E assimila saltafossi, dissidenti e collaborazionisti di tutte le risme. In prima fila, Agnes Heller [SGA].
La strategia. Le scelte possibili sul fronte internodi Christian Rocca Il Sole 17.11.15
Nessuno, figuriamoci io, sa come affrontare il nuovo mondo uscito dall’ennesima strage islamista di Parigi. Non so se avete notato come le risposte di politici, intellettuali ed editorialisti siano unanimi nel condannare l’ideologia di morte dei terroristi islamici, nel sottolineare l’attacco alle libertà e alla tolleranza occidentale di cui Parigi è simbolo e nel promettere che la risposta dovrà essere adeguata, spietata, senza precedenti. Ma nessuno ha proposto nulla di concreto. Nessuno sa che cosa fare. Un piano di azione, purtroppo, non si vede. I populisti in campagna elettorale perenne, anche davanti a tragedie come questa, urlano di rispondere alla guerra con la guerra, ma in realtà nemmeno loro sanno che cosa fare: dove mandi le truppe, chi bombardi, con chi te la prendi?
Ma ora c’è una maggiore consapevolezza. Il direttore di questo giornale, Roberto Napoletano, ha scritto che bisogna “combattere uniti per difendere la civiltà”. Un intellettuale come Claudio Magris ha spiegato che si è aperta la Quarta guerra mondiale (la Terza è quella Fredda), e poco importa se quando lo scrisse Norman Podhoretz nel 2004, cioè undici anni fa, fu preso per un fanatico guerrafondaio. Questo per dire che la guerra è stata dichiarata molti anni fa, ben prima dell’11 settembre 2001 o del 13 novembre 2015, e che la brutalità senza senso manifestata dallo Stato Islamico – le stragi, le decapitazioni, le impiccagioni, la schiavitù, gli stupri, la distruzione del patrimonio artistico – ha reso la minaccia al nostro modo di vivere più difficile da minimizzare e ha anche limitato la solita grottesca ricerca occidentale delle cause di questa manifestazione d’odio e delle nostre presunte colpe.
La cosa più sconcertante è che dopo 14 anni dall’11 settembre, anzi dopo 14 secoli da Maometto, non si sia ancora capito, o non si voglia accettare, che l’Islam non è soltanto una religione spirituale come le altre, ma per una parte consistente dell’élite musulmana anche un sistema politico, una forma di governo e una dottrina totalitaria. Chi si fa saltare in aria e uccide come animali gli “infedeli”, compresi i correligionari musulmani che i terroristi considerano apostati e quindi meritevoli di morte, è una porzione piccolissima del mondo islamico. Ma l’islamismo politico che li permea, li provoca e li accende è un’ideologia maggioritaria, diffusa e anche al governo, nelle sue diverse varianti, nei paesi leader del mondo islamico: l’Arabia Saudita e l’Iran.
Da quasi quarant’anni il terrorismo islamico di varia natura è figlio delle politiche, delle influenze, dei finanziamenti dell’Arabia Saudita wahabita e dell’Iran degli Ayatollah. Due Paesi e due visioni dell’Islam diverse ma impegnati entrambi a radicalizzare lo scontro intra-islamico per continuare la guerra intestina che seguì lo scisma sciita di Alì qualche anno dopo la morte di Maometto. Uno scisma che, ancora una volta, fu sia teologico sia temporale. Di nuovo c’è che da qualche anno si è aperto pure un fronte intra-sunnita per la leadership nel mondo arabo-musulmano, con nuovi attori come il Qatar e la Turchia a far concorrenza all’Arabia Saudita. L’Isis è un problema piccolo, residuale.
La triste verità è che, giusta o sbagliata, l’unica strategia che il mondo occidentale è riuscito ad elaborare contro l’ideologia dell’odio islamista è quella, poi fallita, di George W. Bush e di Tony Blair dopo l’11 settembre del 2001: liberiamo i Paesi mediorientali dai loro despoti, cambiamo i regimi dittatoriali, apriamo le società e soltanto così i popoli oppressi potranno immaginare e costruire un futuro libero e democratico. Al netto degli errori nella realizzazione del piano, e dell’impossibilità di sostenere uno sforzo così grande nel lungo periodo, i leader occidentali post 11 settembre non avevano tenuto conto del fattore religioso: in Medio Oriente, l’Islam è un’ideologia incommensurabilmente più forte e radicata dell’Illuminismo. L’Illuminismo è un sistema di pensiero estraneo in quella parte di mondo. Quelli che noi consideriamo principi universali, come i diritti dell’uomo, non sono affatto universali. Sono semplicemente occidentali.
Da allora le si è tentate tutte. Non ha funzionato la rimozione dei regimi dittatoriali né il tentativo di nation building in Afghanistan e in Iraq, organizzati da Bush, Blair e gran parte delle nazioni europee con l’eccezione di Francia e Germania. Ma non ha funzionato nemmeno il disimpegno obamiano, né l’intervento dall’alto e senza truppe sul terreno per cambiare il regime libico di Gheddafi, voluto da Francia e Germania, oltre che da Obama. Non ha funzionato non fare nulla, non intervenire per niente contro le stragi del dittatore siriano Bashar Assad, e lo vediamo proprio in questi giorni.
Obama sta cercando di coinvolgere l’Iran, con il patto sul nucleare e sulla Siria, ma il risultato è di aver accelerato gli sforzi pro Isis dei sunniti e, come da recente intervista ad Haaretz di uno dei principali leader sauditi, anche la corsa all'atomica dei paesi arabi.
Siamo out of options, non sappiamo più che cosa fare e non sono di aiuto le parole apparentemente di buon senso di Quinn, un personaggio della serie tv Homeland: «Quale strategia? Mi dica qual è la strategia, e le dirò se funziona. Questo è il problema. Perché loro ce l’hanno una strategia: si stanno riunendo a Raqqa a decine di migliaia, si nascondono tra i civili, puliscono le armi, e sanno benissimo perché sono lì. La chiamano la fine dei tempi. A cosa pensate che servano le decapitazioni? Le crocifissioni? La schiavitù? Pensate che si siano inventati questa merda? È tutto nel libro. L’unico libro che hanno mai letto. Lo leggono tutto il tempo, non si fermeranno mai. Sono là per un'unica ragione: morire per il Califfato e creare un mondo senza infedeli. Questa è la loro strategia, è così dal VII secolo. Pensate che poche forze speciali possano scalfirli? Servono duecentomila soldati americani e dovranno restare per sempre sul terreno in modo da garantire sicurezza e sostegno a un eguale numero di dottori e maestri di scuola. Oppure premere il tasto reset e ridurre Raqqa a un parcheggio».
Siamo occidentali, siamo i buoni, non abbiamo forza e convinzione per invadere e occupare i territori dello Stato Islamico a tempo indeterminato e da circa 70 anni non radiamo al suolo le città nemiche. Di nuovo, nessuno sa che cosa fare.
Qualcosa è possibile sul fronte interno, forse. Decuplicare fondi, uomini e mezzi per l’intelligence, fregandosene del Patto di Stabilità. Chi se la prende con gli immigrati, e peggio ancora con chi scappa dall’inferno siriano di Assad e dell’Isis, è ridicolo, disumano e fa finta di non sapere che non serve a niente. Semmai andrebbero chiuse le moschee dove si professa la cultura dell’odio, magari commissariare tutte le altre e metterle assieme a quartieri come Molenbeek sotto il controllo rispettoso ma attento delle forze dell’ordine – del resto mandiamo un prefetto a Roma a sospendere la democrazia per storielle di mazzette, di favori e di assunzioni, potremo ben farlo anche per evitare che sotto casa si inciti alla guerra santa. La prevenzione e l’intelligence, anche invasive, sono la nostra prima e ultima difesa, e personaggi come Snowden e Assange, consapevoli o no, hanno contribuito a indebolirla. Il giurista Philip Bobbitt, nel libro Terror and Consent del 2008, ha spiegato che i metodi antiterrorismo non dovrebbero essere misurati soltanto rispetto alle libertà che queste pratiche potrebbero limitare, ma anche rispetto alle libertà che potrebbero proteggere.
di Lucio Caracciolo Repubblica 17.11.15
IN QUESTA battaglia la vittoria non dipende dai carnefici ma dalle vittime. I terroristi non possono vincere. Non hanno i mezzi per sopraffarci, per governarci. La bandiera nera non sventolerà in Piazza San Pietro né in nessuna capitale occidentale. Il nostro destino dipende da noi. I terroristi suicidi vogliono spingerci al suicidio civile e politico, alla “guerra santa”.
SE CI FAREMO ipnotizzare dal nemico non perderemo solo la guerra. Molto peggio: perderemo noi stessi, ovvero quel che resta delle nostre libertà. Se invece sapremo leggere la cifra di questa sfida e reggere nel tempo agli attacchi con cui i jihadisti cercheranno di convertirci alla loro barbarie, finiremo per averne ragione.
Conviene perciò chiedersi chi siano e quali progetti abbiano i nostri nemici.
I jihadisti sono umani. Certo, usano tecniche disumane. Molti (non tutti) paiono ubriachi di fanatismo. Ma non sono insensibili alla fama, al denaro e al potere. Si occupano anzi di accumularne. In attesa di farsi trovare dalla parte giusta allo scoccare dell’Apocalisse. L’ideologia da fine del mondo è un formidabile magnete, capace di attrarre non solo islamisti radicali emarginati nelle nostre periferie estreme, ma anche figli della buona borghesia europea in cerca di avventura. Persino atei, cristiani, ebrei. A ricordarci quanto fragili e sempre revocabili siano le fondamenta della nostra civiltà.
Sarebbe ingenuo scambiare la propaganda di Abu Bakr al-Baghdadi per strategia. Il califfato universale è un riferimento metapolitico evocato a fini seduttivi da chi sa di non poterlo avvicinare.
L’obiettivo dello Stato Islamico non è la conquista di Roma, di Parigi o di Washington. È anzitutto di radicarsi nel territorio a cavallo dell’ormai inesistente frontiera fra due Stati defunti — Siria ed Iraq — espellendone o liquidandone le minoranze refrattarie al proprio dominio. A cominciare dagli arcinemici: i musulmani sciiti. Da questo Stato in fieri e grazie al suo marchio vincente il “califfato” mira ad espandere la propria influenza nel mondo sunnita.
Nel loro territorio i jihadisti di al-Baghdadi si dedicano a gestire traffici d’ogni genere — dagli idrocarburi ai reperti archeologici, dalle armi alle droghe e agli esseri umani — i cui mercati di sbocco sono tutti in Occidente. Quando ci interroghiamo sui loro finanziatori, alla lunga lista di entità islamiste e petromonarchie sunnite dobbiamo aggiungere noi stessi.
Di qui alcune conseguenze operative per evitare di suicidarci in questo scontro di lungo periodo, che ci impone pazienza, freddezza, capacità di assorbire attacchi e provocazioni.
Primo. Sgombrare il campo dalla retorica militarista. Possiamo e dobbiamo infliggere allo Stato Islamico qualche serio colpo che ne limiti l’aura d’invincibilità. Ma non abbiamo mezzi, uomini e volontà per ingaggiare una grande guerra “stivali per terra” nei deserti mesopotamici. Fra l’altro, è proprio quanto il “califfo” vorrebbe facessimo, certo di sconfiggerci sul terreno di casa, o almeno di conquistarsi un martirio che scatenerebbe per generazioni schiere di seguaci disposti a seguirne l’esempio.
Secondo. Definire il campo degli amici e dei nemici. Il nemico è chiaro: il jihadismo in generale e lo Stato Islamico, sua attuale epifania di successo, in particolare. Il nemico del nemico è altrettanto palese: l’islam sciita, ovvero l’Iran e i suoi alleati a Baghdad, Damasco e Beirut, e in prospettiva gli stessi regimi sunniti, Arabia Saudita in testa, che hanno alimentato i seguaci del “califfo”. Meno definito il quadro occidentale. Alcuni di noi — americani e britannici su tutti — hanno flirtato col jihadismo. Spesso lo hanno armato e finanziato per provvisori fini propri, salvo poi perdere il controllo del mostro che avevano contribuito a nutrire. Le priorità sono dunque due: ricompattare gli atlantici e comunicare ai sauditi e alle altre cleptocrazie del Golfo che il tempo del doppio gioco è scaduto. In questa battaglia non c’è posto per un “mondo di mezzo”, che con una mano istiga con l’altra ostenta di reprimere l’idra jihadista. Infine, è ovvio che su questo scacchiere russi e iraniani sono risorse, non avversari. Fare la guerra fredda a Putin e la guerra calda al “califfo”, insieme trattando i persiani da appestati, è poco intelligente.
Terzo. Serrare le file fra tutti gli alleati sul fronte dell’intelligence e delle polizie. Siamo lontani da un’effettiva cooperazione. Un esempio per tutti. Il giorno prima della catena di attentati a Parigi i carabinieri del Ros, insieme alle polizie britannica, norvegese, finlandese, tedesca e svizzera, avevano messo le mani su una rete di sedici jihadisti curdi e un kosovaro, dopo un’indagine di cinque anni condotta soprattutto sulla Rete (“Operazione Jweb”). A coordinare i terroristi era il famigerato mullah Krekar. Non da chissà quale anfratto mediorientale, ma dal suo carcere norvegese. Appartamento di tre stanze e servizi, dal quale — grazie ai laschi standard norvegesi — era in costante contatto in codice via Internet con i suoi diciassette apostoli, e chissà quanti altri. Finché i partner europei e atlantici continueranno a muoversi ciascuno per suo conto e con i suoi metodi, sarà arduo prevenire gli attacchi terroristici.
Quarto, ma non ultimo per rilievo. Resistere alle tentazioni razziste, rilanciate da media in cerca di visibilità. Le equazioni arabo musulmano=terrorista e (peggio) rifugiato=jihadista oltre che false sono pericolose. Manna per la propaganda “califfale”. E conferma che sul decisivo fronte della comunicazione spesso siamo i peggiori nemici di noi stessi.
risponde Sergio Romano Corriere 17.11.15
Dopo i fatti di Parigi, ho ascoltato con sorpresa in tv un commentatore affermare che l’opzione bellica va respinta e ricercata una soluzione politica, che non ho capito quale possa essere, a meno che non intendesse dire di offrire all’Isis la possibilità di un resa onorevole con la contestuale cessazione dell’azione terroristica. Mi sembra però improbabile che l’Isis accetti, considerato il disprezzo della vita altrui, ma anche della propria, e l’idea del sacrificio estremo, per rendersi graditi ad Allah. È difficile per noi occidentali comprendere la mentalità di gente animata dal fanatismo religioso. Non sarebbe possibile neanche iniziare una qualunque forma di dialogo. Quale altra soluzione politica è possibile allora con l’Isis, se non il riconoscimento di fatto del Califfato islamico, delle città e dei territori conquistati a danno di Iraq e Siria, condannando quegli Stati alla cancellazione o alla perpetua minaccia della sopraffazione?
Alberto VoltaggioCaro Voltaggio,
Forse il commentatore ascoltato alla televisione pensava alle guerre d’altri tempi, quando gli ambasciatori chiedevano udienza per consegnare al ministro degli Esteri di uno Stato la formale dichiarazione con cui si annunciava che le operazioni militari sarebbero cominciate a un’ora prefissata del giorno seguente. Questa prassi cominciò a traballare quando il Giappone, con qualche buona ragione, troncò un inutile negoziato e iniziò le operazioni militari contro la Russia l’8 febbraio 1904; e aveva già subito altri colpi quando i giapponesi bombardarono Pearl Harbor il 7 dicembre 1941. La guerra dell’Isis è cominciata quando lo Stato Islamico occupò Mosul nel giugno 2014 e si è progressivamente allargata sino alla nascita, negli scorsi mesi, di una grande coalizione guidata dagli Stati Uniti.
Questa guerra è diversa da altri conflitti del passato perché è asimmetrica, vale a dire combattuta dai due campi con armi diverse: i droni, i missili e i bombardieri in quello degli occidentali, il kalashnikov, il giubbotto esplosivo, il coltello di Jihadi John e altri strumenti di tortura fisica e psicologica in quello degli islamisti. Collocati in questa prospettiva, anche gli attacchi terroristici del 13 novembre sono una battaglia. Sul terreno, in Siria e in Iraq, l’Isis sta incassando colpi sempre più duri e potrebbe perdere nelle prossime settimane sia Mosul in Iraq, sia Raqqa (la sua capitale) in Siria. L’obiettivo strategico dell’operazione di Parigi mi sembra evidente: trasportare la battaglia sul fronte interno del nemico. La Francia ha una popolazione musulmana che corrisponde probabilmente al 7/8% della popolazione. Se gli attentati faranno lievitare i controlli di polizia e i sentimenti di diffidenza della società francese per la comunità islamica, sarà tanto più facile per l’Isis installare le sue quinte colonne in Francia e fare incetta di foreign fighters.
Per far fronte a questa minaccia occorre rafforzare le misure di sicurezza, ma soprattutto debellare l’Isis sul terreno. Se l’organizzazione, per esistere, ha bisogno di un territorio, occorre combatterla là dove è riuscita a installarsi con le proprie istituzioni e le proprie forze armate. Se questo non è ancora accaduto, la responsabilità è di coloro che si oppongono alla nascita di un fronte comune in cui tutti i nemici dell’Isis, dal presidente siriano al presidente russo, possano fare la loro parte.
di Manlio Dinucci il manifesto 17.11.15
Bandiere a mezz’asta nei paesi Nato per «l’11 Settembre della Francia», mentre il presidente Obama annunciata ai media: «Vi forniremo accurate informazioni su chi è responsabile». Non c’è bisogno di aspettare, è già chiaro. L’ennesima strage di innocenti è stata provocata dalla serie di bombe a frammentazione geopolitica, fatte esplodere secondo una precisa strategia. Quella attuata da quando gli Usa, vinto il confronto con l’Urss, si sono autonominati «il solo Stato con una forza, una portata e un’influenza in ogni dimensione — politica, economica e militare — realmente globali», proponendosi di «impedire che qualsiasi potenza ostile domini una regione – l’Europa occidentale, l’Asia orientale, il territorio dell’ex Unione sovietica e l’Asia sud-occidentale – le cui risorse sarebbero sufficienti a generare una potenza globale».
A tal fine gli Usa hanno riorientato dal 1991 la propria strategia e, accordandosi con le potenze europee, quella della Nato. Da allora sono stati frammentati o demoliti con la guerra (aperta e coperta), uno dopo l’altro, gli stati ritenuti di ostacolo al piano di dominio globale – Iraq, Jugoslavia, Afghanistan, Libia, Siria, Ucraina e altri – mentre altri ancora (tra cui l’Iran) sono nel mirino.
Queste guerre, che hanno mietuto milioni di vittime, hanno disgregato intere società, creando una enorme massa di disperati, la cui frustrazione e ribellione sfociano da un lato in reale resistenza, ma dall’altro vengono sfruttate dalla Cia e altri servizi segreti (compresi quelli francesi) per irretire combattenti in una «jihad» di fatto funzionale alla strategia Usa/Nato.
Si è così formata una armata ombra, costituita da gruppi islamici (spesso concorrenti) impiegati per minare dall’interno lo Stato libico mentre la Nato lo attaccava, quindi per una analoga operazione in Siria e Iraq.
Da questa è nato l’Isis, nel quale sono confluiti «foreign fighter» tra cui agenti di servizi segreti, che ha ricevuto miliardi di dollari e moderne armi dall’Arabia saudita e da altre monarchie arabe, alleate degli Usa e in particolare della Francia.
Strategia non nuova: oltre 35 anni fa, per far cadere l’Urss nella «trappola afghana», furono reclutati tramite la Cia decine di migliaia di mujaheddin da oltre 40 paesi. Tra questi il ricco saudita Osama bin Laden, giunto in Afghanistan con 4 mila uomini, lo stesso che dopo avrebbe fondato Al Qaeda divenendo «nemico numero uno» degli Usa.
Washington non è l’apprendista stregone incapace di controllare le forze messe in moto. È il centro motore di una strategia che, demolendo interi Stati, provoca una caotica reazione a catena di divisioni e conflitti da utilizzare secondo l’antico metodo del «divide et impera».
L’attacco terroristico di Parigi, eseguito da una manovalanza convinta di colpire l’odiato Occidente, è avvenuto con perfetto tempismo nel momento in cui la Russia, intervenendo militarmente, ha bloccato il piano Usa/Nato di demolire lo Stato siriano e ha annunciato contromisure militari alla crescente espansione della Nato ad Est. L’attacco terroristico, creando in Europa un clima da stato di assedio, «giustifica» un accelerato potenziamento militare dei paesi europei della Nato, compreso l’aumento della loro spesa militare richiesto dagli Usa, e apre la strada ad altre guerre sotto comando Usa.
La Francia che finora aveva condotto «contro l’Isis in Siria solo attacchi sporadici», scrive il New York Times, ha effettuato domenica notte «come rappresaglia, il più aggressivo attacco aereo contro la città siriana di Raqqa, colpendo obiettivi Isis indicati dagli Stati uniti». Tra questi, specificano funzionari Usa, «alcune cliniche e un museo».
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