giovedì 19 novembre 2015

Tradotta "L'esegesi" di Philip K. Dick

Philip K. Dick:  L'esegesi, a cura di Jonathan Lethem e Pamela Jackson (Fanucci, pagg.1132, euro 50).

Risvolto
L’esegesi di Philip K. Dick è l’ultimo lavoro di un autore che ha dedicato la vita a mettere in discussione la natura della realtà e la sua percezione, la malleabilità dello spazio e del tempo, il rapporto tra l’umano e il divino. 

Nel 1974, già noto ai lettori per opere come La svastica sul sole, Ubik e Ma gli androidi sognano pecore elettriche?, Philip K. Dick inizia a vivere intense e laceranti esperienze trascendentali. Da quel momento lo scrittore produce più di ottomila pagine di appunti, scritte sia a macchina che a mano. Lo scopo è quello di documentare il suo tentativo di comprendere quello che lui chiama “2-3-74”, un’esperienza visionaria dell’intero universo “trasformato in dati”. Tra confessioni intime, sapere esoterico, resoconti onirici e fughe romanzesche, Dick descrive il suo cammino verso il centro di un mistero cosmico che mette alla prova la sua forza d’immaginazione e la sua creatività fino al limite estremo.

ESEGESI TEOFORICA

uniurb.it


Arriva in Italia "L'esegesi", ultimo capolavoro di un autore che ha dedicato la vita a mettere in discussione la realtà. Un testo ironico, smisurato e profondissimo 

Gian Paolo Serino il Giornale - Gio, 19/11/2015


Quando Dick vedeva cose che noi umani... 
Esce il “diario” dell’autore di “Blade Runner” Tra visioni mistiche e ironia

NICOLA LAGIOIA Repubblica 26 11 2015

«Bisogna superare la falsa idea che un’allucinazione sia una faccenda privata». Il 20 febbraio del 1974, lo scrittore Philip K. Dick, dopo quattro matrimoni falliti, la pubblicazione di una trentina di opere che lo consacreranno presto come un maestro della letteratura nordamericana, e un consumo di droghe non quantificabile, si recò in un centro odontoiatrico per farsi estrarre due denti del giudizio. Qualcosa non funzionò con l’anestesia a base di sodio penthotal che il dentista gli aveva
praticato, perché già nel pomeriggio Dick era in preda a dolori lancinanti. Così Tessa (la quinta moglie) telefonò al dentista per un analgesico. Poco più tardi, giunse l’addetto alle consegne della farmacia. Andò ad aprire lo scrittore. L’addetto era una ragazza bruna che portava al collo una catenina d’oro con un ciondolo raffigurante un pesce. Alla domanda su cosa rappresentasse quel pesce, la ragazza rispose che era un simbolo usato dalle prime comunità cristiane. Proprio in quel momento, Dick vide partire dal ciondolo un raggio di luce che lo investì provocandogli ciò che in omaggio alla filosofia platonica chiamerà anamnesi, vale a dire la rievocazione di tutta la summa del sapere: «ricordai chi ero e dove mi trovavo. In un batter d’occhio, in un istante, tutto ritornò in me». Dick ebbe insomma una visione mistica. Il velo dell’apparenza gli sembrò caduto e con esso l’ostacolo che ci impedisce di vedere il mondo per come è davvero. Un’esperienza al di là del linguaggio, che da bravo scrittore si ripropose di trascinare subito da quest’altra parte, in modo da renderla comunicabile. Si dedicò all’impresa negli otto anni che gli restavano da vivere, a colpi di narrativa (la trilogia di Valis affronta proprio questi temi), nonché attraverso l’insonne, forsennata, maniacale scrittura di uno zibaldone che arrivò a toccare le 8.000 pagine, una raccolta di considerazioni, teorie, aforismi, missive con cui Dick cercò di spiegare e di spiegarsi cosa gli era successo, e che chiamò significativamente L’Esegesi.
Rimesso in ordine da Pamela Jackson e Jonathan Lethem, il testo è stato appena pubblicato in Italia da Fanucci con la traduzione di Maurizio Nati.
2- 3- 74: così Dick battezzò i sorprendenti eventi da cui si sentì invaso per tutto il febbraio e il marzo di quell’anno. Una notte, fu tempestato dalla visione di migliaia «di disegni astratti in forma perfetta» che potevano ricordare Kandinskij. Sentì voci inquietanti provenire dalla radio. Una forma di energia “plasmatica” color rosa lo informò che suo figlio Chris correva un pericolo mortale. Dick portò il piccolo dal medico, e sorprendentemente a Chris fu diagnosticata un’ernia inguinale da operare all’istante.
Poiché siamo nel 1974 (la paranoia regnava sovrana, il 7 aprile uscì La conversazione di Coppola, ad agosto Nixon si sarebbe dimesso) e il luogo è la California post psichedelica rievocata di recente da Paul Thomas Anderson nel bellissimo film Vizio di forma tratto da Pynchon, non esisteva speculazione politica, religiosa o esistenziale sufficientemente strana da suonare inverosimile. Poteva così capitare che il giovane Art Spiegelman andasse a omaggiare lo scrittore del romanzo da cui verrà tratto Blade Runner, trovandosi davanti un uomo che studiava l’aramaico in un appartamento che sembrava «la versione peggiorata della casa di Philip Marlowe» e gli parlava di come la Terra fosse intrappolata in una «prigione di ferro nera» che impediva alla luce di Dio di arrivare fino a noi. Perché è questo il succo della rivelazione di Dick, su cui nell’Esegesi non fa che riflettere. L’umanità sarebbe una minuscola parte di un macro-organismo simile a un «sistema di intelligenza artificiale autoriparante», di cui noi rappresenteremmo disgraziatamente una sottosezione «caduta sotto il livello di trasferimento dei messaggi», una «bobina di memoria malfunzionante: addormentati, e in un quasi sogno, noi non siamo dove (e quando?) crediamo di essere».
Secondo Dick percepiremmo insomma a stento una realtà che – se solo si riuscisse a riparare il guasto di ricezione – ci libererebbe da un maligno giogo millenario, restituendoci all’originaria condizione di pace, felicità e concordia universale. Si tratta di una posizione che gioca di sponda con lo gnosticismo cristiano dell’antichità, per come almeno poteva rielaborarlo un geniale autodidatta che si documentava sull’Enciclopedia Britannica e immaginava che nell’America del XX secolo il Deus absconditus potesse annidarsi anche in una bomboletta spray. Siamo in pieno Matrix con decenni di anticipo, e sono gli argomenti di cui Dick parlò davanti allo sbigottito pubblico del festival di fantascienza di Metz nel 1977, quando affermò che i suoi romanzi erano in un certo senso “veri”. Ma ne L’Esegesi c’è molto più di quanto potrebbe mostrarvi un film sulla “matrice” che durasse due giorni anziché due ore. Leggendolo, potrete pensare che il suo autore sia un fanatico a cui le droghe hanno fatto brutti scherzi, ma è lui per primo a farsi venire il dubbio («non vorrei fosse un flashback da acido») e gioca di continuo a confutarsi con un’autoironia che nessun integralista avrebbe, fino a farsi addirittura venire la paranoia che la stessa
Esegesi sia un complotto psichico ordito a sua insaputa per allontanarlo dalla visione! Vi verrà in mente che siamo di fronte a una mente prodigiosa che usa religione e letteratura come schemi narrativi per cingere d’assedio i misteri della fisica contemporanea. Collegherete il furore mistico di Dick a quell’epilessia del lobo temporale di cui si dice soffrissero anche personaggi come Van Gogh e Teresa d’Avila. O forse, più serenamente, prenderete le pagine de L’Esegesi come un’occasione per trascorrere molte ore in una delle menti più straordinarie della letteratura dell’ultimo mezzo secolo, un viaggio in un labirinto le cui pareti ruotano di continuo su se stesse rendendo inutile qualunque filo di Arianna, cambiando il disegno complessivo ma non il messaggio di fondo: la certezza che un mondo migliore di quello in cui viviamo sia la nostra missione di specie.
Dick: “Dio m’ha illuminato con un pesciolino d’oro”La ricerca della verità come la freccia di Zenone  Ottomila pagine di appunti, intuizioni iniziatiche, sogni e romanzi: per raccontare il rapporto tra il disegno divino e la Terra degli umani
Jonathan Lethem Tuttolibri 5 12 2015
Il bello e l’imperituro pervengono all’esistenza grazie alla sofferenza delle singole persone deperibili che a loro volta non sono belle e devono essere rimodellate per creare lo stampo da cui il bello sia impresso (forgiato, estratto, trasformato). Questa è la tremenda legge dell’universo. Questa è la legge fondamentale; è un fatto. È anche un fatto che la sofferenza dell’animale individuale è così grande da stimolare un’estrema e assoluta ripugnanza e pietà in noi quando ci confrontiamo con essa. Questa è l’essenza della tragedia: la collisione di due assoluti. La sofferenza assoluta porta – è lo strumento per raggiungere – alla bellezza assoluta. Nessuno dei due assoluti dovrebbe essere subordinato all’altro. Ma le cose non stanno così: la sofferenza è subordinata al valore dell’arte prodotta. Così l’essenza dell’orrore è alla base della nostra comprensione della natura di fondo dell’universo».
Questo passaggio venne scritto dal romanziere americano Philip K. Dick nel 1980. Presa a sé, questa manciata di righe potrebbe sembrare estratta da un lucido ed elegante trattato sulla metafisica e l’ontologia: un’indagine, in altre parole, sul tema dell’essere e sugli scopi della coscienza, della sofferenza e dell’esistenza stessa. Questo particolare passaggio non suonerebbe a nessuno che abbia una preparazione in campo filosofico o teologico come particolarmente originale, a parte quell’intrigante sequenza di scivolamenti metaforici – impresso, forgiato, estratto, trasformato – e la fusione quasi subliminale dell’universo con un’opera d’arte.
Ciò che rende questo passaggio insolito è il contesto in cui esso emerge e gli altri scritti che lo circondano. Malgrado il tono fortemente conclusivo, esso rappresenta un singolo frammento d’idea che attraversa la notte in mezzo a molte migliaia nella vasta raccolta di resoconti delle sue stesse esperienze e illuminazioni visionarie, che Dick affidò alla carta fra il 1974 e il 1982. Gli argomenti – a parte la sofferenza, la pietà, la natura dell’universo e l’essenza della tragedia – includono alieni con tre occhi, robot creati dal DNA, antichi e dimenticati culti cristiani che nelle loro credenze di base anticipavano le profonde verità della dottrina marxista, il viaggio nel tempo, radio che continuano a trasmettere dopo essere state staccate dalla presa e la vera natura dell’universo come rivelata negli scritti dell’antico filosofo Parmenide, nel Libro tibetano dei morti, in Il crollo della mente bicamerale e l’origine della coscienza di Julian Jaynes e nel film di Robert Altman Tre donne.
La maggior parte di questi scritti, in altre parole, non sono né familiari, né del tutto lucidi né, in gran parte, eleganti... e nemmeno erano destinati, quasi tutti, alla pubblicazione. Perfino quando Dick, che era un autodidatta di prima categoria, riassume qualche banalità in fatto di speculazione filosofica o teologica, i suoi scritti filosofici e teologici rimangono senza paragone nella loro tumultuosa urgenza, nella loro verve metaforica, nel loro carisma di autosatira, e nella loro appartata intimità (così come nella loro furente ripetitività, cocciutaggine, insicurezza ed elusività). In altre parole sono senza paragone perché Philip K. Dick è Philip K. Dick, una delle menti più brillanti e singolari che si siano mai manifestate al XX secolo, anche prima che questo tesoro (perlopiù inedito) venisse alla luce.
Dick scelse di chiamare questi scritti la sua Esegesi. Il processo della sua produzione fu frenetico, ossessivo e, può essere giusto precisarlo, involontario. La creazione dell’Esegesi fu un atto di sopravvivenza umana di fronte a una crisi sia intellettuale che emozionale, che alterava la vita: la crisi della rivelazione. Per quanto refrattario possa essere a questa nozione antica e fuori moda, per accedere all’Esegesi da qualsiasi angolo un lettore deve per prima cosa accettare che il soggetto è la rivelazione, una rivelazione pervenuta alla persona di Philip K. Dick nel febbraio e marzo del 1974, e che di conseguenza richiese, per il resto della sua vita mortale, di essere capita. Le sue pagine rappresentano l’appassionato impegno di Dick di spiegare la visione dalla quale era stato premiato o maledetto: non per amore della sua stessa psiche, né per la causa della salvezza del genere umano, ma precisamente perché quelle due preoccupazioni gli apparivano come la stessa cosa.
Alla fine il tentativo giunse a riempire oltre ottomila fogli di carta, per la maggior parte manoscritti. Dick scriveva spesso nelle ore notturne, elaborando un’idea fino a un centinaio di pagine nel corso di una o più notti insonni. Queste imprese di scrittura sovrumana sono straordinarie e sedussero anche uno scrittore grafomane di prim’ordine come Dick, che una volta aveva scritto sette romanzi in un solo anno. I temi fondamentali dell’Esegesi non costituiscono una sorpresa. Il corpus delle opere che segnarono la fama di Dick – la quarantina di romanzi realistici e surrealistici scritti fra il 1952 e il 1982, anno della sua morte – propone domande come «Che significa essere umano?» e «Qual è la natura dell’universo?» Questi temi metafisici, etici e ontologici intrappolano la sua opera, fin dall’inizio con i suoi drammi familiari, le avventure fantascientifiche e la vena umoristica, in un’atmosfera di indagine filosofica.
Col tempo Dick giunse a vedere i suoi scritti giovanili – soprattutto i romanzi di fantascienza degli anni Sessanta – come complessi e inconsapevoli antesignani delle sue illuminazioni visionarie. Così cominciò a usarli, alla stregua di qualsiasi testo antico o dell’Enciclopedia Britannica, come fonte per le sue ricerche. Mai, per quanto ne sappiamo, un romanziere ha gravato di tale eccentrica concentrazione la sua opera nel tentativo di scoprirne il codice, quasi da questo dipendesse la sua stessa vita. Gli scritti di queste pagine rappresentano, forse più di ogni altra cosa, un laboratorio di interpretazione nel significato più assoluto e più aperto della parola. Quando Dick cominciò a scrivere e pubblicare romanzi basati sul materiale visionario portato alla luce nell’Esegesi, si mise a interpretare anche quelli. Così, con l’accumularsi di quegli scritti, essi divennero anche autoreferenziali: l’Esegesi è uno studio, fra le altre cose, di sé stessa.
Che interpreti un avvenimento, un ricordo, una visione o un sogno, Dick nella sua frettolosità si preoccupa raramente di annotare gli eventi alla fonte con lo scrupolo che desidereremmo: testimonianza della sua premura di affrontare il suo duro e personale lavoro di scavo del loro significato. In fin dei conti lui sapeva bene a cosa si riferiva.
A parte quei pochi casi fortunati in cui ripercorre i passi verso la fonte, o in lettere scritte da altri che (fortunatamente per il lettore) rappresentano il punto d’inizio di questo folle viaggio, Dick spiega gli eventi, ma raramente li narra.
I curatori di questo volume hanno navigato in un labirinto di perplessità avendo a disposizione soltanto pochi assiomi utili. Uno è che, mettendo da parte qualsiasi peculiarità che contrassegni il suo lavoro o le circostanze della sua creazione, Philip K. Dick è stato uno dei più grandi romanzieri del XX secolo. Questo rende l’eventuale disponibilità pubblica di inediti quali annotazioni, diari, abbozzi e altre carte superstiti non solo desiderabile, ma inevitabile. Questo è vero per l’Esegesi di Dick come lo è per i taccuini di Dostoevskij o di Henry James. Se il destino di questo genere di materiale è quello di attrarre meno lettori di quanti ne attraggano i romanzi – e chi vorrebbe altrimenti? – è nondimeno di palese importanza che esso emerga.
Ci siamo poi attenuti a un altro convincimento: l’Esegesi è una lettura terrificante, di un certo tipo. Potremmo aggiungere «se la prendi per ciò che è», oppure «se ti piace questo genere di cose», ma questo modo di esprimersi genera la domanda «che genere di cosa esattamente sia» e noi non abbiamo una risposta a disposizione. Offrirsi completamente a essa come abbiamo fatto noi stessi richiede un grado di mania e di stordimento che non augureremmo a un altro umano (anche se certamente noi non saremo gli ultimi). E per rimanerne affascinati bisogna desiderarne ancora, e qui entriamo in contraddizione con noi stessi. Un ultimo assioma, per finire: nei compromessi e nei sacrifici che questa impresa, per sua stessa natura, ci ha imposto, finiremo con il non soddisfare nessuno. Abbiamo fatto un altro passo nella scalata dell’Everest, abbiamo raggiunto una quota leggermente più alta di coloro che ci hanno preceduto, ma non la vetta.
La ricerca della verità del 2-3-74 da parte di Dick era destinata, come la freccia di Zenone, a non giungere da nessuna parte. Anni prima della sua morte divenne evidente che queste attività non sarebbero cessate finché la penna non gli fosse caduta di mano, a dispetto dei suoi periodici tentativi di interrompere tutto. «Qui terminano quattro anni e sei mesi di analisi e ricerca» scrisse Dick. «Il tempo viene smascherato come irreale; millenovecento anni vengono rivelati come aspetto di un’unica matrice sottostante... i miei ventisette anni passati a scrivere e riscrivere gli stessi temi vanno al loro posto; il 2-74 e il 3-74 sono comprensibili così come lo è la cacciata di Nixon; le costanti transtemporali sono state spiegate... forse dovrei distruggere l’Esegesi. È un viaggio che ha raggiunto la sua meta.» Dick scrisse queste parole nel 1978; si ritrovano nella prima pagina di un’annotazione e continueranno per altre sessantadue.
Alla fine l’Esegesi può essere vista come un lungo esperimento della mente che riflette su sé stessa. Il rompicapo che Dick non potrà mai risolvere nel suo sforzo è quello dei suoi stessi tentativi esegetici. Questa mente scrive... perché? Sempre più si può avere l’impressione che nel descrivere il macrocosmo Dick descriva l’Esegesi: i due coincidono. Ciascuno cade vittima della ripetizione e dell’entropia, ciascuno cresce reticolando e arborizzando, ciascuno per rinnovarsi richiede un intervento divino in forma di linguaggio. Le stesse domande si applicano a entrambi: che cosa salva l’universo dallo scorrere in cerchi inutili fino a cadere giù? Che cosa separa la scintilla vitale del significato dalla ‘massa vile’ del caos e del rumore? L’universo si evolve o si devolve? Se il sistema è chiuso da dove scaturisce ‘il nuovo’?
Ci ritroviamo colpiti dal concetto che Philip K. Dick sia stato, a dispetto di tutte le sue logorroiche spiegazioni, uno scrittore di aforismi, sulla scia di E. M. Cioran o di Pascal. Ciò che camuffa la sua vena aforistica è semplicemente l’impalcatura che lui ha lasciato sul posto. Ogni impulso, ogni fotone di pensiero si accumula sulla carta: tocca al lettore isolare i momenti più alti.

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