domenica 15 novembre 2015
Torna da Einaudi "Uomini tedeschi" di Walter Benjamin
Risvolto
«QUANDO LA GERMANIA PARLAVA SENZA
DOVER FALSARE LA PROPRIA VOCE»
Lichtenberg, Hölderlin, i fratelli Grimm, Goethe,
Kant, Liebig (sì, quello dei dadi per il brodo),
Brentano, Büchner e un'altra dozzina.
Sono il manipolo di intellettuali tedeschi fra Sette
e Ottocento scelto da Benjamin per rappresentare,
con un'antologia delle loro conversazioni epistolari,
il quadro etico, intellettuale e più generalmente
antropologico dell'«essere tedeschi». O meglio,
di quello che era stato «essere tedeschi».
Benjamin pubblicò la prima serie di lettere nel 1931
sulla «Frankfurter Zeitung» quando il nazismo era
alle porte. La raccolta in volume uscì nel 1936,
quando Benjamin era già esule e doveva pubblicare
sotto pseudonimo: il senso di contrapposizione
di un'altra civiltà tedesca, sobria, appassionata,
responsabile rispetto alla retorica e alla violenza
del Reich non poteva essere più esplicita.
Un collage politico e sentimentale in cui c'è tutto
Benjamin.
Nato a Berlino il 15 luglio 1892, Walter Benjamin si laureò a
Berna nel 1919. Dopo aver cercato invano di ottenere la libera docenza
presso l'Università di Francoforte, si dedicò principalmente alla
critica e alla saggistica, collocandosi al centro di una fitta rete di
«incroci»
con personalità della cultura a lui contemporanea
(da Scholem a Brecht, da Rosenzweig a Bloch, ad
Adorno); nel 1933, all'avvento del nazismo emigrò a Parigi. L'interesse
di Benjamin, il cui pensiero propone un singolare accostamento fra
mistica ebraica e marxismo, è rivolto soprattutto alla ricognizione del
Moderno, ai mutamenti intervenuti nella fruizione estetica, al ruolo dei
mass
media, alla moderna metropoli (prima fra tutte la Parigi di Baudelaire),
ma anche all'opera di grandi scrittori come Goethe, Baudelaire, Kafka e
Proust (di cui tradusse in tedesco parti della Recherche). Morí nel 1940
a Port Bou, sul confine
franco-spagnolo, mentre cercava di sfuggire alla
Gestapo.
Nel catalogo Einaudi: Angelus Novus («Einaudi Tascabili»); Sull'hascisch («Einaudi Tascabili», «Nuovi Coralli» e «ET»); Infanzia berlinese («Letture Einaudi»); Ombre corte («Nuova Universale Einaudi»); Il dramma barocco tedesco («Biblioteca Einaudi»); Sul concetto di storia («Biblioteca Einaudi»); L'opera d'arte nell'epoca della sua riproducibilità tecnica («Piccola Biblioteca Einaudi» ed «ET Saggi»); Lettere 1913 - 1940, Teologia e utopia («Einaudi Paperbacks», il secondo con Gershom Scholem); Il concetto di critica nel Romanticismo tedesco: Scritti 1919 - 1922 («Einaudi Letteratura»); Immagini di città
(«Letture Einaudi»); è attualmente in corso una nuova edizione degli
scritti nella collana «Opere complete» di cui sono già disponibili i
volumi I (Scritti 1906-1922), II (Scritti 1923 - 1927), III (Scritti 19238 - 1929), IV (Scritti 1930-1931), V (Scritti 1932-1933), VI (Scritti 1934-1937), VII (Scritti 1938-1940), VIII (Frammenti e Paralipomena) e IX (I «Passages» di Parigi). Nel 2006 Einaudi ha pubblicato una nuova edizione accresciuta di Strada a senso unico («Piccola Biblioteca Einaudi») e nel 2010 pubblica Sonetti e poesie sparse («Collezione di Poesia»). Nel 2011 esce Il narratore («Super ET»), nel 2012 Aura e choc. Saggi sulla teoria dei media («PBE») e nel 2015 Uomini tedeschi.
Walter Benjamin un’altra Germania era possibile
TornaUomini tedeschi, l’antologia di lettere di illustri figure della cultura tra ’700 e ’800, scelte e commentate dal filosofo mentre a Berlino stava per prendere il potere Hitler
Luigi Forte Stampa 15 11 2015
Pensava con apprensione e malinconia al suo tempo Walter Benjamin, quando propose alla Frankfurter Zeitung, quotidiano della borghesia liberale di cui era collaboratore, alcune lettere di illustri personaggi tedeschi del passato. Meditava sul lento inabissarsi dei grandi ideali del classicismo weimariano che con Goethe e Schiller aveva segnato il punto più alto della cultura non solo tedesca. Era il marzo del 1931 e le ventuno epistole, che abbracciano un secolo in sequenza cronologica fra il 1783 e il 1883, furono pubblicate nell’arco di oltre un anno, fino al maggio del 1932, tutte corredate da stimolanti commenti.
Nel gennaio dell’anno seguente Hitler saliva al potere e quel prezioso retaggio di nobili anime che lo studioso e critico berlinese aveva raccolto fu proscritto dalla memoria collettiva. Di fronte ai drammatici eventi degli ultimi mesi Benjamin si trasferì a Parigi e di là, grazie al critico teatrale Rudolf Rößler, che a Lucerna aveva fondato una casa editrice, riuscì a pubblicare in volume quei testi con lo pseudonimo di Detlef Holz. Così nasceva Uomini tedeschi che Einaudi ripropone ora con un ampio apparato di note e una bella introduzione di Enrico Ganni (pp. 186, € 18).
«Contegno umanistico»
Era il tentativo un po’ donchisciottesco di tenere in vita ciò che stava morendo attraverso la corrispondenza di autori ed epoche diverse che pure una cosa avevano in comune: richiamare alla mente - come scrisse nell’appendice lo stesso Benjamin - «un contegno che è lecito definire umanistico», dal quale sprigionavano forza e passione ormai estinte nel plasmare la vita privata. Un mondo variegato e complesso nel quale primeggiano onestà, solidarietà umana, sobria razionalità, ben lontano dalla folle ideologia della razza pura che marciava compatta al comando del Führer.
La Germania che qui emerge attraverso personaggi come Goethe, Forster, Seume, Hölderlin, Brentano, Büchner, la poetessa von Droste o i fratelli Grimm, è la nazione culturale che solo nel 1871 conseguirà la propria unità politica. Il passato è impregnato di valori umanistici e l’identità è soprattutto linguistica. Non a caso Jakob Grimm nella prefazione del suo Dizionario tedesco esortava i connazionali ad amare la propria lingua: «…imparatela, santificatela e preservatela, in essa sono depositati la vostra continuità e il vostro vigore in quanto popolo».
L’identità smarrita
Quell’unità culturale andò presto smarrita e questo libro è la più schietta testimonianza dei molti progetti infranti. Ancora il vecchio Goethe, scrivendo all’amico musicista Zelter, ricordava che il mondo ormai era schiavo della ricchezza e della velocità, consapevole di essere tra gli ultimi di «un’epoca che non tornerà tanto presto». Era tramontato il tempo in cui illuministi come Lessing e Lichtenberg avevano plasmato lo spirito prussiano in forma ben più umana di quanto non facesse l’esercito federiciano. Ora il giovanissimo Büchner, membro fondatore dell’Associazione per i diritti dell’uomo, doveva fuggire in fretta e furia da Darmstadt, nel marzo del 1835, per non essere arrestato e invocava l’amico Gutzkow, in un momento buio della propria vita, di trovargli un editore per il suo dramma La morte di Danton.
Erano tempi duri, ma l’inquieto poeta Hölderlin era deciso a restare tedesco «anche se i travagli del cuore e la mancanza di cibo mi dovessero spingere a Tahiti». Mentre il naturalista e rivoluzionario Georg Forster scriveva alla moglie dall’esilio parigino che ormai tutto era pervaso da «ira cieca e passionale, da furioso spirito di parte» e che in Europa il dispotismo si faceva sempre più intollerante. Con lui ci sono altre figure di studiosi e scienziati come il grande fisico Ritter, il chimico Liebig (quello dell’estratto di carne) e il chirurgo plastico Dieffenbach.
Davanti alla follia nazista
Alla realtà storica si affiancano nelle lettere dettagli privati, sensazioni, testimonianze di costume di alcune generazioni. Come quando la giovane Annette von Droste-Hülsoff confida al suo mentore la profonda nostalgia per i luoghi in cui non è o per le cose che non possiede: è il raptus di un’anima che incarna il bisogno di speranza della parte più nobile del paese, quella stessa che coltiva il pietista Collenbusch che bacchetta Kant per la sua fede che ne è priva e la sua etica senza amore. Un tema, quest’ultimo, che infiamma il cuore del pedagogista svizzero Pestalozzi (qui un «intruso», come il cancelliere austriaco Metternich) o di Wilhelm Grimm in una delicata missiva alla sorella della Droste.
Forse è vero, come suggeriva Adorno, che da questo libro emana un senso di dolore per una cultura affossata dalla follia nazista. Ma emerge anche un tratto autobiografico: in queste lettere si riverbera la nostalgia e il dramma stesso di Benjamin, anch’egli fuggitivo, senza futuro e senza patria.
Pensava con apprensione e malinconia al suo tempo Walter Benjamin, quando propose alla Frankfurter Zeitung, quotidiano della borghesia liberale di cui era collaboratore, alcune lettere di illustri personaggi tedeschi del passato. Meditava sul lento inabissarsi dei grandi ideali del classicismo weimariano che con Goethe e Schiller aveva segnato il punto più alto della cultura non solo tedesca. Era il marzo del 1931 e le ventuno epistole, che abbracciano un secolo in sequenza cronologica fra il 1783 e il 1883, furono pubblicate nell’arco di oltre un anno, fino al maggio del 1932, tutte corredate da stimolanti commenti.
Nel gennaio dell’anno seguente Hitler saliva al potere e quel prezioso retaggio di nobili anime che lo studioso e critico berlinese aveva raccolto fu proscritto dalla memoria collettiva. Di fronte ai drammatici eventi degli ultimi mesi Benjamin si trasferì a Parigi e di là, grazie al critico teatrale Rudolf Rößler, che a Lucerna aveva fondato una casa editrice, riuscì a pubblicare in volume quei testi con lo pseudonimo di Detlef Holz. Così nasceva Uomini tedeschi che Einaudi ripropone ora con un ampio apparato di note e una bella introduzione di Enrico Ganni (pp. 186, € 18).
«Contegno umanistico»
Era il tentativo un po’ donchisciottesco di tenere in vita ciò che stava morendo attraverso la corrispondenza di autori ed epoche diverse che pure una cosa avevano in comune: richiamare alla mente - come scrisse nell’appendice lo stesso Benjamin - «un contegno che è lecito definire umanistico», dal quale sprigionavano forza e passione ormai estinte nel plasmare la vita privata. Un mondo variegato e complesso nel quale primeggiano onestà, solidarietà umana, sobria razionalità, ben lontano dalla folle ideologia della razza pura che marciava compatta al comando del Führer.
La Germania che qui emerge attraverso personaggi come Goethe, Forster, Seume, Hölderlin, Brentano, Büchner, la poetessa von Droste o i fratelli Grimm, è la nazione culturale che solo nel 1871 conseguirà la propria unità politica. Il passato è impregnato di valori umanistici e l’identità è soprattutto linguistica. Non a caso Jakob Grimm nella prefazione del suo Dizionario tedesco esortava i connazionali ad amare la propria lingua: «…imparatela, santificatela e preservatela, in essa sono depositati la vostra continuità e il vostro vigore in quanto popolo».
L’identità smarrita
Quell’unità culturale andò presto smarrita e questo libro è la più schietta testimonianza dei molti progetti infranti. Ancora il vecchio Goethe, scrivendo all’amico musicista Zelter, ricordava che il mondo ormai era schiavo della ricchezza e della velocità, consapevole di essere tra gli ultimi di «un’epoca che non tornerà tanto presto». Era tramontato il tempo in cui illuministi come Lessing e Lichtenberg avevano plasmato lo spirito prussiano in forma ben più umana di quanto non facesse l’esercito federiciano. Ora il giovanissimo Büchner, membro fondatore dell’Associazione per i diritti dell’uomo, doveva fuggire in fretta e furia da Darmstadt, nel marzo del 1835, per non essere arrestato e invocava l’amico Gutzkow, in un momento buio della propria vita, di trovargli un editore per il suo dramma La morte di Danton.
Erano tempi duri, ma l’inquieto poeta Hölderlin era deciso a restare tedesco «anche se i travagli del cuore e la mancanza di cibo mi dovessero spingere a Tahiti». Mentre il naturalista e rivoluzionario Georg Forster scriveva alla moglie dall’esilio parigino che ormai tutto era pervaso da «ira cieca e passionale, da furioso spirito di parte» e che in Europa il dispotismo si faceva sempre più intollerante. Con lui ci sono altre figure di studiosi e scienziati come il grande fisico Ritter, il chimico Liebig (quello dell’estratto di carne) e il chirurgo plastico Dieffenbach.
Davanti alla follia nazista
Alla realtà storica si affiancano nelle lettere dettagli privati, sensazioni, testimonianze di costume di alcune generazioni. Come quando la giovane Annette von Droste-Hülsoff confida al suo mentore la profonda nostalgia per i luoghi in cui non è o per le cose che non possiede: è il raptus di un’anima che incarna il bisogno di speranza della parte più nobile del paese, quella stessa che coltiva il pietista Collenbusch che bacchetta Kant per la sua fede che ne è priva e la sua etica senza amore. Un tema, quest’ultimo, che infiamma il cuore del pedagogista svizzero Pestalozzi (qui un «intruso», come il cancelliere austriaco Metternich) o di Wilhelm Grimm in una delicata missiva alla sorella della Droste.
Forse è vero, come suggeriva Adorno, che da questo libro emana un senso di dolore per una cultura affossata dalla follia nazista. Ma emerge anche un tratto autobiografico: in queste lettere si riverbera la nostalgia e il dramma stesso di Benjamin, anch’egli fuggitivo, senza futuro e senza patria.
Pensava con apprensione e malinconia al suo tempo Walter Benjamin, quando propose alla Frankfurter Zeitung, quotidiano della borghesia liberale di cui era collaboratore, alcune lettere di illustri personaggi tedeschi del passato. Meditava sul lento inabissarsi dei grandi ideali del classicismo weimariano che con Goethe e Schiller aveva segnato il punto più alto della cultura non solo tedesca. Era il marzo del 1931 e le ventuno epistole, che abbracciano un secolo in sequenza cronologica fra il 1783 e il 1883, furono pubblicate nell’arco di oltre un anno, fino al maggio del 1932, tutte corredate da stimolanti commenti.
Nel gennaio dell’anno seguente Hitler saliva al potere e quel prezioso retaggio di nobili anime che lo studioso e critico berlinese aveva raccolto fu proscritto dalla memoria collettiva. Di fronte ai drammatici eventi degli ultimi mesi Benjamin si trasferì a Parigi e di là, grazie al critico teatrale Rudolf Rößler, che a Lucerna aveva fondato una casa editrice, riuscì a pubblicare in volume quei testi con lo pseudonimo di Detlef Holz. Così nasceva Uomini tedeschi che Einaudi ripropone ora con un ampio apparato di note e una bella introduzione di Enrico Ganni (pp. 186, € 18).
«Contegno umanistico»
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