venerdì 27 novembre 2015

Università: finta eccellenza stile beauty contest per coprire la distruzione della formazione pubblica

Ordinari e Rettori hanno già venduto nostra madre per salvarsi il culo. E ora siamo pure orgogliosi di pulire cessi per loro [SGA].

Italia ultima per numero di laureati Il record negativo fra i 34 Paesi Ocse
L’esperto «Da noi mancano i quadri intermedi, quei periti di cui le aziende avrebbero bisogno»
L’allarme di Manfredi, capo dei rettori «Paghiamo un welfare molto carente servono più borse di studio al Sud»
di Orsola Riva Corriere 25.11.15

Nella classifica dei 34 Paesi più industrializzati del mondo, l’Italia è ultima (ultima!) per numero di giovani laureati e quartultima per soldi investiti nell’università in rapporto al Pil. Fra i dati contenuti nelle 568 pagine dell’ultima edizione di «Education at a glance», il rapporto Ocse presentato ieri al Miur, sono i numeri relativi all’istruzione superiore quelli che preoccupano di più, perché rischiano di condannare il Paese a un lento ma inarrestabile declino economico.
Poveri di laureati in genere, siamo ricchi di 25-34enni con un titolo equivalente al master (laurea specialistica). Due dati collegati. Se i laureati sono così pochi è anche perché da noi l’equivalente del bachelor (la laurea triennale) è considerato di fatto solo come un gradino intermedio in vista della laurea magistrale. Mentre i percorsi professionalizzanti come gli Its restano percentualmente marginali.
Spiega Francesco Avvisati, senior analyst presso l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico: «Da noi mancano i quadri intermedi, quei periti di cui le aziende tanto avrebbero bisogno, mentre in Francia ad esempio gli Istituti universitari di tecnologia sfornano informatici in due anni». Disattenti agli esiti lavorativi, i nostri atenei si rivelano carenti anche sul fronte delle competenze di base: molti studenti universitari hanno difficoltà a sintetizzare informazioni provenienti da testi lunghi e complessi. «La priorità del sistema — spiega ancora Avvisati — resta quella di formare belle menti, ricercatori, dirigenti, ingegneri. Non c’è l’idea di concentrare gli sforzi per elevare le competenze medie dei ragazzi usciti dalle superiori».
Sarà perché non hanno la giusta preparazione o perché in Italia il tessuto industriale fatto di piccole e medie imprese appare più restio che altrove ad assorbire i laureati, fatto sta che il vantaggio relativo della laurea ai fini di un impiego si è assottigliato al punto da essersi rovesciato: il tasso di occupazione di chi ha fatto l’università è di un punto percentuale inferiore a chi ha solo il diploma (62% contro il 63%).
Alla base di tutti questi ritardi, sta il dato di fondo della estrema scarsità di risorse investite: appena lo 0,9% del Prodotto interno lordo, la metà del Regno Unito (1,8%) e comunque molto meno della Germania e della Francia (1,2% e 1,4%). «Il rapporto Ocse è la fotografia della realtà — commenta amaro il capo dei rettori Gaetano Manfredi —. Il nostro è un sistema fortemente sotto finanziato, in un momento in cui l’economia della conoscenza invece è sempre più basata sul capitale umano. Il numero ridotto di iscritti all’università è legato a un welfare molto carente. Bisogna sostenere gli studenti, soprattutto al Sud. Sulle borse di studio abbiamo aperto un tavolo tecnico al Miur. La mia impressione è che sia il ministro Giannini che il presidente del Consiglio Renzi siano consapevoli che il futuro si gioca in investimenti nell’alta formazione. Ora però è venuto il momento di passare dalle parole ai fatti e di mettere più soldi» .

La coda lunga dei tagli all’università: più disoccupati, meno laureati
Austerità. Pubblicata la ricerca Ocse «Education at a Glance 2015»: pochi studenti iscritti negli atenei, redditi sempre bassi. docenti sempre più anziani e meno pagati. Tra il 2008 e il 2014 l'effetto dei «tagli Gelmini» si è intrecciato con la disoccupazione e la precarietà del lavoro. Ma per Giannini l'assunzione dei 500 ricercatori "ad alta velocità" è "un'inversione di tendenza". La soluzione di Renzi: la mancetta elettorale di 500 euro ai 18enni per "consumare cultura"

di Roberto Ciccarelli il manifesto 25.11.15

ROMA Solo il Lussemburgo riesce a fare peggio dell’Italia nella spesa per l’istruzione terziaria nei paesi Ocse. Ma il paese che sarebbe «uscito dalla crisi» riesce a gareggiare in una drammatica corsa al ribasso testa a testa con il Brasile e l’Indonesia. Il rapporto Education at a glance 2015, presentato ieri a Roma al Miur, offre un dato fermo al 2012 ma ancora valido per descrivere lo stato comatoso dell’università ottenuto, programmaticamente, dai tagli Gelmini-Tremonti al fondo per gli atenei. Allora il finanziamento rappresentava lo 0.9% del Pil, con un leggero aumento rispetto allo 0,8% del 2000. Canada, Cile, Corea, Danimarca, Finlandia, Stati Uniti sono al 2%.

La distanza, enorme, esiste ancora oggi e ha provocato effetti a cascata sulla ricerca, su laureati e diplomati e la loro speranza di trovare un lavoro con un reddito dignitoso, sui docenti. L’Ocse sostiene che il drastico taglio delle risorse abbia scoraggiato i diplomati a iscriversi all’università; ha fortemente attenuato l’idea che l’istruzione serva a trovare un lavoro qualificato visto che i titoli di studio oggi non coincidono con l’acquisizione di competenze durevoli. In un mercato del lavoro arretrato, tecnologicamente e dal punto di vista delle tutele, il corto-circuito è diventato esplosivo. Nel corso degli anni l’abbandono dell’università ha peggiorato la già scarsa domanda di lavoratori con qualifiche terziarie.

Sfiducia totale dello Stato
Uno Stato che attacca l’istruzione superiore manda alla popolazione un segnale di sfiducia totale: «solleva interrogativi sulla qualità dell’apprendimento nell’istruzione terziaria» commenta l’Ocse. Il crollo delle immatricolazioni, registrato negli anni della grande crisi, sarebbe stato provocato dall’idea che una formazione universitaria porta pochi, o nulli, miglioramenti alla propria condizione socio-professionale.
In una situazione dove i giovani Neet che non studiano né lavorano sono il 41%, percentuale seconda solo a Grecia e Spagna, mentre il tasso di occupazione giovanile crolla dal 32% al 23% e i laureati occupati sono calati di cinque punti percentuali tra il 2010 e il 2014 (oggi sono il 62%) «la prospettiva di proseguire gli studi è raramente considerata come un investimento che potrebbe migliorare le loro opportunità di successo sul mercato del lavoro». Tutto questo accade mentre aumenta la fuga all’estero degli studenti (record di 46 mila) e l’università attrae pochissimi studenti stranieri: 16 mila. In questo dato c’è il trucco, commenta l’Ocse. In Italia si contano gli immigrati permanenti e non solo chi si è trasferito per studiare come accade altrove.
Una società che nega una possibilità alla formazione e alla ricerca produce un contraccolpo sui saperi acquisiti. Non potendoli applicare o estendere sul lavoro, o metterli all’opera in relazioni sociali complesse, tali saperi si perdono. Negli studi Ocse sulle competenze degli adulti (25–34 anni) titolari di un diploma universitario l’Italia, con la Spagna e l’Irlanda, ha registrato il punteggio più basso in termini di lettura e comprensione nell’istruzione terziaria).
Dopo la stagnazione, si torna indietro.
Queste sono le conseguenze macro-economiche della guerra contro l’intelligenza condotta dai «governi del disastro Berlusconi-Monti-Letta» (la definizione è di Luciano Gallino che aggiungeva anche quello di Renzi): l’Italia è stato l’unico paese Ocse a tagliare di 8,4 miliardi di euro il fondo per la scuola e di 1,1 miliardi quello per l’università negli anni della crisi iniziata nel 2008. E a non avere avuto il coraggio di fare marcia indietro.
Ieri la propaganda di regime si è soffermata su un dato: i laureati magistrali (o equivalenti) sono il 20% in Italia contro la media del 17%. Peccato che nessuno abbia letto quanto scrive l’Ocse dopo: solo il 42% dei giovani si iscriverà ai programmi d’istruzione terziaria. Siamo terzultimi, con Lussemburgo e Messico. Il 34% dei giovani dovrebbe conseguire un diploma d’istruzione terziaria, rispetto a una media del 50%. La maggior parte dei laureati lascia gli studi dopo aver ottenuto un titolo di secondo livello. È vero che in media, in Italia come altrove, i laureati hanno redditi da lavoro più alti, ma si parla sempre di redditi bassi: 143% rispetto alla media Ocse del 160%. Tutto questo avviene in un paese con il corpo docente più vecchio e meno pagato del mondo. Nel 2013, il 57% degli insegnanti della scuola primaria, il 73% degli insegnanti della scuola secondaria superiore e il 51% dei docenti dell’istruzione terziaria avevano compiuto 50 anni. Queste persone guadagnavano in media due terzi del salario medio dei lavoratori con qualifiche comparabili.
Spot, più che visione
«È evidente che ci troviamo in un paese che non è in grado di valorizzare lavoratori con una formazione elevata» sostiene Jacopo Dionisio, coordinatore nazionale dell’Unione degli Universitari (Udu), che analizza anche gli auspici del governo legati all’ ever green sui percorsi professionalizzanti al termine dell’istruzione secondaria. «È da più di 10 anni — continua Dionisio — che si parla di ITS come priorità d’intervento, ma i fatti dimostrano il contrario: in Italia gli istituti professionalizzanti sono stati continuamente sviliti. È necessario che se ne incominci a parlare in maniera seria: non può essere analizzata come una questione a sé, ma come un percorso di formazione professionalizzante da inserire all’interno del nostro sistema di istruzione, in modo che sia finalmente funzionale».
«Il nostro sistema — sostiene il segretario confederale della Cgil Gianna Fracassi — ha un’allarmante disomogeneità territoriale, con un calo notevole degli iscritti nelle università meridionali». «Il nodo prioritario da affrontare per ridurre le disuguaglianze è intervenire sul diritto allo studio, sia universitario che scolastico, attraverso una legge quadro nazionale e procedere ad un incremento di risorse, a partire dalla legge di stabilità».
Un buon senso che non sembra essere popolare dalle parti di un governo che insiste su interventi frammentari e occasionali, anche rispetto alla logica manageriale ed economicistica — ma organica - dell’Ocse. Ci si muove sempre nell’ottica di interventi spot, come ha fatto ieri la ministra dell’Istruzione Giannini. Davanti ai dati sul disastro, ha continuato a omaggiare l’ottimismo di rito renziano. L’assunzione dei 500 ricercatori «eccellenti» «ad alta velocità», e i mille «di tipo B», sarebbe «un cambiamento» e «un’inversione del trend di investimento». In realtà è un modo per sollevare la polvere e buttarla al vento.
La mancetta dei 500 euro
Si conferma la legge dei 500. Sono 500 i ricercatori, 500 euro il “bonus” per i consumi culturali elargito agli insegnanti (invece di aumentare lo stipendio fermo dal 2009. E 500 euro andranno ai 18enni. Insieme alla patente, i ragazzi potranno spendere la mancetta per “consumi culturali”. Anche loro. L’annuncio è stato dato da Renzi, in persona, dalla Sala degli Orazi e Curiazi dei Musei Capitolini. Il premier strologava sul tema: la sicurezza si difende con la cultura.
Uno avrà pensato: metterà 1 miliardo cash sulla scuola; ripianerà i tagli all’università; aprirà il salvadanaio per il diritto allo studio e invece dei 50 milioni nella legge di stabilità ce ne metterà 200, necessari per avere il minimo di diritto allo studio. Anzi, potrebbe istituire il reddito minimo: 500–600 euro a testa per formarsi, sostenere le spese dei fuorisede, una borsa di studio, un sussidio per chi cerca occupazione o impara un mestiere.
Niente di tutto questo. Nel suo linguaggio cifrato, di scarsa comprensibilità, si è capito che Renzi destinerà “Un miliardo in sicurezza, uno nell’identità culturale e valorizzazione urbana”. Due miliardi presi dallo slittamento del taglio dell’Ires al 2017. Per i diciottenni sarà estesa «una misura già prevista per i professori (500 euro, ndr)», e cioè «una carta bonus da investire in teatri, musei, concerti e cultura che diventa simbolicamente il modo con il quale lo Stato carica i ragazzi della responsabilità di essere protagonisti e coeredi del più grande patrimonio culturale».


L’illusione di essere “coeredi” di un “patrimonio” ottenuto pagando il “consumo” della cultura. Mai parlare, invece, di investire il giusto per apprendere a produrre discorsi, stili, linguaggi. Cioè il mestiere della “cultura”. E’ naturale: nel mondo di Renzi si impara a consumare, non a produrre qualcosa. Il mondo visto da una vetrina.

Gli universitari italiani si aspettano in futuro un lavoro soddisfacente

27 nov 2015 Libero
Presente il Ministro dell'Istruzione, dell'Università e della Ricerca Stefania Giannini si è tenuta all’Accademia L’Oréal di Piazza Mignanelli a Roma, la presentazione della seconda edizione dell’Osservatorio Gli studenti universitari guardano al mondo del lavoro - scelte e aspettative dei giovani italiani, con una ricerca presentata da Eumetra Monterosa. Hanno commentato i risultati, oltre alla Giannini, Cristina Scocchia, Amministratore Delegato L’Oréal Italia e vari rettori di importanti università. Sorprendenti i risultati. I giovani italiani tra i 19 ed i 26 anni, che frequentano l’Università nel nostro paese o all’estero, sono convinti di trovare entro i prossimi 5 anni un lavoro (91%), che sarà soddisfacente (76%), coerente con gli studi svolti (75%) e socialmente utile (71%), nonostante il periodo ancora complicato. Uno studente su due preferisce di gran lunga il lavoro in azienda rispetto alla libera professione (28%) e al settore pubblico (27%). «Per i nostri studenti, il contenuto del lavoro svolto è più importante rispetto alla remunerazione e alla possibilità di far carriera. E l’azienda deve essere etica e onesta, deve rispettare la diversità dei dipendenti, deve saper motivare e valorizzare le qualità di ogni singolo collaboratore, deve lavorare per obiettivi con flessibilità riguardo ad orari e luoghi di lavoro», ha commentato Cristina Scocchia, ad L’Oréal Italia. Molti, infatti, vorrebbe meno raccomandazioni e maggiore meritocrazia in Italia.      




Italian Beautiful mind 
Sono biomedici e fisici, delle autentiche star della ricerca Per i bookmaker di settore qualcuno è addirittura in vista del Nobel. Arriva la classifica aggiornata dei migliori scienziati del nostro Paese. Ecco i primi 10

SILVIA BENCIVELLI Repubblica 27 11 2015

IL primo è Carlo Maria Croce, fa ricerca sul cancro: sta in Usa da una vita ma ha ancora un accento romano, dirige laboratori e gruppi di ricerca da una parte e dall’altra dell’oceano, e se lo googlate trovate un articolo di una giornalista americana che si è divertita a raccontare dei suoi capelli fluenti e della sua Ferrari rombante per le quiete strade di Columbus, Ohio.
Il secondo si chiama Alberto Mantovani, è milanese: anche lui è stato tanto all’estero, ma poi è tornato in Italia. Anche lui fa ricerca in ambito medico, e a seconda di quale graduatoria guardate è lui il vero primo, non quello con la Ferrari. Il terzo, Napoleone Ferrara, ha in tasca un premio Lasker per la ricerca medica clinica, cioè il premio che i bookmaker della scienza considerano il pre-Nobel, visto che ben 87 vincitori del primo si sono visti assegnare poi anche il secondo. La quarta, Daniela Bortoletto, ha due primati: è la prima donna, e anche la prima fisica. Nella graduatoria di scienziati di punta con passaporto italiano si trovano i fisici che hanno scoperto il bosone di Higgs, i medici che dirigono i laboratori più importanti al mondo per la ricerca sulle cellule staminali, i neuroscienziati che hanno scoperto i neuroni specchio, e tre premi Nobel. È la classifica dei 3.600 Tis, i “Top italian scientists”, compilata dalla Via, cioè Virtual Italian Academy: un gruppo di ricercatori italiani basati soprattutto in Gran Bretagna, che periodicamente valuta gli scienziati italiani con maggiore impatto sulla ricerca mondiale.
«Non è proprio una graduatoria », precisa Mauro Degli Esposti, fondatore della Via, biochimico affiliato all’Istituto Italiano di Tecnologia di Genova. «È più un censimento delle eccellenze italiche». Per misurare l’eccellenza è stato scelto l’indice H: proposto nel 2005 dal fisico Jorge Hirsch (da cui l’H) per misurare quanto uno scienziato ha pubblicato e quanto i suoi colleghi hanno ritenuto importanti le sue pubblicazioni. Per dire: un H di 30 significa che lo scienziato ha pubblicato almeno 30 articoli che sono stati citati almeno 30 volte ciascuno, in almeno altri 30 articoli scritti da altri scienziati. Ed è 30 la soglia per diventare gloriosamente un Tis.
«Tutti i tre premi Nobel nati in Italia si collocano confortevolmente oltre la soglia 30, come la nostra unica medaglia Fields (i Nobel della matematica, ndr)», spiega Degli Esposti. Già, ma per esempio i tre premi Nobel (due per la fisica, Riccardo Giacconi e Carlo Rubbia, e uno per la medicina, Mario Capecchi, che però di italiano ha solo il nome) si piazzano lontani dal podio, rispettivamente ai posti 77, 61 e 49. «È vero, ma i premi Nobel vengono dati a chi scopre per primo una cosa importante. E non a chi ha il maggior impatto sulla ricerca in generale, come misura l’indice H», spiega Degli Esposti.
Qui sono stati considerati gli scienziati di cui l’ indice H era calcolabile usando il database di Google, che si chiama Scholar ed è considerato “generoso” perché considera “articolo scientifico” un po’ di tutto. Ma soprattutto per finire su Scholar ti devi iscrivere e devi creare da te un profilo con le tue citazioni, da tenere “ sempre aggiornato”.
Detto questo, alcune cose saltano agli occhi. Fra i Tis ci sono tantissimi fisici: del resto anche a consultare database e ricerche internazionali viene fuori che noi italiani, in fisica, siamo senza dubbio tra i primi della classe. Ma i primi tre Tis sono di area biomedica. «Quando abbiamo iniziato questo censimento, cinque anni fa – ricorda Degli Esposti – erano già loro tre i primi. Significa che davvero sono i top della scienza italiana».
E allora ecco il primo, Carlo Maria Croce, indice H 191, ancora per un mese professore di Oncologia Medica all’università di Ferrara («poi mi mettono in pensione! »). Lavora e abita soprattutto negli Stati Uniti e ha al suo attivo scoperte fondamentali sulla genetica del cancro e articoli scientifici con più di 4.000 citazioni. Non la fa lunga: «Come si diventa top scientist? Bisogna lavorare tanto e bene». E che sul podio ci siano medici non sorprende: «Questo è il secolo della biomedicina, le cose davvero importanti oggi avvengono qui».
Il secondo, Alberto Mantovani, indice H 155, immunologo, direttore scientifico dell’Istituto Clinico Humanitas di Rozzano (Milano) e docente della omonima università, ha un curriculum scientifico lungo così, costruito lavorando anche in Uk e in Usa. «Ma le mie scoperte più importanti le ho fatte lavorando in Italia, dove ho scelto di tornare – racconta - Perché nel nostro Paese ci sono istituzioni dove si può fare ricerca di qualità, e organizzazioni, come Airc, Fondazione Cariplo, e Telethon, che sostengono la ricerca e l’indipendenza dei giovani scienziati, puntando sul merito». La ricetta di Mantovani per entrare nella top ten parla anche di loro: «Servono un po’ di intelligenza, tanta passione, e molta fortuna. Nel mio caso la fortuna è stata aver incontrato giovani collaboratori straordinari».
C’è anche chi l’essere Tis non lo prende tanto sul serio, come Giorgio Chiarelli, fisico della sezione pisana dell’INFN (Istituto nazionale di fisica nucleare), indice H 132. Chiarelli si è scoperto dodicesimo nella classifica generale, settimo tra gli italiani in Italia e settimo tra i fisici. «E mi sono fatto una risata». Perché nel censimento ci sono scienziati di aree disciplinari diverse, «e ciascuna ha usi e costumi suoi, perciò l’indice H ha valore molto diverso». Sarà (anche) per questo che i primi tre sono biomedici e i matematici sono rarissimi. E sarà anche per questo che ci sono aree disciplinari in cui essere anziani si rivela un vantaggio enorme.
«D’accordo, se uno è molto citato, in genere è molto bravo. Le agenzie di finanziamento della ricerca ne tengono conto. Ma non usiamole per raccontarci storie». Chiarelli, per esempio, è in alto «perché vent’ anni fa ho partecipato a un bellissimo esperimento negli Stati Uniti insieme a tanti altri italiani, il cui risultato più importante è stato la scoperta del quark top. Ed è questa la cosa che, per me, conta davvero».

Sul sito della Via molti di questi caveat sono espressi chiaramente. Ma quindi a che serve la classifica? Per Degli Esposti a una cosa importante: «Raccontare la scienza e la cultura italiana, soprattutto ai giovani, ma anche agli organismi pubblici e ai media». Ci svela chi sono gli scienziati più attivi, le aree della ricerca più solide e presenti. Ci dice che c’è gente che appare poco sui giornali ma lavora sodo nel proprio laboratorio. Ma anche «che in certi campi, gli scienziati italiani di maggior impatto lavorano quasi solo all’estero». Come fino a poco fa accadeva allo stesso Degli Esposti. Lui, ovviamente, è uno dei Tis. «Ho un indice H di 41. Per ora...». E si capisce che non vuole fermarsi lì.

“Serve premiare la serie A così si attirano finanziamenti” L’INTERVISTA / GIACOMO RIZZOLATTI
NEUROSCIENZIATO, leader del gruppo che ha scoperto i neuroni specchio, un indice H di 113. Giacomo Rizzolatti a che cosa serva dare un voto agli scienziati lo spiega così: «Quelli con un indice H alto sono la serie A. Poi lo scudetto nella scienza non c’è, quindi che tu, oggi, abbia 92 o 95, o che tu sia il diciassettesimo o il ventesimo, non conta. Ma non si deve negare la differenza tra chi è in serie A e chi è in serie B o in serie C. Con tutte le avvertenze del caso, una serie A della scienza serve, e un indice come l’H è necessario».
Perché?
«Perché dice che abbiamo fatto lavori che sono stati letti e utilizzati da altri scienziati. Ma insomma: se io scopro o invento una cosa e non la scrivo, o non la legge nessuno, perché lo Stato dovrebbe continuare a darmi i soldi per fare ricerca? La ricerca ha una funzione sociale, non è un fatto personale».
E le avvertenze del caso, allora?
«È ovvio che l’indice H favorisca i più anziani, per esempio. O chi va a lavorare in America. Così come è vero che ci sono ambiti della ricerca più popolari, come forse anche il mio. E che non si possa confrontare tra settori disciplinari diversi. Ma all’interno dello stesso settore sì che si può confrontare: se il mio lavoro viene letto solo da altri quattro scienziati del mio ambito, che cosa ho fatto nella vita? E poi comunque ci sono sistemi per correggere eventuali distorsioni, usati anche a livello internazionale».
Per esempio?
«Per esempio per i cosiddetti Erc, i finanziamenti dell’Unione europea per i progetti di eccellenza. Alcuni sono riservati ai ricercatori giovani. Lì una prima griglia di selezione serve a vedere se i candidati hanno mai pubblicato in riviste buone. In seconda battuta si valuta il progetto. Il passaggio, nel panel a cui ho partecipato, è stato da novanta candidati, a trenta selezionati, a quindici finanziati. Lì ho dovuto difendere i ricercatori italiani, perché qui tendiamo a lavorare in gruppo e magari il nome del giovane non emerge, ma il sistema complessivamente funziona ».
Già: se le firme di un articolo sono tante, c’è modo di sapere chi ha lavorato davvero?
«Nel mio settore c’è un accordo non scritto per cui il primo nome è quello che ha fatto la maggior parte del lavoro. Cioè: al giovane che si è impegnato e ha fatto l’esperimento, si dà la prima firma. L’ultimo è il professore, che ha portato i finanziamenti. Nel mezzo chi ha collaborato. Un tempo, invece, si usava l’ordine alfabetico. E in altre discipline è ancora così. Vedete i grandi esperimenti di fisica: a volte le firme di chi ha lavorato occupano un’intera pagina!» Questa però è un’altra conferma del fatto che i confronti non sempre funzionano.
«Ma certo che non sempre funzionano. Né tantomeno funzionano i confronti con gli umanisti. Ed è vero che sono possibili errori e distorsioni. Però per noi delle discipline biomediche, per esempio, l’indice H serve, soprattutto quando si vanno a decidere come distribuire i finanziamenti. E serve anche un’agenzia di valutazione della ricerca, con tutti i suoi indispensabili strumenti».

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