venerdì 27 novembre 2015

Non ci sarà pace nel mondo finché ci sarà fame nel mondo. No, l'appello no


Un viaggio mozzafiato nel Continente chiave del mondo 

Bergoglio. Il papa lo ha detto in modo chiaro: «Il terrorismo si alimenta di paura e povertà». In Asia, Africa e America latina dove vive il 90% dei poveri della Terra, la Tv e la Rete diffondono le immagini del ricco Occidente. I miserabili ora sanno e non illudiamoci: senza una società più giusta e dignitosa, ci travolgeranno

Franco Cardini Manifesto 27.11.2015

«Più che le persone, mi fanno paura le zanzare»; «Io voglio andare. Se non mi ci portate voi, datemi un paracadute». Sono solo un paio di battute, colte “al volo” – è il caso di dirlo – sull’aereo che il 25 scorso portava papa Francesco a Nairobi, capitale del Kenya e prima tappa del viaggio di cinque giorni che lo sta vedendo impegnato nel continente dalle risorse del suolo e del sottosuolo più ricche al mondo e dalle popolazioni più miserabili della terra. Come tale gigantesco, incrollabile, insostenibile paradosso sia possibile, e come tutti lo accettiamo senza fiatare, è forse la spina avvelenata che sta contagiando il mondo: che lo sta portando verso una catena di guerre, di violenze e di disastri sia ecologici sia sociali che potrebbe anche rivelarsi di proporzioni mai viste.
Perché dev’esser chiaro che questa è la posta in gioco. E che, tra i grandi leaders mondiali, questo gesuita italoargentino che al suo paese qualcuno accusa di essere «un gaucho peronista irresponsabile» è l’unico ad affrontarla direttamente e a chiamare le cose con il loro nome: come ha fatto nell’enciclica Laudato si’. I rischi sono molti ed evidenti: per lui, per chi gli sta vicino, per le folle che accorrono a salutarlo. Lui lo sa bene. 
E sa bene che, quando il pericolo è relativo e non incombe, lo si può anche evitare; ma quando è lì, ci è addosso, minaccia di sopraffarci, allora non c’è nulla da fare: va affrontato a muso duro. E lui, dietro certi suoi disarmanti sorrisi, la grinta del duro ce l’ha eccome.
In un raid mozzafiato, rifiutando papamobili corazzate e giubbotti antiproiettile, questo ciclone quasi ottantenne sta visitando un bel pezzo di Africa centroccidentale: il Kenya dove i cattolici sono quasi 9 milioni, l’Uganda dove superano i 14, la Repubblica Centroafricana dove sono invece piuttosto pochi mentre forti sono le comunità cristiano-evangeliche e musulmana, che lui visiterà tra domenica e lunedì. 
Senza per nulla minimizzare le tappe a Nairobi in Kenia e a Kampala in Uganda, è proprio a Bangui, capitale della Repubblica Centroafricana, che avranno luogo gli incontri più significativi: anzitutto al visita al campo profughi, quindi la messa nella cattedrale e l’apertura della prima Porta Santa di quel Giubileo della Misericordia che – il papa ci tiene – non dovrà avere Roma come centro e mèta bensì svolgersi fondamentalmente in quelle periferie che egli ama e nelle quali vede le chiavi per il destino del mondo di domani. Quindi il papa visiterà la grande moschea della capitale. 
Se non ci saranno intoppi gravi, è evidente che questo è solo il principio. Non potrà non esserci un’altra visita, specie nei paesi dove i fedeli cattolici sono ancora più numerosi: 31 milioni nella Repubblica Democratica del Congo, 20 in Nigeria. Va ricordato che in Africa i cattolici sono 200 milioni, vale a dire il 17% della popolazione cattolica del mondo; nel clero, i preti africani stanno ormai diventando sempre più numerosi e a loro viene sovente affidata l’evangelizzazione e la pastorale rivolta agli europei. Ecco perché Francesco sostiene che la risorsa più preziosa dell’Africa non sono né il petrolio, né l’oro, né i diamanti, né l’uranio, né il coltan, bensì gli uomini. Eppure da questo continente sfruttato e distrutto soprattutto a causa della scellerata complicità tra le lobbies multinazionali che lo dissanguano sfruttandolo e i corrotti governi locali che tengono loro il sacco ricevendone laute prebende mentre la guerra infuria e le bande terroristiche impazzano, la gente è costretta a fuggire. Derubati in casa loro e quindi cacciati. Inaudito, ignobile, intollerabile. 
In Africa c’è anche una grave minaccia terroristica: il papa lo sa bene e non sottovaluta in pericolo. Non ci sono prove effettive che gruppi come Boko Haram o come le molte milizie attive in area somala da dove irradiano la loro violenza siano strutturalmente legate all’IS del califfo al-Baghdadi. Egli agisce forse solo in franchising, apponendo il suo trade mark agli attentati e alle azioni violente che riescono e dando così l’impressione di una potenza intercontinentale che non possiede. Ciò non diminuisce però di un grammo la pericolosità dei guerriglieri islamisti. In Uganda agisce, ai confini con il Ruanda e il Congo, la Adf-Nalu (“Forze democratiche alleate – Esercito Nazionale di Liberazione dell’Uhanda”), che ormai ha assunto un inquietante colore confessionale da quando a guidarlo c’è Jamil Mukulu, un ex cristiano convertito alla setta musulmana taqlib. 
Quel ch’è accaduto il 20 scorso nel Radisson Hotel di Bamako nel Mali, è ancora troppo recente per essere già stato dimenticato: dei clienti uccisi una volta appurato semplicemente che non conoscevano il Corano. Qualche giorno fa i rappresentanti dell’Unione europea, riuniti a Malta, hanno stanziato un po’ meno di 2 miliardi di euro per sostenere lo sviluppo economico africano e rimpatriare i migranti irregolari: una goccia nell’oceano, che per giunta – come assicura padre Mussie Zerai, dell’autorevole agenzia Habeshia – finirà quasi del tutto nelle tasche di governanti e di politicanti locali. Eppure l’equilibrio sociopolitico del mondo discende dalla necessità di una ridistribuzione delle ricchezze nel continente africano. 
Il papa lo sa; e sa benissimo altresì che il terrorismo è imprevedibile e che – se non si coordinano bene intelligence e infiltrazione per distruggerne le centrali – i quasi 36.000 uomini del servizio sociale non possono far quasi nulla per tutelare la sicurezza da nessuno. Lo ha detto chiaro e tondo: «Il terrorismo si alimenta di paura e povertà». Ma no, i soliti esperti tuttologi abituali ospiti dei talk-show durante i quali discettano su tutto, dalla questione femminile alla Juventus, gli hanno dato sulla voce giudicando la sua tesi “semplicistica” e “superficiale”, ribadendo con sussiego che alla base del terrorismo c’è l’ideologia distorta dei fondamentalismi. Ma sfugge a questi competenti per autolegittimazione che in una dottrina nella quale la fede viene degradata a base politica di un nuovo imperialismo vi sono sì i teorici che sanno quel che fanno, ma la massa di manovra agisce in quanto esasperata dalle sue condizioni economiche e incapace di disporre di un linguaggio sociale che non faccia riferimento al bagaglio religioso. 
Ma alla base di tutto v’è una miseria che dilaga in Asia, in Africa, in America latina , che tocca a differenti livelli il 90% della popolazione del globo (e tra loro più poveri, quelli che vivono sotto la soglia di sopravvivenza fissata dalla Banca Mondiale, i fatidici due dollari al giorno, sono 700 milioni) e che è aggravata dall’informazione. 
Non esiste povero e isolato centro che non sia raggiunto dalla Tv o dalla rete informatica. Ora, i miserabili che pensavano alla loro condizione economica come “naturale”, sanno e vedono; gli africani ai quali le multinazionali fanno pagare perfino l’acqua potabile sanno che là, “in Occidente”, c’è chi nuota in piscine private olimpioniche la cui capacità sarebbe tale da soddisfare le esigenze idriche giornaliere di migliaia di persone. E non ci stanno più. Ora, tra loro molti non trovano di meglio del jihadismo islamista per reagire; se piegheremo quella forza eversiva, non illudiamoci. Ne nasceranno altre: in quanto esse costituiscono le risposte distorte, scorrette, crudeli, disperate, a una situazione intollerabile. 
Il papa chiede giustizia per i poveri nel nome del Cristo, povero tra i poveri. Quelli tra noi che sono insensibili alla parola di Dio e alla voce dell’umanità, si muovano almeno per egoismo, per legittima difesa. Per troppo tempo i poveri non si sono mossi perché non sapevano. Ora che sanno, non illudiamoci: o costruiamo tutti insieme una società più giusta e dignitosa, o ci travolgeranno. 



Contro la guerra non si può restare in silenzio 
L'iniziativa. «Quando furono scatenate le guerre in Afghanistan e Iraq sapevano che quei conflitti avrebbero seminato, alla cieca, caos e morte. Avevamo torto? La guerra di Hollande avrà le stesse conseguenze. Per questo non si può non reagire». Un appello di intellettuali francesi 

Etienne Balibar, Jacques Bidet et al. Manifesto 27 11 2015

Nessuna interpretazione monolitica, nessuna spiegazione meccanicistica può far luce sugli attentati. Ma possiamo forse rimanere in silenzio? Molte persone — e le comprendiamo — ritengono che davanti all’orrore di questi fatti, l’unico atto decente sia il raccoglimento. Eppure non possiamo tacere, quando altri parlano e agiscono in nostro nome: quando altri ci trascinano nella loro guerra. Dovremmo forse lasciarli fare, in nome dell’unità nazionale e dell’intimazione a pensare in sintonia con il governo? 
Si dice che adesso siamo in guerra. E prima no? E in guerra perché? In nome dei diritti umani e della civiltà? La spirale in cui ci trascina lo Stato pompiere piromane è infernale. La Francia è continuamente in guerra. Esce da una guerra in Afghanistan, lorda di civili assassinati. I diritti delle donne continuano a essere negati, e i talebani guadagnano terreno ogni giorno di più. Esce da una guerra alla Libia che lascia il paese in rovine e saccheggiato, con migliaia di morti, e montagne di armi sul mercato, per rifornire ogni sorta di jihadisti. Esce da una guerra in Mali, e là i gruppi jihadisti di al Qaeda continuano ad avanzare e perpetrare massacri. A Bamako, la Francia protegge un regime corrotto fino al midollo, così come in Niger e in Gabon. E qualcuno pensa che gli oleodotti del Medioriente, l’uranio sfruttato in condizioni mostruose da Areva, gli interessi di Total e Bolloré non abbiano nulla a che vedere con questi interventi molto selettivi, che si lasciano dietro paesi distrutti? In Libia, in Centrafrica, in Mali, la Francia non ha varato alcun piano per aiutare le popolazioni a uscire dal caos. Eppure non basta somministrare lezioni di pretesa morale (occidentale). Quale speranza di futuro possono avere intere popolazioni condannate a vegetare in campi profughi o a sopravvivere nelle rovine? 
La Francia vuole distruggere Daesh? Bombardando, moltiplica i jihadisti. I «Rafale» uccidono civili altrettanto innocenti di quelli del Bataclan. E, come avvenne in Iraq, alcuni civili finiranno per solidarizzare con i jihadisti: questi bombardamenti sono bombe a scoppio ritardato. 
Daesh è uno dei nostri peggiori nemici: massacra, decapita, stupra, opprime le donne e indottrina i bambini, distrugge patrimoni dell’umanità. Al tempo stesso, la Francia vende al regime saudita, notoriamente sostenitore delle reti jihadiste, elicotteri da combattimento, navi da pattugliamento, centrali nucleari; l’Arabia saudita ha appena ordinato alla Francia tre miliardi di dollari di armamenti; ha pagato la fattura di due navi Mistral, vendute all’Egitto del maresciallo al Sisi che reprime i democratici della primavera araba. In Arabia saudita, non si decapita forse? Non si tagliano le mani? Le donne non vivono in semi-schiavitù? L’aviazione saudita, impegnata in Yemen a fianco del regime, bombarda le popolazioni civili, distruggendo anche tesori dell’architettura. Bombarderemo l’Arabia saudita? Oppure l’indignazione varia a seconda delle alleanze economiche? 
La guerra alla jihad, si dice con tono marziale, si combatte anche in Francia. Ma come evitare che vi cadano dei giovani, soprattutto quelli provenienti da ceti non abbienti, se non cessano le discriminazioni nei loro confronti, a scuola, rispetto al lavoro, all’accesso all’abitazione, alla loro religione? Se finiscono continuamente in prigione, ancor più stigmatizzati? E se non si aprono per loro altre condizioni di vita? Se si continua a negare la dignità che rivendicano? 
Ecco: l’unico modo per combattere concretamente, qui, i nostri nemici, in questo paese che è diventato il secondo venditore di armi a livello mondiale, è rifiutare un sistema che in nome di un miope profitto produce ovunque ingiustizia. Perché la violenza di un mondo che Bush junior ci prometteva, 14 anni fa, riconciliato, riappacificato, ordinato, non è nata dal cervello di bin Laden o di Daesh. Nasce e prospera sulla miseria e sulle diseguaglianze che crescono di anno in anno, fra i paesi del Nord e quelli del Sud, e all’interno degli stessi paesi ricchi, come indicano i rapporti dell’Onu. L’opulenza degli uni ha come contropartita lo sfruttamento e l’oppressione degli altri. Non si farà indietreggiare la violenza senza affrontarne le radici. Non ci sono scorciatoie magiche: le bombe non lo sono. 
Quando furono scatenate le guerre dell’Afghanistan e dell’Iraq, le manifestazioni di protesta furono imponenti. Sostenevamo che questi interventi militari avrebbero seminato, alla cieca, caos e morte. Avevamo torto? La guerra di Hollande avrà le stesse conseguenze. Dobbiamo unirci con urgenza contro i bombardamenti francesi che accrescono le minacce, e contro le derive liberticide che non risolvono nulla, anzi evitano e negano le cause del disastro. Questa guerra non sarà in nostro nome. 
Primi firmatari: 

Etienne Balibar, Ludivine Bantigny (storica), Emmanuel Barot (filosofo), Jacques Bidet (filosofo), Déborah Cohen (storica), François Cusset (storico delle idee), Laurence De Cock (storica), Christine Delphy (sociologa), Cédric Durand (economista), Fanny Gallot (storica), Eric Hazan (editore), Sabina Issehnane (economista), Razmig Keucheyan (sociologo), Marius Loris (storico e poeta), Marwan Mohammed (sociologo), Olivier Neveux (storico dell’arte), Willy Pelletier (sociologo), Irene Pereira (sociologa), Julien Théry-Astruc (storico), Rémy Toulouse (editore), Enzo Traverso (storico)

“La mistica della purezza è la vera arma dei terroristi” 
“La jihad di oggi è figlia della radicalizzazione dell’islam che ha prodotto frustrazioni. La promessa dell’aldilà fa sì che i ragazzi siano pronti a morire per questo”FABIO GAMBARO
PARIGI «La jihad contro la Francia nasce da una deriva interna dell’islam più che dal passato coloniale francese». Jean Daniel, intellettuale impegnato e decano del giornalismo europeo, dissente da chi spiega l’attacco alla Francia anche come una conseguenza della sua storia passata. «Certo le relazioni tra la Francia e il mondo arabo sono antiche e complesse», dice il fondatore del Nouvel Observateur. «Fin dalla spedizione di Napoleone in Egitto, la Francia ha intrecciato con i paesi arabi una relazione fatta di curiosità e fascinazione, ma anche di scontri e conflitti. Accanto alle scoperte archeologiche o agli studi dei grandi arabisti francesi, non sono mancati gli aspetti negativi, le guerre, la colonizzazione. Bisogna ad esempio ricordare che siamo stati noi francesi a imporre la separazione della Siria dall’Iraq con l’accordo Sikes-Picot del 1916, una separazione di cui stiamo pagando ancora oggi le conseguenze. Inoltre, la colonizzazione ha prodotto un sentimento d’inferiorità nei popoli colonizzati che è ancora molto diffuso. Tuttavia, le azioni degli uomini della jihad hanno poco a che fare con questa storia complessa».
La memoria coloniale ha influito sulle reazioni del mondo politico e dell’opinione pubblica agli attacchi di Parigi?
«Temevo che le ferite della guerra d’Algeria avrebbero condizionato le reazioni dei francesi, temevo il ritorno del razzismo, della xenofobia e della discriminazione nei confronti dei musulmani. Invece non è stato così. La risposta del popolo francese è stata all’altezza della situazione, composta e degna. Perfino il Fronte Nazionale ha messo la sordina ai suoi attacchi al mondo musulmano. Il popolo francese ha mostrato di esistere. Per una volta sono veramente fiero di questo popolo ».
Prima ha detto che gli attentati sono il risultato di una deriva interna dell’islam. Cosa significa?
«Per molti specialisti, la radicalizzazione dell’islam è un processo inevitabile. Per costoro, l’islam porta in sé l’islamismo, e l’islamismo porta in sé la deriva violenta dell’Is. Non condivido del tutto questa posizione, ma gli ultimi avvenimenti sembrerebbero confermarla. Come pure sembrano confermate le ipotesi di Samuel Huntington e la sua teoria dello scontro di civiltà. Anch’io ho spesso messo in guardia contro la minaccia di una possibile guerra di civiltà causata dall’inevitabile radicalizzazione dell’islamismo».
Ma perché questa radicalizzazione sarebbe inevitabile?
«L’islam è costituito di divieti che vengono subìti e di promesse che non vengono mantenute. A ciò vanno aggiunte le sconfitte e la crisi dei paesi che hanno mescolato fede e politica. Tutto ciò ha prodotto molte frustrazioni e un desiderio di purezza assoluta, da qui la deriva verso la dittatura, da cui poi nasce la barbarie. La radicalizzazione dell’islam viene da questa evoluzione ».
Molti specialisti dicono però che la radicalizzazione dei giovani terroristi francesi esprime più che altro il rifiuto della società in cui vivono, mentre la dimensione religiosa sarebbe solo una pretesto...
«Naturalmente bisogna tenere conto delle condizioni sociali per spiegare quello che è successo. Ma queste da sole non bastano. Io ad esempio sono molto colpito dalla propensione al suicidio di questi giovani. Naturalmente tutte le rivoluzioni producono violenza e i kamikaze li abbiamo già visti in Giappone. Ma l’introduzione nell’educazione religiosa e nell’arruolamento mistico della dimensione del sacrificio come via d’accesso alla salvezza è una caratteristica abbastanza specifica del mondo musulmano, e in particolare dell’islamismo nella sua dimensione più radicale. I kamikaze della jihad non sono emarginati, si pensi agli autori dell’attacco alle Torri gemelle. E anche a Parigi i terroristi non erano dei miserabili. Non sono nemmeno dei rivoluzionari che vogliono trasformare la società. Cercano soprattutto l’aldilà».
Per Alain Finkielkraut, i massacri del 13 novembre segnano la fine della fine della storia. È d’accordo?
«È un’evidenza: la storia torna a manifestarsi con tutta la sua violenza, spazzando via le facili illusioni del passato. Anche la Francia si è illusa, sottovalutando i rischi e le conseguenze delle guerre che ha combattuto in Libia, in Mali e ora in Siria. Pensava di fare una guerra a distanza e invece se l’è ritrovata in casa. Lo shock è stato enorme. Io stesso in mi sono sbagliato, quando ho sostenuto il nostro intervento in Libia. Oggi penso che avremmo dovuto seguire altre strategie diverse da quella militare. Non credo che la Francia abbia fatto bene a voler fare il giustiziere. Per Simone Weil, ogni volta che si prendono le armi in nome della giustizia, si mette un piede nel campo dell’ingiustizia. È una verità che bisogna sempre tener presente. Anche di fronte alla necessità di difendersi dagli attacchi subìti».
Per la lotta al terrorismo, è giusto limitare le libertà dei cittadini?
«Purtroppo è inevitabile. Non ci si può difendere senza rinunciare ad alcune libertà, ma lo si deve fare cercando di conservare il consenso di tutti. Come accade ora in Francia, dove la popolazione è solidale con l’azione del governo e della polizia. Il problema però è sapere quanto tempo potrà durare questa situazione. Il tempo è la nostra grande incognita».


Se gli attentati diventano una forma di narrazione Il terrore punta sulla rappresentazione E nel raccontare le stragi i media rischiano di prestarsi a questo giocoMARC WEITZMANN
Nel saggio Noi figli di Eichmann, pubblicato in piena guerra fredda, il filosofo Günther Anders ha preso in esame la questione dell’empatia. «Non esiste un essere umano capace di rappresentare a se stesso un evento di portata orribile quanto l’eliminazione di milioni di persone», scrive. Si riferisce a Hiroshima e Nagasaki riflettendo, in altri termini, sulle conseguenze etiche e umane della guerra fredda: il sistema di terrore che ha preceduto quello che stiamo subendo oggi. Oltre un certo limite - è questa la sua tesi centrale - la nostra capacità di fare supera la nostra capacità di immaginare ciò che facciamo. Superata tale soglia l’empatia viene meno: «Il troppo grande ci lascia freddi ». Un concetto che Hanna Arendt aveva espresso nel saggio sulla banalità del male. Incapace di rappresentare a se stesso la portata di ciò che aveva compiuto ad Auschwitz, vi si legge, Eichmann ha limitato il suo universo mentale all’esecuzione meccanica ed amministrativa dei propri compiti. Tutti i sopravvissuti del Bataclan, ad esempio, hanno testimoniato di come gli assassini abbiano eseguito il proprio compito “come dei robot”, senza fretta, senza passione, senza odio apparente. Le vittime degli attentati ciechi sono, per definizione, vittime del caso. È per questo che di fronte a un evento simile proviamo la forte tentazione di attribuire ad esso una logica. Le “spiegazioni” hanno lo scopo di limitare un’empatia che altrimenti risulterebbe intollerabile. Tuttavia la portata degli attentati del 13 novembre è tale da impedire questa presa di distanza. Come già accaduto dopo l’11 settembre, i media hanno quindi stilato degli elenchi parziali delle vittime nei quali la chiave dell’empatia era affidata al mimetismo: «hanno colpito persone a caso, anche persone che qui non menzioniamo, e avrebbero potuto colpire voi». Un simile mimetismo non è però meno ambiguo. Dopo tutto, se a chiunque può accadere qualsiasi cosa, come si può evitare che ciascuno di noi altro non sia che una vittima? «Il troppo grande», scrive Anders, «ci lascia freddi».
Questa trappola della ragione narrativa a cui i media, presi dall’immediatezza degli eventi, non riescono a sottrarsi, è uno degli effetti perversi a cui il terrore punta. Perché il terrore è una guerra di rappresentazione. Don DeLillo fa dire a un personaggio del romanzo Mao II: «Ciò che i terroristi guadagnano gli scrittori lo perdono ». «Beckett è l’ultimo scrittore ad aver forgiato il nostro modo di vedere e di pensare. Dopo di lui, l’opera principale comporta esplosioni a cielo aperto e il crollo di edifici. È questa la nuova narrazione tragica».

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