel conflitto sociale tra industriali, per lo più stranieri o settentrionali, e operai organizzati sindacalmente. La Belle Époquenapoletana non è solo fatta di luminosi café chantant ma di iniziative economiche e progetti politici e delle prime originali forme della cultura di massa. Le classi dirigenti hanno, per lo più, una loro dignità e si preoccupano degli interessi pubblici. Questa fase di grande fervore e di grande vitalità si interromperà con lo scoppio della prima guerra mondiale. La guerra, infatti, si sarebbe rivelata un pessimo affare per la città e per tutto il Mezzogiorno, sempre più sfavoriti dalla spesa pubblica rivolta al Nord. Fino al 1915 Napoli è ancora una capitale europea. Dopo non lo sarà più.


Il fermento che anima Napoli

Valerio Castronovo Domenicale 29 11 2015

Una metropoli unica in Europa, con il suo mezzo milione di abitanti, ma ripiegata su se stessa, con un’aristocrazia che rimpiangeva i Borboni e un notabilato clerico-moderato avvilito per la perdita del ruolo di capitale di un grande regno, Napoli fu colpita, a metà degli anni Ottanta dell’Ottocento, da un’epidemia di colera che mietè migliaia di vittime e aggravò ulteriormente le squallide condizioni dei quartieri popolari. 
Un ammasso di “bassi” fatiscenti e di luridi fondaci, in stridente contrasto con la tradizionale immagine oleografica della città partenopea con le sue belle ville degradanti da Posillipo a Marechiaro e altri siti ameni. Ma in seguito a questa drammatica sciagura, che portò il Parlamento a varare una legge speciale per il risanamento del capoluogo campano, l’amministrazione civica diede corso a un’opera di radicale ristrutturazione urbana. E ciò servì a creare un clima di fiducia e a inaugurare anche un’importante iniziativa, destinata a dar lustro alla città, come la costruzione di due linee metropolitane e suburbane, le prime a quel tempo in Italia.
È vero che erano le compagnie straniere a primeggiare nella gestione dei servizi pubblici (francese e svizzera per il gas, inglese per l’acquedotto del Serino, belghe nel comparto tranviario e nelle ferrovie secondario); e così pure nelle principali imprese industriali (quelle francesi e inglesi nel settore meccanico, e quelle svizzere e tedesche nel cotonificio). Tuttavia, stavano spuntando figure di rilievo negli ambienti commerciali e professionali, alcune delle quali avrebbero assecondato, al volgere dell’Ottocento, ambiziosi progetti di sviluppo economico e di rilancio dello scalo portuale. Dopo questi primi venti di brezza, il decollo industriale, avvenuto nel successivo quindicennio, in seguito ai provvedimenti sostenuti con successo da Nitti in sede governativa, diradò l’aria stantia e polverosa che, all’ombra dei vecchi interessi agrari e immobiliari, aveva dominato sino ad allora. È quanto emerge dallo scenario di Napoli nel primo cinquantennio dopo l’Unità, ricostruito efficacemente da Francesco Barbagallo tanto negli aspetti politici ed economico-sociali che in quelli culturali e di costume.
Sebbene Napoli sia rimasta esposta all’invadenza della camorra, si riuscì quantomeno ad allentarne la morsa. E, se non mancarono episodi clamorosi di corruzione, oltre ai soliti giri di “mazzette” negli anfratti dell’amministrazione pubblica, i migliori esponenti della classe dirigente s’impegnarono per affrancare la città da certe pesanti ipoteche di incuria e misoneismo.
Sopravvisse tuttavia un complesso sterile e fuorviante di vittimismo piagnone a autoassolutorio: anche perché ad alimentarlo fu quella sorta di “mattatore” che era Edoardo Scarfoglio, direttore dal 1892 del «Mattino» e campione del «più becero rivendicazionismo sudista» (per dirla con Barbagallo). Irruento polemista, abile con la penna a duellare di sciabola o fioretto, a seconda delle cause che abbracciava (anche le più ambigue), fervente colonialista ma pronto a pronunciarsi, all’occorrenza, a favore di Giolitti (benché fosse lontanissimo da un indirizzo liberal-riformista), Scarfoglio s’avvalse del patrocinio di Carducci (eletto a suo maestro) e della collaborazione di D’Annunzio (di cui condivideva l’estetismo), nonché del sodalizio pur burrascoso con Matilde Serao, sua consorte e coofondatrice del giornale (narratrice copiosissima e accreditata nei principali salotti per le sue cronache mondane), per esercitare una larga influenza sugli abiti mentali correnti e sull’opinione comune.
Ma intanto in una Napoli, ravvivata nei suoi tratti esteriori dallo stile liberty e floreale, stavano fiorendo alcune esperienze, a livello europeo, sia in campo letterario e artistico che in quelli del teatro e della musica. E spiccava nella vita pubblica e culturale una grande personalità intellettuale come Benedetto Croce.


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