Gilles Deleuze:
L’esausto, Nottetempo pagg. 98 euro 7
Risvolto
A vent’anni dalla morte di Gilles Deleuze
(4 novembre 1995), nottetempo rende omaggio al grande filosofo francese
ripubblicando uno dei suoi ultimi saggi, L’esausto. Se il testo
è dedicato fin dal titolo alle posture dei personaggi di Samuel
Beckett, allude anche all’esperienza privata di Deleuze, a quell’epoca
gravemente malato e costretto a passare seduto la maggior parte del suo
tempo. “Lo stanco ha esaurito solo la messa in atto, mentre l’esausto
esaurisce tutto il possibile”. E tuttavia, questo testo non è un saggio
sulla fine, quanto su un altro, illuminante concetto deleuziano: il
penultimo, la penultimità.
“Cambio,dunque sono” Il testamento di Deleuze
Vent’anni fa il suicidio del filosofo che più di ogni altro ha incarnato lo spirito del ’68.E che ha vissuto come un personaggio di Beckett
ANTONIO GNOLI Repubblica 3 11 2015
Deleuze è morto vent’anni fa. Riverso su un marciapiede che lo accolse dopo un volo di trenta metri. Nessun biglietto per i posteri che ne giustificasse il senso. La fece finita con se stesso. Dopotutto, se l’Esserci era gettato nel mondo, secondo la celebre dicitura heideggeriana, Deleuze gettò se stesso dalla finestra. Non so quanto se ne possa ricavare dal confronto tra i due pensatori. Coglie perfettamente Giorgio Agamben, nel testo “L’esausto”: Heidegger fu una sua bestia nera. (“L’esausto” esce ora per Nottetempo con una bella introduzione di Ginevra Bompiani e un testo appunto di Agamben).
Capitava che Deleuze scrivesse commenti a testi letterari: Kafka, Melville, Proust, Carroll. Ne L’esausto riversa l’attenzione su Beckett. Colpisce questa frase enigmatica: «I personaggi di Beckett giocano con il possibile senza attuarlo, hanno troppo da fare con un possibile sempre più ristretto nel suo genere, per preoccuparsi di quello che potrà accadere». Verrebbe da commentare che i personaggi di Beckett sono talmente impegnati sul nulla da restarne stremati. Si muovono entro geometrie rigorose e astruse (quelle di Riemann) con una feroce e bizzarra dissoluzione del loro repertorio umano.
Deleuze distingue tra esser stanco e esausto. La stanchezza può ancora trovare nuove energie. Essa non rinuncia ai bisogni, alle preferenze, agli scopi, ai significati, come invece fa l’esausto. Quest’ultimo mette fine al possibile. Si potrebbe in qualche modo riassumere così: la stanchezza è una categoria del tempo sociale che si rigenera. L’esausto è una categoria del tempo filosofico che muore.
Ma a quale filosofia si richiama Deleuze? Non c’è nulla, o quasi, nel suo pensiero che riconduca all’esperienza ordinaria (di qui la concettualità spesso paradossale ed enigmatica). Il compito dello storico della filosofia — ammesso che sia ancora una figura spendibile — non è di inanellare, come una narrazione ininterrotta, un’epoca dietro l’altra. «Lo storico — osserva opportunamente Rocco Ronchi (in Gilles Deleuze , Feltrinelli) — non racconta la filosofia, ma ne riattiva ogni volta la dimensione problematica e agonistica».
Si è sostenuto che il pensiero di Deleuze sia stato la più adeguata e interessante forma filosofica riconducibile al Sessantotto. Un testo come L’anti- Edipo — pubblicato nel 1972, in collaborazione con Felix Guattari — è stato, pur dentro i sofisticati intrecci psicoanalitici, il tentativo di cogliere la grandiosa empiria di quella stagione. L’impossibile che si rendeva possibile. Contro l’idea che l’assoluto si potesse porre solo all’esterno del reale, Deleuze immaginò un’assolutizzazione dell’esperienza. Ai suoi occhi, la metafisica non aveva mai creduto nella realtà. La divorò senza mai digerirla.
Deleuze, da empirista estremo, vide dunque nel reale (nel suo caos e disordine, nella sua vocazione anti-istituzionale) una via di uscita alle difficoltà della vecchia filosofia. Ma il reale non è una somma di fatti interpretabili che di volta in volta si isolano, o si mettono in relazione. Come ad esempio crede il pensiero scientifico. Il reale è un insieme di processi, di atti che compongono il tessuto stesso dell’esperienza. Noi, dice Deleuze, siamo dentro questa esperienza, ne prendiamo parte non già come soggetto che la costruisce, la orienta, la guida e infine ne ricava una sintesi conoscitiva. Esperienza è semplicemente divenire delle cose e di coloro che vi sono immersi. È un flusso (pensò lo stato liquido molto prima di Bauman) Il divenire ci precede e resiste a ogni tentativo di ingabbiamento o di codifica. È l’idea che Deleuze ebbe dell’immanenza.
Si potrà obiettare che in questa maniera Deleuze rinunciò alla condizione con cui l’Occidente ha guardato alla conoscenza. Ossia alla costruzione di un sapere che si serve dell’esperienza, ma in qualche modo la trascende. Ma se non potrò conoscere per quella via praticata da larga parte della filosofia, come posso dispormi di fronte al grande tema della verità? Chi sarò mai io rispetto al mondo? Deleuze avrebbe potuto replicare che non c’è una grande verità (non sarebbe il primo a dichiararlo). Ciò che questo filosofo complicato, difficile, sovente astruso ci dice è che la conoscenza non è il risultato di un superamento tra due opposte realtà. Non si nega la realtà per poi riassumerla in un contesto più nobile. La filosofia non procede per opposizione ma per variazione.
Mi pare anche qui utile il richiamo che Ronchi fa a Glenn Gould e alle Variazioni Goldberg .
Secondo il grande interprete di Bach le variazioni seguono un movimento radiale e non lineare, percorrono una circonferenza e non una retta. Non c’è una successione secondo un prima e un dopo, del tipo: accade un fatto e lo racconto. Il filosofo non è lo storico che parla dell’accaduto. Il filosofo è colui che è nell’accadere. Lo storico segue la linearità dell’accaduto ( causa ed effetto); il filosofo, per Deleuze, si colloca nell’evento. Non ha un inizio né una fine. Sta nel mezzo di qualcosa che è già stato detto e che si può solo ripetere.
Cos’è che si può ripetere? Conosciamo l’espressione: è stato detto tutto. Ma come si fa a essere originali su qualcosa che è già stato detto? L’interprete della vita, secondo Deleuze, non deve pensare secondo scansioni temporali (per fasi successive) ma come se si muovesse su dei piani. Il concetto di “piano” riveste un’importanza cruciale. Il piano non è una linea, non è una successione di fatti, ma una contemporaneità, un campo di forze, un’immanenza che coinvolge le più diverse esperienze vitali: dalla filosofia alla letteratura, dal cinema al teatro.
Deleuze ha letto il pensiero filosofico ad altezze spesso vertiginose. Ne ha imitato, più che interpretato, la voce. Platone, Spinoza, Leibnitz, Nietzsche, Bergson e Marx (al quale da ultimo stava lavorando) sono stati alcuni snodi del suo cammino.
Come pure appaiono fondamentali i confronti con Hyppolite, Blanchot, Foucault, Klossowski, Lacan. E sul piano teatrale quello con Artaud e poi Carmelo Bene. Se c’è un filo che tiene insieme questo orizzonte di pensiero è la rivendicazione di un punto di vista “minore”. Si potrebbe dire che una tale scelta operi in funzione della marginalizzazione di un pensiero che non offre mai un’ultima parola, bensì sempre la penultima. Per Deleuze tutte le lingue e i pensieri “maggiori” — i grandi sistemi filosofici per esempio — hanno cercato un approdo definitivo. Una parola ultima. Ma in realtà non c’è lingua o pensiero che non sia straniero (non a caso privilegiò il significante sul significato). È come se ogni volta il filosofo — che non è più la coscienza del mondo — debba nuovamente imparare a parlare una lingua che non conosce più. Balbetta. Borbotta. Bofonchia. Come i personaggi di Beckett. Creature “minori”. Sorprese a vivere sui bordi della Storia, quando la Storia è già tramontata.
Gilles Deleuze e la libertà sovrana di fare filosofia
Saggi.
«L’esausto» di Gilles Deleuze per Nottempo. A venti anni dalla sua morte
pubblicati, con i contributi di Ginevra Bompiani e Giorgio Agamben, i
testi dedicati a Samuel BeckettAlessandra Pigliaru Manifesto 4.11.2015
«Troppo da dire, e oggi non ne ho la forza. Troppo da dire su
quello che è successo, su quello che è successo proprio a me, con la
morte di Gilles Deleuze». A raccontarlo, nelle pagine di Libération,
è stato Jacques Derrida il 7 novembre del 1995. Tre giorni prima
e all’età di settant’anni scompariva Gilles Deleuze, suo amico a cui
riconosceva «il marchio di un grande filosofo, di un grande
professore». Nei ricordi che Derrida ha dedicato a Roland Barthes,
Edmond Jabès, Sarah Kofman, Maurice Blanchot e molti altri, raccolti
poi nel 2003 in un volume dal titolo Ogni volta unica, la fine del mondo,
c’è il segno di una generazione che finisce. È tuttavia Deleuze
più di altri, prosegue Derrida, il «pensatore dell’avvenimento». Da
quella differenza sempre nomade, anarchica e in eccesso, la
folgorazione prodotta dal nome di Deleuze apriva la possibilità
di un nuovo pensiero. Di questo era convinto Foucault che nel 1970,
ragionando intorno a due dei testi più importanti di Deleuze, Differenza e ripetizione (1968) e Logica del senso (1969), componeva il Theatrum philosphicum di un grande e paziente «genealogista nietzschiano».
È piuttosto chiaro che quanto si augurava Foucault sul secolo
deleuziano non sia immediatamente accaduto, per le refrattarietà
e diffidenze spesso mostrate dalla filosofia accademica, in
particolare italiana, che invece di approfittare di quella
«perversione del buon senso» inaugurata da Deleuze ha preferito in
molti casi adoperarne la lezione come un quadro eccentrico
e difficilmente sistemabile. Ciò detto, è altrettanto vero che
oggi, a venti anni dalla sua morte, la lettura e la rilettura di ciò
che hanno significato, politicamente e filosoficamente, opere
come L’anti-Edipo (1972), Mille piani (1980) nel
sodalizio con Félix Guattari, i contributi disseminati
e inaggirabili al pensiero di Spinoza, Leibniz, Kant, Nietzsche,
Freud, Bergson, tra gli altri, corrispondono a una pratica da
coltivare ancora con convinzione e generosità. E non solo per quel
che ebbe a dire di se stesso Gilles Deleuze, rispondendo a Foucault,
definendosi il più innocente e il meno colpevole per il fatto di
fare filosofia, ma perché lo spazio frequentato è stato della
massima ampiezza. Dalla scienza al cinema e la letteratura, dalla
psicoanalisi all’arte, la dirompenza di Deleuze, sia insieme che
senza Guattari, ha condotto a un ripensamento e a un’invenzione di
alcune categorie critiche, un taglio nella storia delle idee.
La molteplicità sovversiva negli anni feroci e vitali dei
movimenti, lo schizo e la macchina desiderante, e ancora il
divenire stesso di «corpi senza organi», si puntellano di
deterritorializzazioni e paradossi — come la serie dei famosi
trentaquattro contenuti in Logica del senso — guardano allo
scardinamento stesso della dialettica per assumere nuove coppie
concettuali, radicali forme di rovesciamento simultaneo del senso
comune. Che nel 1991, sempre insieme all’amico Guattari, Deleuze
scriva Che cos’è la filosofia? non è un caso. La filosofia
infatti, come del resto si evince dal progetto poco precedente
dell’Abecedario, è «l’arte di formare, di inventare, di fabbricare
concetti. Ma non bastava che la risposta si limitasse ad accogliere
la domanda; era necessario anche che essa stabilisse un’ora,
un’occasione, le circostanze, i paesaggi e i personaggi, le
condizioni e le incognite della questione». Sembra forse un po’
stravagante porsi un quesito simile dopo anni di pratica
filosofica ma, come gli stessi autori sostengono nell’introduzione al
volume, è una domanda che insieme a molte altre può essere pensata
solo quando la vecchiaia dona non un’eterna giovinezza ma al
contrario «una libertà sovrana», quando cioè si manifesta lo stato
di grazia tra la vita e la morte.
Forse è anche questo il concetto di «penultimo» di cui parla
Ginevra Bompiani nella splendida introduzione a un testo di Deleuze
da lei stessa tradotto e appena pubblicato per Nottetempo. Il
titolo è eloquente: L’Épuisé (Minuit, 1992), ovvero L’esausto
(pp. 98, euro 7) in cui l’occasione di accompagnare quattro pièces
scritte e dirette da Samuel Beckett per la televisione tra il 1975
e il 1982, offre una riflessione più ampia sull’esaurimento del
possibile.
Le posture beckettiane – riprese anche nella postfazione firmata
da Giorgio Agamben — sono infatti i modi in cui tempo e spazio si
creano, si contraggono e si erodono. Così «Lo stanco non può più
realizzare, ma l’esausto non può più possibilizzare». La figura
dell’esausto è una ulteriore trama, affettiva e di significati,
consegnata ai personaggi concettuali di Beckett, gli stessi a cui
si attribuisce già ne L’anti-Edipo un’andatura simile a una
minuziosa macchina, quando perimetrano e disgiungono gli
avvenimenti che capitano loro: «tutto si divide, ma in se stesso».
Il buco che intendeva operare Beckett nel linguaggio, sia da
scrittore che da regista, è qualcosa che Deleuze tiene presente per
scrivere di Quad, Ghost Trio, …but the clouds… e Night and dreams. Tenore e attenzione consegnati anche alla raccolta di scritti Critica e clinica
(1993) sulla letteratura e la scrittura in cui Beckett detiene
ancora un posto privilegiato. Eppure è nell’esausto, in questa forma
in cui ad esaurirsi non sono solo le forze ma il possibile, che si
attraversa la penultima sovversione, quella per cui le idee, le
cose, le immagini, non smettono di estenuarsi. Per arrivare ai
corpi, alla chiusura di ogni immaginazione del possibile che è la
propria morte. Si è stati stanchi di qualcosa, oggi invece, direbbe
Deleuze, è il presente a raccontarci che si è esausti di niente.
Come durante una notte insonne, quando «le due mani e la testa fanno un
mucchietto» per dire che forse non va bene eppure si resta così,
insopportabilmente seduti «a spiare il colpo che ci raddrizzerà
per l’ultima volta e ci stenderà per sempre».
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