sabato 28 novembre 2015

Tradotta "La guerra d'aggressione" di Carl Schmitt. Crisi del nomos e universalismo rivoluzionario


Sbaglia chi vuole identificare meccanicamente la situazione di quel momento a quella attuale, utilizzando Schmitt ad un tempo per criticare il "mondialismo" e per difendere la Germania nazista in nome della storicità dei popoli europei. La guerra appena conclusa e la saldatura di una comunità internazionale reale legittimavano il processo di Norimberga. Entrambe queste cose oggi mancano ed è perciò palese il fatto che ogni invocazione di universalità cela in realtà il particolarismo occidentalista (cosa che a Schmitt non sarebbe neppure dispiaciuta) [SGA].

Carl Schmitt:  La guerra d'aggressione come crimine internazionale, Il Mulino

Risvolto
Nel 1945 nella desolata Berlino postbellica, mentre i giuristi delle Forze alleate discutono sulle norme fondamentali dei processi contro i crimini di guerra, Schmitt redige un lungo parere giuridico sulla punibilità dei responsabili della guerra d'aggressione, affermando che non esistono precedenti per considerarla un crimine. E anche se le guerre di aggressione fossero state trattate come un crimine, gli industriali che avevano contribuito ad armare il Reich non avrebbero potuto essere incriminati, vista l'enorme pressione a cui erano sottoposti nel regime nazista.



Stefano Pietropaoli juragentium 

Non si può processare la guerra tedesca 
Dalla difesa di un industriale a Norimberga alle riflessioni contro il mondo globalizzato 

Massimiliano Panarari Stampa 28 11 2015
Nella devastata (e liberata) Berlino della fine della guerra, Carl Schmitt (1888-1985) riteneva di essersi sottratto al rischio di imputazioni spostando il proprio campo di studio verso la politica internazionale e «mondando» la sua elaborazione dal suprematismo della «comunità di sangue» del «popolo» quale fondamento dell’ordinamento. Nell’estate del 1945, decise di dedicarsi alla stesura di un ben remunerato Parere richiestogli dai legali di un big (tra siderurgia e carbone) dell’industria germanica, Friedrich Flick, preoccupato di un’eventuale incriminazione per complicità nella guerra d’aggressione. Un lavoro alla fine inutile perché il magnate venne condannato, in un ramo secondario del processo di Norimberga, e per crimini contro l’umanità. Il 26 settembre del ’45 sarà poi lo stesso Schmitt a venire arrestato e internato per quasi un anno (nel corso del quale, guidato dalla «sapienza della cella», stilerà clandestinamente gran parte del famoso Ex captivitate salus). Il parere legale, a metà tra il documento difensivo e la dissertazione accademica, aveva circolato solo in fotocopie fino alla pubblicazione nel ’94; e ora viene tradotto da noi col titolo La guerra d’aggressione come crimine internazionale (a cura di Carlo Galli).Sullo sfondo del tema cardine della fine dello jus publicum europaeum, Schmitt riadattava alcune delle sue intuizioni sul mutamento integrale della natura della guerra all’obiettivo puntuale della tutela del committente stemperandone maliziosamente la radicalità. Lungi dall’ammettere il carattere epocale di cesura della seconda guerra mondiale – come appunto aveva (e, ancor più, avrebbe) evidenziato nella sua produzione scientifica, tra la dottrina dei Grandi Spazi post-statuali e la violentissima polemica (ovviamente omessa in questa sede) contro la filosofia politica individualistica anglosassone che, a suo dire, ammantava con l’universalismo liberale la politica (e volontà) di potenza di Imperi “marittimi” e «deterritorializzati» – puntava a normalizzarla quanto più possibile. Il conflitto mondiale, allora, come una “qualsiasi” guerra moderna, da considerare un affare di Stato e, quindi, un atto di sovranità che rientrava nella sua totale responsabilità. Scagionando in tal modo il cittadino «normale» Flick (che così ordinario chiaramente non lo era, anche se Schmitt lo indicava in maniera pelosa quale «ordinary businessman economicamente attivo»), tenuto, come chiunque altro, ad obbedire al potere legale, mentre semmai andavano esclusivamente puniti gli «eccessi» di violenza di SS e Gestapo. Così argomentando, il sempre strumentale e coltissimo Schmitt si smentisce, fingendo che l’ordine moderno del diritto pubblico europeo (continentale) sia ancora in essere, ribadendo il principio «nullum crimen, nulla poena sine lege», e abbracciando quel positivismo giuridico funzionalistico che aveva tanto criticato negli anni dell’adesione all’hitlerismo. Dunque, la guerra (anche d’aggressione) non poteva essere processata, e in questo Schmitt, come sempre, si collocava agli antipodi del detestato grande avversario Hans Kelsen, teorico di un sistema giuridico universale.
Nella tipica doppiezza (e bassezza morale) del suo autore, «terribile giurista» lugubre e geniale, un volume di notevole interesse nella sua pars destruens per la capacità disincantata di analizzare l’avvento post-westfaliano dell’età globale e quel processo di giuridificazione della politica in cui siamo immersi da allora. E Adelphi (l’editore che ha sdoganato nel dibattito italiano il pensiero negativo e la grande cultura reazionaria del ’900) manda adesso in libreria Stato, grande spazio, nomos (a cura di Giovanni Gurisatti, pp. 527,€ 60), una summa antologica che raccoglie mezzo secolo – da Il concetto del politico del 1927 a La rivoluzione legale mondiale del ’78 – di riflessione schmittiana sul diritto e le relazioni internazionali, un vertice ante litteram di (per così dire...) pensiero antiglobalizzazione. 

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