È arrivato il momento di una «guerra culturale»
di Pierluigi Battista Corriere 23.11.15
Ci vorrebbe una grande, impegnativa guerra culturale per battere anche sul piano delle idee, oltre che su quello militare e investigativo, il fanatismo islamista, l’integralismo jihadista, il linguaggio radicale che attrae e seduce tanti giovani musulmani attratti dalla «purezza» dell’oltranzismo omicida. Una guerra culturale intelligente, pervasiva, generosa di mezzi per contrastare l’integralismo e l’oppressione delle tirannie teocratiche con il richiamo dei valori della libertà e della società aperta. Una guerra culturale che potrebbe prendere utilmente spunto da quella che gli Stati Uniti, e in particolar modo la Cia (sì, la Cia) hanno ingaggiato durante la guerra fredda contro l’Urss per mostrare quanto fosse più attraente il modello della libertà americana sull’oppressione del totalitarismo comunista. Una guerra per la conquista dei cuori e delle menti di chi stava dall’altra parte della cortina di ferro.
Si mise in piedi Radio Free Europe per trasmettere messaggi ai popoli schiacciati dal giogo sovietico. La Cia elargì cospicui finanziamenti all’arte e alla cultura libere. Non vennero lesinati sostegni all’avanguardia artistica e musicale, americana ed europea. Il Museum of Modern Art di New York, il MoMa, venne appoggiato con ingenti mezzi per la diffusione delle opere dei «maestri del modernismo» in suo possesso, da Matisse a Chagall a Kandinsky, per dimostrare la superiorità dell’arte libera su quella, irreggimentata e congelata negli stampi del «realismo socialista». Per lo stesso motivo la Cia non si risparmiò in aiuti allo stesso Andy Warhol. Furono promosse mostre in tutto il mondo occidentale di Jackson Pollock, di De Kooning, di Mark Rothko. Si diffusero le opere di musicisti d’avanguardia con lunghe tournée in Europa dell’orchestra di Boston. Venne aiutato John Ford e molti film americani trovarono sostegno economico per renderle competitive per i più importanti Festival del cinema, Cannes in primis. Fiumi di denaro di provenienza Cia finanziarono bellissime riviste culturali come Encounter in Inghilterra diretta da Stephen Spender e Tempo Presente in Italia con la direzione di Nicola Chiaromonte e Ignazio Silone, legate all’Associazione per la libertà della cultura di cui fu protagonista Arthur Koestler. La «guerra culturale fredda», come è stata ribattezzata, ha affascinato anche Ian McEwan che ne ha scritto nel suo romanzo Miele . Una battaglia di lunga durata, come quella che va sostenuta oggi.
Ci vorrebbe una grande, impegnativa guerra culturale per battere anche sul piano delle idee, oltre che su quello militare e investigativo, il fanatismo islamista, l’integralismo jihadista, il linguaggio radicale che attrae e seduce tanti giovani musulmani attratti dalla «purezza» dell’oltranzismo omicida. Una guerra culturale intelligente, pervasiva, generosa di mezzi per contrastare l’integralismo e l’oppressione delle tirannie teocratiche con il richiamo dei valori della libertà e della società aperta. Una guerra culturale che potrebbe prendere utilmente spunto da quella che gli Stati Uniti, e in particolar modo la Cia (sì, la Cia) hanno ingaggiato durante la guerra fredda contro l’Urss per mostrare quanto fosse più attraente il modello della libertà americana sull’oppressione del totalitarismo comunista. Una guerra per la conquista dei cuori e delle menti di chi stava dall’altra parte della cortina di ferro.
Si mise in piedi Radio Free Europe per trasmettere messaggi ai popoli schiacciati dal giogo sovietico. La Cia elargì cospicui finanziamenti all’arte e alla cultura libere. Non vennero lesinati sostegni all’avanguardia artistica e musicale, americana ed europea. Il Museum of Modern Art di New York, il MoMa, venne appoggiato con ingenti mezzi per la diffusione delle opere dei «maestri del modernismo» in suo possesso, da Matisse a Chagall a Kandinsky, per dimostrare la superiorità dell’arte libera su quella, irreggimentata e congelata negli stampi del «realismo socialista». Per lo stesso motivo la Cia non si risparmiò in aiuti allo stesso Andy Warhol. Furono promosse mostre in tutto il mondo occidentale di Jackson Pollock, di De Kooning, di Mark Rothko. Si diffusero le opere di musicisti d’avanguardia con lunghe tournée in Europa dell’orchestra di Boston. Venne aiutato John Ford e molti film americani trovarono sostegno economico per renderle competitive per i più importanti Festival del cinema, Cannes in primis. Fiumi di denaro di provenienza Cia finanziarono bellissime riviste culturali come Encounter in Inghilterra diretta da Stephen Spender e Tempo Presente in Italia con la direzione di Nicola Chiaromonte e Ignazio Silone, legate all’Associazione per la libertà della cultura di cui fu protagonista Arthur Koestler. La «guerra culturale fredda», come è stata ribattezzata, ha affascinato anche Ian McEwan che ne ha scritto nel suo romanzo Miele . Una battaglia di lunga durata, come quella che va sostenuta oggi.
Onfray citato dagli islamisti radicali: non è un mio problema
di Stefano Montefiori Corriere 23.11.15
PARIGI Nel quinto video di rivendicazione degli attentati di Parigi, lo Stato Islamico ha usato alcune immagini e frasi del filosofo francese Michel Onfray, che nelle scorse settimane aveva dichiarato «dovremmo smetterla di bombardare le popolazioni musulmane».
L’autore del Trattato di ateologia , libro per il quale un tempo venne accusato di essere islamofobo, si ritrova adesso in un video di propaganda dello Stato Islamico, usato a conferma della tesi jihadista che le stragi di Parigi sono una risposta alla politica antimusulmana della Francia in Medio Oriente. È l’argomento di uno dei kamikaze del Bataclan, che in una pausa del massacro disse: «È per l’Iraq e la Siria, Hollande non doveva intervenire».
Due giorni dopo gli attacchi Onfray, uno dei più celebri e discussi intellettuali francesi, aveva scritto questo tweet: «Destra e sinistra che hanno internazionalmente seminato la guerra contro l’Islam politico raccolgono nazionalmente la guerra dell’Islam politico». In sostanza, una sorta di accusa a tutta la classe politica francese, rea a suo dire di avere provocato la reazione dei jihadisti .
La presenza di Onfray in un video dell’Isis non è casuale, le frasi di Onfray sottotitolate in arabo hanno circolato molto tra i simpatizzanti della jihad all’indomani degli attentati. Nel settembre scorso, alla televisione Russia Today , Onfray diceva «che la comunità musulmana sia in collera contro l’Occidente mi sembra del tutto legittimo. L’Occidente dice di attaccare per proteggersi dal terrorismo, ma crea il terrorismo attaccando».
Questa posizione lo ha reso molto popolare tra gli islamisti radicali: «Accettiamo una parola di verità anche se viene dalla bocca del peggiore dei miscredenti», ha detto a proposito di Onfray un combattente francese dello Stato Islamico citato da David Thompson, esperto della jihad francese.
Se molti accusano il filosofo di essere diventato un eroe dell’Isis e di sostenerne oggettivamente le tesi, ieri Onfray si è difeso in tv senza apparire particolarmente imbarazzato. Anzi, il filosofo di Cosmo (Ponte alle Grazie) ha ribadito le sue convinzioni. «Io sono un filosofo, il mio lavoro è cercare di mettere le cose in prospettiva. Si è sempre strumentalizzati da tutti, non è un mio problema.
Bombardare lo Stato Islamico non calmerà i giovani soldati dell’Isis che si trovano nelle nostre periferie. Io voglio solo salvare la pace. In questi giorni ho ascoltato altre persone, come Dominique de Villepin o Michel Houellebecq, dire che la soluzione non può essere quella di bombardare».
di Stefano Montefiori Corriere 23.11.15
PARIGI Nel quinto video di rivendicazione degli attentati di Parigi, lo Stato Islamico ha usato alcune immagini e frasi del filosofo francese Michel Onfray, che nelle scorse settimane aveva dichiarato «dovremmo smetterla di bombardare le popolazioni musulmane».
L’autore del Trattato di ateologia , libro per il quale un tempo venne accusato di essere islamofobo, si ritrova adesso in un video di propaganda dello Stato Islamico, usato a conferma della tesi jihadista che le stragi di Parigi sono una risposta alla politica antimusulmana della Francia in Medio Oriente. È l’argomento di uno dei kamikaze del Bataclan, che in una pausa del massacro disse: «È per l’Iraq e la Siria, Hollande non doveva intervenire».
Due giorni dopo gli attacchi Onfray, uno dei più celebri e discussi intellettuali francesi, aveva scritto questo tweet: «Destra e sinistra che hanno internazionalmente seminato la guerra contro l’Islam politico raccolgono nazionalmente la guerra dell’Islam politico». In sostanza, una sorta di accusa a tutta la classe politica francese, rea a suo dire di avere provocato la reazione dei jihadisti .
La presenza di Onfray in un video dell’Isis non è casuale, le frasi di Onfray sottotitolate in arabo hanno circolato molto tra i simpatizzanti della jihad all’indomani degli attentati. Nel settembre scorso, alla televisione Russia Today , Onfray diceva «che la comunità musulmana sia in collera contro l’Occidente mi sembra del tutto legittimo. L’Occidente dice di attaccare per proteggersi dal terrorismo, ma crea il terrorismo attaccando».
Questa posizione lo ha reso molto popolare tra gli islamisti radicali: «Accettiamo una parola di verità anche se viene dalla bocca del peggiore dei miscredenti», ha detto a proposito di Onfray un combattente francese dello Stato Islamico citato da David Thompson, esperto della jihad francese.
Se molti accusano il filosofo di essere diventato un eroe dell’Isis e di sostenerne oggettivamente le tesi, ieri Onfray si è difeso in tv senza apparire particolarmente imbarazzato. Anzi, il filosofo di Cosmo (Ponte alle Grazie) ha ribadito le sue convinzioni. «Io sono un filosofo, il mio lavoro è cercare di mettere le cose in prospettiva. Si è sempre strumentalizzati da tutti, non è un mio problema.
Bombardare lo Stato Islamico non calmerà i giovani soldati dell’Isis che si trovano nelle nostre periferie. Io voglio solo salvare la pace. In questi giorni ho ascoltato altre persone, come Dominique de Villepin o Michel Houellebecq, dire che la soluzione non può essere quella di bombardare».
Perché la pace a Parigi passa dalla guerra
Questa guerra contro l’Isis non si vince nelle strade di Parigi, ma nelle pianure irachene e siriane dove il nemico è visibile e vulnerabiledi Bernard-Henri Lévy Corriere 23.11.15
«Siamo in guerra», ha dichiarato François Hollande davanti al Congresso riunito a Versailles. «Siamo in guerra», ha ribadito Manuel Valls, il suo primo ministro, in tutti i modi possibili. Ma attenzione! Siamo, l’hanno detto molto chiaramente, in una guerra doppia. Contro un unico nemico, ma una guerra che si divide in due.
C’è il fronte interno, che passa attraverso i tavolini all’aperto, gli stadi di calcio o le sale da concerto parigine, così come attraverso i covi di Saint-Denis o Molenbeek, in Belgio, dove si rintanano i combattenti infiltrati. Ma c’è anche il fronte esterno, che è quello principale e che passa per Raqqa, Mosul e le altre città irachene e siriane dove questi barbari trovano le loro armi, vanno a cercare le loro mappe e imparano nei campi di addestramento che abbiamo lasciato prosperare, l’arte di questa nuova e atroce guerra contro i civili. Dire che è questo secondo fronte a essere decisivo non significa che basterà spazzare via lo Stato Islamico per vedere sparire per incanto tutte le cellule più o meno dormienti che sono già all’opera, pronte a colpire, nelle grandi città di Francia e d’Europa. Ma questo vuol dire senza dubbio che, essendo laggiù il cuore, le risorse, i centri di comando, priveremmo queste cellule, colpendole alla testa, di una buona parte della loro potenza: come combattere gli effetti senza andare alle cause? Forse le succursali non dipendono dalla casa madre? Si può forse guarire un cancro prendendo a bersaglio solo le metastasi e lasciando proliferare il tumore principale? Come non vedere, in una frase, che la pace a Parigi passa per la guerra a Mosul? O, più esattamente, che questa guerra contro l’Isis non può essere vinta nelle strade di Parigi martirizzate da un nemico invisibile, imprevedibile, pronto a ricominciare, ma nelle pianure irachene e siriane, dove è allo stesso tempo visibile, facile da individuare e vulnerabile?
A questo ragionamento di buon senso si oppongono oggi tre forze di diversa intensità. L’atteggiamento alla Monaco 1938, per cominciare, di quanti invertendo l’ordine dei fattori ripetono ovunque che è perché noi ce la prendiamo con gli islamisti che gli islamisti se la prendono con noi: argomento stupido e infetto che era, fatte le debite proporzioni, quello dei pacifisti degli anni Trenta e che vede la riflessione allineata sulla retorica stessa degli assassini e dei loro comunicati infami.
Il vecchio argomento, poi, che ci veniva propinato già vent’anni fa, a proposito dell’esercito serbo, reputato il terzo del mondo e che, in questo caso, consiste nello spaventare le popolazioni con il ritornello dell’armata super-potente e invincibile che ha smembrato l’Iraq e la Siria e che ci starebbe attirando in un nuovo e inevitabile pantano: se davvero così fosse, come mai i curdi, che sono per adesso gli unici a opporsi allo Stato Islamico, vincono a mani basse tutte le battaglie che intraprendono? Come spiegare che a Kirkuk e, più recentemente, nel Sinjar, i tagliatori di teste abbiano tagliato la corda quasi senza combattere di fronte alla determinazione e al coraggio dei peshmerga pur armati in modo davvero insufficiente? E dove sono, del resto, queste famose «scorte di carri armati e di artiglieria» dei quali i fanatici di Dio si sono impadroniti in occasione della disfatta dell’esercito iracheno e che sono giudicati in grado di rendere altamente a rischio ogni forma di intervento un po’ più impegnativo dei soli raid aerei? Perché queste scorte di armi non le abbiamo viste all’opera né a Kobane né, la settimana scorsa, nella battaglia che ha liberato la capitale degli yazidi? Perché queste armi non hanno mai bombardato a tappeto i fortini dei peshmerga curdi e perché l’Isis, al posto di questa dotazione favolosa, usa sempre gli stessi camion-kamikaze? La verità è che questi arsenali sono stati distrutti, ridotti al silenzio o paralizzati dall’aviazione degli alleati e che l’Isis oggi non è altro che una tigre di carta. E poi c’è, in terzo luogo, la reticenza di un Barack Obama sempre più visibilmente tormentato da quello che saremmo tentati di chiamare la sindrome di Oslo: questo famoso premio Nobel per la pace attribuitogli nei primi mesi del suo mandato e che fa sì che il presidente della prima potenza mondiale, l’uomo senza il quale niente sarà possibile e la cui determinazione è importante almeno tanto quanto quella del presidente Hollande, sembra domandarsi ogni mattina, quando si fa la barba, come dovrebbe agire un vero premio Nobel per la pace… Il presidente degli Stati Uniti capirà alla fine che, di fronte a un nemico che ha dichiarato guerra alla civiltà, il tempo del narcisismo moralizzatore è passato? Capirà quanto disastroso sarebbe lasciare come eredità uno Stato nazista al quale si sarebbe permesso di radicarsi nel territorio di sua scelta, quando invece saremmo ancora in tempo, se lo decidessimo, per spazzarlo via?
Ascolterà Obama il grido di soccorso che lancia, al suo alleato di sempre, una Francia nel lutto e sentirà che il suo Paese ha, come nel 1917, come nel 1944, per la terza volta appuntamento con l’Europa? E che fine ha fatto il giovane Barack Obama che ho incontrato, nel 2003, a Boston e che mi ha superbamente spiegato, all’epoca, che cosa distingueva l’assurda guerra d’Iraq da una guerra politicamente giusta, moralmente giustificata e il cui principio sarebbe, non di aggiungere il male al male, ma al contrario di arginarlo? Non esistono, oggi, domande più fondamentali né più angoscianti
Questa guerra contro l’Isis non si vince nelle strade di Parigi, ma nelle pianure irachene e siriane dove il nemico è visibile e vulnerabiledi Bernard-Henri Lévy Corriere 23.11.15
«Siamo in guerra», ha dichiarato François Hollande davanti al Congresso riunito a Versailles. «Siamo in guerra», ha ribadito Manuel Valls, il suo primo ministro, in tutti i modi possibili. Ma attenzione! Siamo, l’hanno detto molto chiaramente, in una guerra doppia. Contro un unico nemico, ma una guerra che si divide in due.
C’è il fronte interno, che passa attraverso i tavolini all’aperto, gli stadi di calcio o le sale da concerto parigine, così come attraverso i covi di Saint-Denis o Molenbeek, in Belgio, dove si rintanano i combattenti infiltrati. Ma c’è anche il fronte esterno, che è quello principale e che passa per Raqqa, Mosul e le altre città irachene e siriane dove questi barbari trovano le loro armi, vanno a cercare le loro mappe e imparano nei campi di addestramento che abbiamo lasciato prosperare, l’arte di questa nuova e atroce guerra contro i civili. Dire che è questo secondo fronte a essere decisivo non significa che basterà spazzare via lo Stato Islamico per vedere sparire per incanto tutte le cellule più o meno dormienti che sono già all’opera, pronte a colpire, nelle grandi città di Francia e d’Europa. Ma questo vuol dire senza dubbio che, essendo laggiù il cuore, le risorse, i centri di comando, priveremmo queste cellule, colpendole alla testa, di una buona parte della loro potenza: come combattere gli effetti senza andare alle cause? Forse le succursali non dipendono dalla casa madre? Si può forse guarire un cancro prendendo a bersaglio solo le metastasi e lasciando proliferare il tumore principale? Come non vedere, in una frase, che la pace a Parigi passa per la guerra a Mosul? O, più esattamente, che questa guerra contro l’Isis non può essere vinta nelle strade di Parigi martirizzate da un nemico invisibile, imprevedibile, pronto a ricominciare, ma nelle pianure irachene e siriane, dove è allo stesso tempo visibile, facile da individuare e vulnerabile?
A questo ragionamento di buon senso si oppongono oggi tre forze di diversa intensità. L’atteggiamento alla Monaco 1938, per cominciare, di quanti invertendo l’ordine dei fattori ripetono ovunque che è perché noi ce la prendiamo con gli islamisti che gli islamisti se la prendono con noi: argomento stupido e infetto che era, fatte le debite proporzioni, quello dei pacifisti degli anni Trenta e che vede la riflessione allineata sulla retorica stessa degli assassini e dei loro comunicati infami.
Il vecchio argomento, poi, che ci veniva propinato già vent’anni fa, a proposito dell’esercito serbo, reputato il terzo del mondo e che, in questo caso, consiste nello spaventare le popolazioni con il ritornello dell’armata super-potente e invincibile che ha smembrato l’Iraq e la Siria e che ci starebbe attirando in un nuovo e inevitabile pantano: se davvero così fosse, come mai i curdi, che sono per adesso gli unici a opporsi allo Stato Islamico, vincono a mani basse tutte le battaglie che intraprendono? Come spiegare che a Kirkuk e, più recentemente, nel Sinjar, i tagliatori di teste abbiano tagliato la corda quasi senza combattere di fronte alla determinazione e al coraggio dei peshmerga pur armati in modo davvero insufficiente? E dove sono, del resto, queste famose «scorte di carri armati e di artiglieria» dei quali i fanatici di Dio si sono impadroniti in occasione della disfatta dell’esercito iracheno e che sono giudicati in grado di rendere altamente a rischio ogni forma di intervento un po’ più impegnativo dei soli raid aerei? Perché queste scorte di armi non le abbiamo viste all’opera né a Kobane né, la settimana scorsa, nella battaglia che ha liberato la capitale degli yazidi? Perché queste armi non hanno mai bombardato a tappeto i fortini dei peshmerga curdi e perché l’Isis, al posto di questa dotazione favolosa, usa sempre gli stessi camion-kamikaze? La verità è che questi arsenali sono stati distrutti, ridotti al silenzio o paralizzati dall’aviazione degli alleati e che l’Isis oggi non è altro che una tigre di carta. E poi c’è, in terzo luogo, la reticenza di un Barack Obama sempre più visibilmente tormentato da quello che saremmo tentati di chiamare la sindrome di Oslo: questo famoso premio Nobel per la pace attribuitogli nei primi mesi del suo mandato e che fa sì che il presidente della prima potenza mondiale, l’uomo senza il quale niente sarà possibile e la cui determinazione è importante almeno tanto quanto quella del presidente Hollande, sembra domandarsi ogni mattina, quando si fa la barba, come dovrebbe agire un vero premio Nobel per la pace… Il presidente degli Stati Uniti capirà alla fine che, di fronte a un nemico che ha dichiarato guerra alla civiltà, il tempo del narcisismo moralizzatore è passato? Capirà quanto disastroso sarebbe lasciare come eredità uno Stato nazista al quale si sarebbe permesso di radicarsi nel territorio di sua scelta, quando invece saremmo ancora in tempo, se lo decidessimo, per spazzarlo via?
Ascolterà Obama il grido di soccorso che lancia, al suo alleato di sempre, una Francia nel lutto e sentirà che il suo Paese ha, come nel 1917, come nel 1944, per la terza volta appuntamento con l’Europa? E che fine ha fatto il giovane Barack Obama che ho incontrato, nel 2003, a Boston e che mi ha superbamente spiegato, all’epoca, che cosa distingueva l’assurda guerra d’Iraq da una guerra politicamente giusta, moralmente giustificata e il cui principio sarebbe, non di aggiungere il male al male, ma al contrario di arginarlo? Non esistono, oggi, domande più fondamentali né più angoscianti
Habermas “Combattiamo la barbarie salvando la libertà”
“Non dobbiamo cercare fantomatici nemici interni Il pericolo vero non è l’asservimento a una cultura straniera, ma la fine della tolleranza verso l’altro”
NICOLAS WEILL Repubblica 23 11 2015
Il presidente Hollande propone la definizione di uno “stato di guerra” che rifletta la situazione in atto. Jurgen Habermas, cosa ne pensa? Ritiene che una modifica della Costituzione sia una risposta adeguata agli attentati del 13 novembre a Parigi?
«Mi sembra sensato adattare alla situazione attuale le due disposizioni della Costituzione francese relative allo stato d’emergenza. Ma non sono per nulla esperto in questioni di sicurezza. Questa decisione mi appare piuttosto come un atto simbolico, per consentire al governo di reagire – nel modo verosimilmente più conveniente – al clima che regna nel Paese. In Germania comunque la retorica bellicista del presidente, ispirata a quanto pare da considerazioni di politica interna, suscita qualche riserva».
Hollande deciso di innalzare il livello dell’intervento francese in Siria.
Cosa pensa dell’interventismo?
«Non è stata una decisione politica inedita, ma solo l’intensificazione dell’impegno dell’aviazione francese. Gli esperti sembrano concordi sull’impossibilità di sconfiggere con i soli bombardamenti aerei un fenomeno sconcertante come quello dello Stato islamico. D’altra parte, un intervento di truppe di terra americane ed europee sarebbe quanto mai imprudente. Le azioni condotte scavalcando i poteri locali non servono a nulla. Lo Stato islamico non si può battere col solo ricorso a mezzi militari: anche su questo punto le opinioni degli esperti coincidono. Certo, dobbiamo considerare quei barbari come nemici e combatterli incondizionatamente. Ma per sconfiggere questa barbarie non dobbiamo lasciarci ingannare sulle loro motivazioni, che sono complesse. Come è noto, i conflitti tra sunniti e sciiti, dai quali il fondamentalismo dello Stato islamico trae oggi le principali energie, si sono scatenati in seguito all’intervento americano in Iraq, deciso da George W. Bush, che ha fatto strame delle regole del diritto internazionale. Certo, la battuta d’arresto del processo di modernizzazione di quelle società si spiega in parte anche con alcuni aspetti specifici dell’orgogliosa cultura araba. Di fatto, però, almeno in parte l’assenza di prospettive e di speranze per il futuro delle giovani generazioni di quei Paesi, va addebitata anche alla politica occidentale. Quei giovani si radicalizzano per riaffermare il loro amor proprio. Accanto alla concatenazione di cause che ci conduce in Siria, ne esiste un’altra: quella dei destini segnati dalla mancata integrazione nelle strutture sociali delle nostre maggiori città».
Secondo lei è pensabile e possibile lottare contro il terrorismo mantenendo intatto lo spazio pubblico democratico? E a quali condizioni?
«Uno sguardo retrospettivo sull’11 settembre non può che farci constatare, come hanno fatto peraltro molti dei nostri amici americani, che la “guerra al terrore” di Bush, Cheney e Rumsfeld ha deteriorato la natura politica e mentale della società americana. Il Patriot Act, adottato all’epoca dal Congresso e tutt’ora in vigore, ha eroso i diritti fondamentali dei cittadini, e incide sulla sostanza della Costituzione americana. La stessa cosa si può dire dell’estensione della nozione di foreign fighter, che ha avuto conseguenze fatali, legittimando Guantanamo e altri crimini, ed è stata accantonata solo dall’amministrazione Obama. Ma non potremmo fare come i norvegesi nel 2011, dopo lo spaventoso attentato commesso sull’isola di Utoya? Resistere al primo riflesso, alla tentazione di ripiegarsi su se stessi di fronte a un’incognita incomprensibile, di dare addosso al “nemico interno”? Spero che la nazione francese sappia dare al mondo un esempio da seguire, come già dopo l’attentato a Charlie Hebdo. Non c’è alcun bisogno di reagire a un pericolo fittizio come l’“asservimento” a una cultura straniera, che secondo qualcuno ci sta minacciando. Il pericolo è ben più concreto. La società civile deve guardarsi dal sacrificare sull’altare della sicurezza le virtù democratiche di una società aperta: la libertà degli individui, la tolleranza verso la diversità delle forme di vita, la disponibilità a immedesimarsi nelle prospettive altrui. Nel suo modo di esprimersi il fondamentalismo jihadista ricorre a tutto un codice religioso, ma non è affatto una religione. Al posto dei termini religiosi di cui fa uso potrebbe usare qualunque altro linguaggio devozionale, o anche mutuato da una qualunque ideologia che prometta una giustizia redentrice».
L’atteggiamento tedesco nei riguardi dell’afflusso dei rifugiati ha sorpreso positivamente, anche se ultimamente la Germania ha fatto un passo indietro. Pensa che l’ondata terroristica possa modificare questa disposizione?
«Spero di no. Siamo tutti sulla stessa barca. Il terrorismo e la crisi dei rifugiati costituiscono sfide drammatiche, forse definitive, ed esigono solidarietà e una stretta cooperazione che le nazioni europee non si decidono ancora ad avviare».
Così i terroristi sognano un paradiso all’occidentale
I fondamentalisti attingono la loro forza dal sentirsi espressione della volontà di un essere supremo. Che promette un aldilà di piaceri che loro stessi si negano in vita
MASSIMO RECALCATI
Impugnando insieme il mitra e il Corano, i terroristi dell’Is uccidono vite innocenti in nome della Legge di Dio: possono sparare freddamente, a bruciapelo, contro giovani sconosciuti senza provare la minima emozione, senza avere alcun dubbio sulla necessità della loro crudeltà. Se il loro braccio è armato direttamente da Dio, la loro forza scaturisce dal sentirsi espressioni della volontà di un Essere supremo che li libera da ogni senso di colpa e dalla paura umana della morte. Il loro Dio, infatti, li ricompenserà con una vita ultraterrena fatta di godimenti senza limiti: abbeverarsi di sostanze estasianti, possedere innumerevoli vergini, bearsi in un mondo dove tutto è permesso li solleverà da una vita terrena fatta di stenti e disperazione. Il loro martirio è richiesto da una Legge che non è quella degli uomini, ma quella di un Essere supremo che saprà riconoscere e premiare giustamente la loro fedeltà assoluta. La loro vera vita non è questa, ma è in un altro mondo. L’esistenza dell’Occidente impuro gli consente di identificarsi al giustiziere senza macchia che serve la Legge di un Dio folle. Tuttavia, il paradiso a cui anelano coincide paradossalmente con quella rappresentazione della vita dei giovani occidentali che odiano ma dalla quale, in realtà, si sentono esclusi. Il meccanismo che presiede la loro volontà omicida è drammaticamente elementare. Si chiama “proiezione”: essendosi identificati coi redentori dell’umanità, con gli unici e autentici cavalieri della fede, con la purezza intransigente del martire, proiettano i loro desideri più impuri nell’Occidente corrotto che s’incaricano di distruggere per emendare quella parte scabrosa di se stessi che non riescono a riconoscere come tale. In questo senso sono davvero anime morte che uccidono le esistenze di cui invidiano la vita e la libertà.
Jacques Lacan ha fatto notare che quando l’uomo calpesta la Legge della parola per rispondere ad una Legge che è totalmente al di là degli uomini, che trascende ogni limite che questa Legge impone, esso si incammina lungo il sentiero tetro della perversione. Ogni volta che qualcuno diviene giustiziere, ogni volta che uccide in nome di una Causa che trascende la vita particolare dell’uomo, egli diventa un “crociato”, un militante della Fede che disprezzando la Legge (imperfetta) degli uomini vuole affermare quella (perfetta) del suo Idolo. In questo senso profondo la psicologia del terrorista dell’Is è perversa. Essa agisce in nome di una Causa, di un Essere supremo che odia gli infedeli, ordinando la loro epurazione fisica. La depravazione dell’Occidente li rinsalda nei loro ideali ascetici che non sono solo uno stile di vita tra gli altri, ma che vorrebbe essere imposto come il solo stile di vita possibile. I loro cuori bruciano di spirito di vendetta: farsi esplodere o uccidere è un modo per avvicinarsi a Dio, per accedere ad un paradiso di carne che li beatificherà eternamente. L’ingenuità di questa costruzione può rapire la vita dei più giovani che, come ricorda Gesù nella parabola della donna adultera, sono gli ultimi a lasciare la piazza, a lasciare cadere dalla loro mani le pietre del giudizio… I terroristi coltivano perversamente l’orrore per suscitare l’angoscia nel loro nemico. Nessuna forma di terrorismo sino ad oggi è stata così meticolosa nel coltivare mediaticamente questa strategia. Mostrare in diretta lo sgozzamento dei prigionieri, trascinare nella polvere i loro cadaveri sghignazzando, ammonire severamente l’Occidente che la sua libertà pacifica, conquistata nei secoli, ha i giorni contati, mostrare, insomma, l’orrore senza veli serve a provocare l’angoscia nell’Altro.
È il loro ricatto perverso: non si tratta di semplicemente di impaurire l’Occidente, né di colpire bersagli determinati come accadeva per il terrorismo che abbiamo già conosciuto, ma di corrodere dall’interno la sua stessa vita, di rendere la nostra vita in generale meno sicura, meno certa, esposta al rischio della morte casuale dell’atto terrorista che, come sappiamo, non potrà mai in nessun modo essere totalmente prevenuto.
Essendo dappertutto, non-circoscritto, il pericolo non genera più una paura localizzata all’oggetto considerato minaccioso (l’obiettivo cosiddetto sensibile), ma si diffonde ovunque, attraversa le nostre vite diventando puro panico collettivo. Inoculare l’angoscia trasformandola in panico è, dunque, l’obiettivo massimo della strategia terrorista. Essi vogliono vedere negli occhi dell’Occidente lo smarrimento e il terrore rendendo la nostra vita prigioniera. Per questa ragione la prima risposta che, come insegna la psicoanalisi, è sempre necessario dare alla perversione è quella di respingere l’angoscia, di sottrarsi alla sua ipnosi maligna, di rifiutarsi di cedere sulla nostra libertà.
“Ma la vera sfida è investire contro la paura evitando la crisi”
“Tra le conseguenze degli attacchi c’è anche il crollo della fiducia che in economia è tutto Hollande e Merkel si giocano la riconferma”
EUGENIO OCCORSIO
La comunità globale degli economisti «vuole aggiungere la sua voce a tante altre esprimendo sgomento per l’attacco terroristico a Parigi e in altri luoghi, e mandando un abbraccio alle famiglie delle vittime». Nouriel Roubini, nato nel 1958 in Turchia da famiglia ebraica iraniana, cresciuto in Italia e diventato, da cittadino americano, uno dei più prestigiosi economisti mondiali, oggi docente alla New York University, è di nuovo preoccupato. Non per l’eccesso di speculazioni che portò alla crisi finanziaria del 2008 in America con tutto quello che ne è seguito, ma per il colpo di freno ad un sereno sviluppo mondiale che i fatti di questi giorni possono provocare. «Intendiamoci – puntualizza – è ancora presto per una vera e propria modifica delle previsioni macroeconomiche, ma c’è il pericolo che si materializzi uno dei rischi più seri in grado per dare uno scossone alla già precaria ripresa in occidente. In particolare per la Francia ci sono seri rischi di un impatto negativo sul Pil».
In conseguenza diretta degli attacchi?
«Sì, perché l’effetto sulla psicologia e quindi sulla fiducia, che in economia è tutto, sarà naturalmente molto violento. I tre mesi di stato d’emergenza probabilmente avranno conseguenze dirette sulla crescita, particolarmente se il turismo e anche l’attività di business rallenteranno bruscamente. In qualche misura, sulla produzione questo sarà controbilanciato dall’aumento degli investimenti pubblici in termini militari e di sicurezza, e ciò è valido in tutta Europa, avallato dalla flessibilità fiscale della commissione. Ma su queste spese militari ci sarebbe molto da discutere ».
In che senso?
«Prendiamo gli Stati Uniti: hanno speso ormai l’incredibile somma di 2mila miliardi di dollari nelle guerre in Iraq e Afghanistan con l’unico risultato di creare più instabilità. Se l’occidente continua a ignorare le reali necessità del Medio Oriente o tratta i problemi della regione solo in termini militari, invece che affidarsi alla diplomazia e riservare le risorse finanziarie al supporto della crescita locale e alla creazione di posti di lavoro, l’instabilità e l’incertezza in tutta l’area possono solo peggiorare. E i risultati di questa scelte in ultimo danneggeranno l’Europa, gli Stati Uniti e tutta l’economia globale per molti decenni a venire».
Vuol dire che la crisi non sarebbe confinata al Medio Oriente?
«Certo che no. Che esportino terrorismo si è visto. Ma anche dal ristretto punto di vista dei mercati finanziari, lo shock da un’escalation in Siria, il caso più rovente, contagerebbe tutte le economie attraverso il canale della fiducia: investitori, imprenditori e consumatori sono molto vulnerabili. Senza contare il coinvolgimento diretto di Paesi importantissimi quali Stati Uniti, Francia, Gran Bretagna, Russia. Il Fondo monetario identifica nella Cina e in altri Paesi emergenti il rischio di una nuova contrazione a livello mondiale, ma anche questa minaccia non va sottovalutata. L’intero Medio Oriente è una polveriera ora più che mai, con conseguenze mondiali. E ora non può più neanche contare sulla risorsa del petrolio per finanziare il suo sviluppo».
Perché i prezzi sono bassi? A proposito, perché non risalgono come era sempre successo in presenza di tante tensioni nell’area?
«Per motivi che vanno dalla sovrapproduzione alla frenata cinese. E poi perché i mercati sono purtroppo così abituati alla tensioni in Medio Oriente da non reagire più a battaglie e terrorismo. Però bisogna seguire con la massima attenzione le relazioni interne a tutta l’area, dove le vicende militari ed economiche sono drammaticamente interconnesse. Per esempio c’è una guerra “per procura” in corso fra Arabia Saudita e Iran, non solo di potere interno all’Opec, se è vero che in Siria i due Paesi appoggiano uno le varie frange combattenti sunnite e il secondo il regime di Assad. Tutto questo conoscerà uno sviluppo ulteriore con il boom di produzione iraniana previsto appena si sbloccherà il dopo-sanzioni, che porterà a un ulteriore eccesso di offerta e quindi un ribasso dei prezzi: e visto che l’Arabia Saudita comincia ad avere seri problemi di bilancio (oggi il deficit è il 20% del Pil) e che deve fronteggiare crescenti spese militari (non solo in casa ma in Egitto, Yemen e Siria) le sue reazioni in presenza di un ennesimo crollo dei prezzi sono tutte da verificare. Infine, non dimentichiamo che la crisi in Medio Oriente ha già creato una crisi ancora maggiore in Europa con il problema dei rifugiati, che ha ovviamente riflessi economici perché impone ai Paesi di creare infrastrutture e sostentamento per questi disperati, e anche riflessi politici tali da squassare le cancellerie».
Ha preoccupazioni per la tenuta della Merkel?
«Certo, questa vicenda, con le sue incertezze e i ripensamenti, potrebbe costarle la rielezione nel 2017. Potrebbe essere eletto allora Schaeuble, con quali risultati in termini di austerity e di stretta europea è facile immaginare. Altro che crescita. E anche Hollande, che pure sta reagendo duramente agli attacchi, rischia sul fronte immigrazione di lasciare strada alla Le Pen».
“I tre mesi di stato di emergenza avranno dirette conseguenze sulla crescita in tutto il continente”
“
DIO, L’ORRORE E L’ETERNA DOMANDA
ADRIANO PROSPERI
AL tempo del Terrore si assiste a singolari rigurgiti di spiriti religiosi . Bisognerà farci l’abitudine. Il tassista che nella Roma pre-giubileo ti porta in Vaticano, meta di fiumi di turisti, si professa anticlericale ma reagisce all’idea di togliere i crocifissi dalle scuole gridando che contro le minacce pseudo-islamiche lui vorrebbe affiggerne non uno ma cento per aula.
SEGUE A PAGINA 27
INVECE un pensoso teologo accenna alla strage parigina di Bataclan facendo sua la frase di Justin Welby, l’arcivescovo di Canterbury: «Ci sono dei momenti in cui pensi: c’è un Dio? E dov’è Dio?». È una domanda che ora conosce una rinnovata attualità davanti a una realtà sempre più invasa da immagini del male, del dolore e della morte. Quella di Justin Welby deve l’eco che ha suscitato alla alta autorità ecclesiastica che Invece un pensoso teologo accenna alla strage parigina di Bataclan facendo sua la frase di Justin Welby, l’arcivescovo di Canterbury: «Ci sono dei momenti in cui pensi: c’è un Dio? E dov’è Dio?». È una domanda che ora conosce una rinnovata attualità.
l’ha pronunziata e alla potenza della Bbc. Del resto, chi ha anche superficialmente frequentato testi e documenti della storia della vita religiosa sa bene che quella domanda è inerente alla stessa fede delle religioni monoteistiche, ne è come l’altra faccia necessaria. L’esperienza di un Dio che non risponde, che è assente, sta fissa nel cuore stesso della tradizione cristiana, nelle ultime parole di Gesù sulla croce attestate dai Vangeli, come nelle esperienze dei mistici brancolanti in quella che Giovanni della Croce chiamava la notte oscura. Tuttavia un fatto è la difficoltà personale di chi cerca il rapporto con un Dio persona e non lo trova, ne soffre le intermittenze, ne invoca la certificazione interiore e magari si rassegna a fare sua la fede di una chiesa contentandosi dell’autorità costituita e fissata in testi e tradizioni. Tutt’altro fatto è riportare l’esistenza di Dio sulla scena di un mondo che ha da tempo imparato a farne a meno. Un grande storico francese, Lucien Febvre, misurò per confronto la realtà dei suoi anni — quelli della seconda guerra mondiale — con quella del suo prediletto secolo XVI quando, secondo lui, era impossibile non credere in Dio, concepire l’idea stessa della sua inesistenza: tanta era la densità di riti, immagini, esperienze di un’epoca in cui la vita quotidiana scorreva tutta all’insegna della fede in Dio e in Cristo: dal suono delle campane ai riti religiosi alle immagini e alle parole del linguaggio comune, all’idea stessa del cielo e delle stelle non ancora turbata dalle scoperte di Galileo. La tesi di Febvre non ha retto alla ricerca storica: l’ateismo era possibile anche allora, sia pure come fenomeno isolato, come avventura intellettuale, come ritorno del materialismo degli antichi. Però è vero che di fatto non solo le forme del pensiero e dell’immaginazione ma anche le costituzioni politiche e le regole sociali erano ricavate allora da una concezione del mondo tutta religiosa. Oggi la cultura e la società moderne sono lontanissime da quella condizione. La morte di Dio annunciata dal folle ne La gaia scienza di Nietzsche è diventata sostanza della vita quotidiana del mondo sviluppato. Ci si è arrivati per gradi. Il materialismo dolente e implacabile di Leopardi precedette di poco la filosofia di Feuerbach. E l’opera creativa di Dostoevskij si concentrò sul nodo della capacità umana di fare il male che si scatena in un mondo da cui Dio è stato cacciato: si pensi alle pagine terribili sul personaggio di Stavrogin ne “I demoni^”. Gli uomini hanno ucciso Dio: e se Dio è morto allora tutto è lecito. Le conseguenze della espulsione di Dio dal mondo umano, secondo Dostoevskij sono spaventose. Quella che gli uomini hanno conquistato è una libertà illimitata di fare il male; il nichilista conseguente è Kirillov che si uccide per dimostrare al mondo intero che Dio non c’è e che l’uomo è diventato onnipotente al punto da rinunziare alla stessa vita. Ma è stato nel ‘900 davanti a Auschwitz che la riflessione sull’immane tragedia del male compiuto da una diabolica volontà di potenza ha incrinato anche la voce dei rappresentanti supremi delle religioni costituite, quelli che hanno il compito e l’obbligo di testimoniare la fede. Il pontefice cattolico Benedetto XVI, il tedesco Joseph Ratzinger che si sentì specialmente obbligato a visitare ripetutamente Auschwitz proprio perché uomo di chiesa e tedesco, si chiese: “Dove era Dio in quei giorni? Perché Egli ha taciuto?”. E tuttavia anche in questo caso si scopre come in una religione che affida il compimento della giustizia e della verità a un mondo celeste in attesa dopo la nostra morte, il silenzio di Dio non basta a incrinare la fede nella sua esistenza. La testimonianza di quel grande teologo ed eroico testimone di fede e di resistenza al nazismo che fu il luterano Dietrich Bonhoeffer ha elaborato un importante nucleo concettuale e ha lasciato un esempio personale di cosa possa diventare la fede cristiana dopo Auschwitz. Invece toccò al filosofo Hans Jonas, ebreo e tedesco, affrontare lucidamente il problema di quale sia il concetto di Dio dopo Auschwitz per chi parte da un’idea ebraica della divinità come un’entità padrona della storia, chiamata a compiere la giustizia e a tutelare quel popolo che fu sterminato senza trovare in Lui alcuna difesa. Fu Jonas che paragonò la Shoah col terremoto di Lisbona che nel ‘700 aveva offuscato la luce ottimistica del razionalismo illuministico piegando la cultura occidentale in una direzione diversa. Ma l’evento naturale del terremoto, per quanto tremendo, non era paragonabile a quello che la volontà umana era stata capace di compiere deliberatamente. Il Dio tradizionale aveva gli attributi dell’onnipotenza, della bontà e della comprensibilità: attributi insostenibili con la Shoah. Si deve dunque abbandonare questa concezione e concepire un Dio che si è “temporalizzato”, diviene insieme al mondo e partecipa al destino dell’uomo da lui creato nella lotta tra il bene e il male.
Nascerà dallo scontro di forze oggi nel mondo una nuova religiosità? Oppure, affrontando le radici del male e del dolore che oggi coinvolge direttamente anche quella parte del mondo che per secoli ha schiavizzato, massacrato e sfruttato l’altra metà degli uomini, si riuscirà a far ripartire la storia e la civiltà umana da un livello più alto? Su Dio non è difficile mettere d’accordo le tre religioni monoteistiche nate nel Mediterraneo. Gli attributi sono più o meno sempre gli stessi: tra i 99 nomi che il Corano dà a Dio ci sono quelli del “Misericordioso”, del “compassionevole”, dell’”amabile”, del “giusto”, di “Colui che ama, che aiuta”. Ma è sulla natura umana e sul modo di fare giustizia nel mondo che l’accordo appare difficile.
Democrazia, una debolezza che va difesa
Vladimiro Zagrebelsky Stampa 23 11 2015
Tra le tante questioni poste dalle stragi di Parigi, dopo le altre che le hanno precedute, ve ne è una che rimane senza risposta appagante. Anzi, quasi non cerca una vera risposta. Si dice che dobbiamo difenderci per salvare le nostre vite e si dice cosa ovvia, ma non per questo meno vera. Ma, in questa guerra diffusa, che sfugge a ogni regola conosciuta e riconosciuta, si dice anche, senza approfondire, che è necessario difendere la nostra cultura, i nostri valori, il nostro stile di vita. E qui l’affermazione richiederebbe qualche precisazione, senza timore di entrare su terreni controversi, in cui l’unanimità è improbabile, o di cadere in vuota retorica.
L’esercizio della retorica in sé non è criticabile. Lo è se è fine a se stesso o tende a persuadere dell’errore e a spingere su una via negativa. Il terrorismo stesso porta con sé un elevato tasso di retorica. Nel senso che opera in modo che gli effetti politici e psicologici vadano molto oltre i danni materiali e le perdite di vite umane. Il terrorista mira allo spirito della società che colpisce. I corpi delle sue vittime sono un mezzo, non il fine. Tanto che dopo un episodio reale, vi è una scia di allarmi e di falsi allarmi, che amplificano l’effetto. Si uccidono alcuni perché tutti si disperino.
E i media si fanno strumento dei terroristi alimentando ansietà e paura con il ripetere all’infinito le stesse immagini drammatiche, ben oltre il dovere di informazione.
Ed è certo retorica il canto della Marsigliese da parte del Congresso del Parlamento francese, in piedi all’unisono con il presidente della Repubblica. Così come apparteneva alla retorica l’immensa sfilata dei parigini dopo le stragi di Charlie Ebdo e di Hyper Cacher. Ma si tratta di retorica tesa a rassicurare, unire e mobilitare gli spiriti alla difesa. Non è quindi la venatura retorica di queste manifestazioni, che merita di essere rifiutata. Qui lo scopo è apprezzabile e condivisibile, anche se è mantenuto generico, come è generico il richiamo ai «nostri» valori e modo di vivere. Infatti anche nell’area d’Europa cui appartengono la Francia e l’Italia, è difficile vedere una omogeneità di valori condivisi, che consenta di dirli «nostri», di tutti noi allo stesso modo. Nell’epoca attuale e nel corso della storia le società si sono divise, non solo negli interessi contingenti, ma proprio nei valori e quindi negli ideali morali e politici.
Ma quali sono i valori che meritano di essere difesi ed esser richiamati come capaci di identificare una società e un pezzo almeno di Europa? Cadute le ideologie politiche - in cui tanti hanno sperato e per cui tanti sono morti - e affievolitasi l’influenza delle chiese, si dice che l’assenza di valori per cui battersi deriverebbe dall’imperante individualismo edonistico, vera chiave di lettura della società attuale. Si tratta però di una visione incompleta, smentita da importanti realtà come il volontariato sociale o anche dalla pretesa, sentita come naturale, che siano i servizi dello Stato a garantire a tutti istruzione e salute. Ma va detto di più. La libertà dei singoli è un valore fondamentale, anche quando si manifesta nella ricerca della felicità individuale su questa terra. Il diritto alla ricerca della felicità è stato iscritto nella Dichiarazione di indipendenza americana, da persone profondamente religiose, accanto alla vita e alla libertà. In generale i diritti fondamentali delle persone riguardano gli individui. Una società di individui liberi, eguali, che lo Stato riconosce e protegge nei loro diritti è qualcosa che merita di essere difesa. I valori della democrazia non hanno bisogno di cercare il sostegno di ideologie laiche o religiose, diverse da quella che le è propria. I francesi richiamano gli ideali di Liberté, Égalité, Fraternité a partire dalla loro Rivoluzione. L’Italia democratica si fonda sul rispetto della dignità della persona umana, sull’eguaglianza da assicurare a tutti in concreto, e richiama i doveri di solidarietà sociale. Parole vuote di senso, solo perché nessuna di queste ha trovato piena realizzazione? Si tratta di ideali e progetti, linee direttrici che legittimano la lotta per renderli concreti, presuppongono il metodo della tolleranza, del rispetto delle idee e modi vita altrui e apprezzano il pluralismo. Essi distinguono le società che li assumono come fondamenti da quelle che li negano e vogliono imporre a tutti un’unica verità, un’unica obbedienza, un unico modo di vivere, secondo dettami arcaici di religione e legge civile fuse insieme. Se non valori realizzati, almeno un progetto ideale che merita di essere difeso, senza implicite nostalgie per un passato di omogeneità imposta da un progetto religioso, politico o l’uno e l’altro insieme.
La libertà richiede rispetto degli altri e eguaglianza. Essa frammenta la società in tanti modi di essere e pensare. Il vero ineliminabile collante è la tolleranza consapevole. Essa non è relativismo indifferente, ma riconoscimento della libertà altrui.
Certo, in momenti di crisi, sotto l’attacco di fanatici che disprezzano la vita altrui come la propria, la società aperta, plurale, tollerante è più debole di quella resa monolitica da una unica ideologia totalitaria. Ma la storia d’Europa, che ha conosciuto roghi e fucilazioni di eretici e oppositori, ci porta ora a dire che è quel tipo di debolezza il carattere che occorre difendere.
Avevamo dimenticato l’energia dell’odio
di Robert McLiam Wilson Corriere 23.11.15
Non voglio più guardare i loro volti. Sono scosso dalla loro giovinezza.
Sono scosso dalla loro bellezza. Quella stupida giovinezza,
quell’innocenza stordita, quella sensazione di essere eterno e la
convinzione ineluttabile, che i giovani hanno, di piacere a tutti.
Siamo tutti fissati con i volti, non è vero? Ci piace leggerne le
storie, i segni, perfino la musica. Da bambini, la prima cosa che
vediamo è un volto umano. Se siamo molto fortunati, anche l’ultima cosa
che vediamo è un volto umano, che ci accompagna, offrendoci qualcosa a
cui dire addio.
Sì, questi siamo noi. Per noi, i volti sono tutto.
Non voglio più guardare i loro volti.
È passato molto tempo da quando gli occidentali privilegiati hanno avuto
bisogno di odiare qualcuno. Hanno dimenticato cosa vuol dire. Hanno
dimenticato quanto può essere divertente l’odio.
Che cos'è l’odio? Beh, è il Grande Persuasore. Nessuna ideologia, nessun
principio, nessun ideale può avvicinarsi alla gamma e al potere
dell’odio. Con la sua energia drogata e la sua convinzione totale,
l’odio può farti mangiare montagne e bere oceani. È la benzina per
qualsiasi fiamma emotiva, un moltiplicatore sinergico per qualsiasi
risentimento, una lente di ingrandimento nucleare per qualsiasi
pregiudizio. Il suo fascino principale? Assoluta e totale rettitudine.
Quelli che odiano non credono di avere ragione, lo sanno. L’odio l’ha
detto loro. L’odio gliel’ha mostrato. E l’odio non può essere persuaso.
Con lui non si può mai negoziare.
Sono cresciuto con questa roba, a Belfast, un minuscolo buco di merda,
marinato in antichi odi, come una malattia cronica in remissione
semipermanente. Se si impara qualcosa abbastanza presto, lo si codifica
nel proprio Dna. Diventa memoria muscolare o un fenomeno autonomo come
il sonno o la respirazione. Lo conoscete come conoscete voi stessi.
Così, ho imparato che l’odio è divertente e utile. E mi dispiace dire
che ho imparato anche che, nonostante quello che ci dicono i
benpensanti, quasi mai l’amore riesce a trionfare su tutto. L’amore non
ha alcuna possibilità contro l’odio.
Esito a dire la verità. È molto brutta e priva di alcun conforto. La
vostra tristezza su Facebook e il coraggio su Twitter non fanno alcuna
differenza. Quelli che dicono che non è guerra hanno perfettamente
ragione. Non è guerra. Si tratta di un massacro. Questa settimana Parigi
è un mattatoio.
Loro erano le vittime e noi siamo gli obiettivi. Perché non si possono terrorizzare i morti.
Jean-Jacques Rousseau si era sbagliato su quasi tutto. Amo Rousseau, ma
ha torto tanto quanto è influente. Ha contribuito a creare
l’affascinante sogno dei diritti umani come qualcosa che ognuno di noi
possiede individualmente. Una sorta di cappotto che indossiamo, non
importa che tempo faccia. Qui ci sono i miei diritti. Sono parte di me,
come le mie lentiggini o il mio colore di capelli.
Non sono il primo a dire che abbiamo solo i diritti che possiamo far
rispettare. Ma direi che i nostri diritti sono in realtà quasi
completamente nelle mani delle persone che incontriamo. Belfast me l’ha
insegnato. Dopo una serie particolarmente prolungata di uccisioni per
vendetta, quando avevo 12 anni, ho imparato che quando il ragazzo con la
Browning 9MM bussa alla tua porta nel bel mezzo della notte con alcune
sincere obiezioni politiche, è lui che possiede tutti i diritti.
Ciascuno di essi. E se ha un AK-47, possiede anche i diritti di tutte le
persone accanto a te.
Questa è l’orribile verità. Il vostro diritto di vivere e respirare
dipende dalla pazienza di coloro che potrebbero essere tentati di
portarvelo via. Dipende dal loro umore e capriccio. È sempre stato così.
Questo è il vostro mondo ora. Questo è il nuovo adesso. Ma non
preoccupatevi. Vi ci abituerete. Come uomo di Belfast, posso dirvi
quello che fanno i cittadini con esperienze di conflitti. È facile.
Perché quello che fanno è esattamente questo... niente. Costruiscono una
vita intorno all’orrore e le cose vanno avanti come al solito, la nuova
normalità. Gli episodi di violenza diventano una sorta di ingorgo molto
brutto. Si tenta di evitarli, ma non c’è molto che si possa fare per
fermarli. Non è disinteresse. È l’adattamento umano, la riscrittura del
Dna.
Così, gli attacchi a Charlie Hebdo erano per aver schernito il profeta?
Ok. Ma ora queste nuove barbarie sono per le interferenze in Siria.
Davvero? Di cosa si tratta? Di sgomento dottrinale o sofferenza
geopolitica? Pensate che questo branco di sociopatici super perdenti
avrebbe potuto fornire un sunto coerente delle loro obiezioni politiche?
Avrebbero citato Mao, facendolo? Non cadete in errore, amici europei,
siete in una guerra di stronzate con stronzi senza cervello.
Osservate la traiettoria intellettuale dei guerrieri con scarso
quoziente intellettivo che fanno queste cose. Quasi la stessa di tutti i
simili cretini che conoscevo a Belfast. Questa roba è un bel salto di
carriera per chi è annoiato dal suo stile di vita da perdente. Ti sei
impantanato, spacci un po’ di droga scadente o sei un piccolo pappone?
Non sei più il bello e dannato del liceo? Perché non attrezzarti e
uccidere delle persone? In America, ragazzi bianchi vergini teste di
cavolo fanno la stessa cosa quasi ogni mese.
L’idea che gli assassini di Parigi volessero protestare contro
l’emarginazione o causare una reazione militare eccessiva in Medio
Oriente è ridicolmente fuori strada. Qui non vi è alcun contenuto,
nessuna tesi. Smettiamola di far finta che ci sia. Questo è ciò che
fanno le persone che pensano quando reagiscono all’assenza di pensiero:
riempiono i vuoti con le proprie proiezioni. Sì. C’è un messaggio. Ma è
molto semplice. È stato presente a lungo in tutti i Paesi, in tutte le
culture. Chiedete a chiunque viva in un quartiere malfamato cosa vuole
comunicare questa grottesca barbarie. Sta dicendo: siamo cattivi. Non
fateci incazzare .
Le strade erano quasi vuote oggi. Era come una specie di incubo
natalizio. Le poche persone che ho visto, camminavano con un passo
speciale, un’andatura dolce e silenziosa. Mi ha ricordato il modo in cui
la gente a volte camminava nella città dove sono nato. Sono stato
sopraffatto dalla tenerezza per i miei compagni parigini. Anch’essi oggi
mi sono sembrati bellissimi. Neri, marroni, bianchi o nessuno dei
precedenti, erano i miei fratelli, le mie sorelle. Anche loro
brillavano. Una luce brillante e tranquilla.
Dovrei essere cauto con l’analogia con l’Irlanda del Nord. Ma, in un
certo senso, si tratta ancora di un banco di prova per come cose del
genere possano accadere in Europa. Questo non fa di Belfast un modello
di ciò che sarà Parigi (o Roma o Berlino). Spero comunque di no. Perché
nessuno ha vinto a Belfast. E nulla è mai cambiato. Abbiamo detto cento
volte che non avremmo mai dimenticato. Eppure dimentichiamo sempre.
(traduzione x-trim solutions)
Amico parigino torniamo a vederci al solito bistrot
Il fondamentalismo non avrà fine. Ma non può trionfare Nelle settimane immediatamente successive all’11 settembre chi avrebbe immaginato che l’area attorno a Ground Zero sarebbe rifiorita?
ADAM GOPNIK Repubblica 24 11 2015
Caro P, la tua lettera mi ha fatto un immenso piacere, nella sua intensità e ricchezza di dettagli è stata per me una conferma delle idee che mi son fatto su come si debba vivere a Parigi a una settimana dagli attentati. Mi scrivi «all’improvviso ci ha assalito una grande amarezza. Cerchiamo di andare avanti con la vita di sempre, ma è difficile. La gente fa le sue cose ma le coeur n’y est pas ». Venendo poi alle notizie incoraggianti racconti che «la gioventù parigina, geniale come sempre, ha inventato il logo, “ Tous au bistro”, per dire usciamo ancora, fumiamo ancora, chiacchieriamo ancora, viviamo ancora la vie à la française ». Mi hai fatto anche un po’ sorridere, sai. Da noi a New York il fumo rimase tabù, anche quando eravamo stretti nella morsa del terrore. Quello non si poteva fare, neppure per indispettire un fanatico.
Alle tue parole miste di dolore ed edonismo ribelle fanno eco quelle di tanti altri amici parigini. Mi incuriosisce, pur non sorprendendomi del tutto, sentir dire che gli attentati sono un regalo politico a François Hollande. «Hollande sta facendo bene il suo ruolo di presidente, la tragedia gli attribuisce una credibilità che prima non aveva», mi scrivi. «Un evento di questa portata scombussola tutto – se andassimo a votare domani secondo me vincerebbe lui». È strano, vero, che in momenti del genere si faccia riferimento all’autorità in carica, di destra o di sinistra che sia, anche se in qualche modo non ha assolto al suo compito. Poi però aggiungi «Il maestro di cerimonia in queste sanguinose circostanze è il tempo. E chissà cosa ha in serbo il tempo per noi tutti, politici compresi. Non che ci interessi poi molto, a dire la verità. A monopolizzare pensieri e conversazioni è la jeunesse, una gioventù decimata da un altro genere di gioventù. I killer infatti avevano la stessa età delle vittime». Sono tutte reazioni che conosco – l’appello all’autorità, l’insofferenza nei confronti della politica normale, l’incredulità di fronte all’accaduto. Eppure non riesco a non pensare alla rapidità con cui la memoria collettiva sembra cancellata da un’amnesia selettiva – come se la lunga, dolorosa, catena di attacchi terroristici ai danni delle società aperte e le esperienze accumulate vengano semplicemente messe da parte ogni volta che l’occasione si ripresenta. Scrivi anche che «avendo vissuto la Guerra d’Algeria e altri orrori» sei meno scosso rispetto ai tuoi figli. Mi chiedo se questa saggia imperturbabilità non vada rispolverata in questa occasione. Molti francesi che stimiamo e ammiriamo danno voce al nuovo partito della guerra. In parte quanto meno è ancora il partito pro rifugiati, che si sforza di non venir meno alla onorevole tradizione francese di offrire asilo ai profughi. Tu e loro, giustamente, siete refrattari ai tentativi di storicizzare l’orrore, non sopportate il cosiddetto angelisme, il buonismo fuori dalla realtà che porta a cercare spiegazioni al male diverse da quelle palesi. Alla vista dei video dei killer che attaccano persone indifese in un caffè è impossibile accettare certe elucubrazioni. Capisco il motivo per cui non ne possiate più di ascoltare apologie e apologeti, e perché tu e molti dei nostri comuni amici ribadiate che non si deve sottovalutare il fanatismo religioso alla base dell’ideologia, né far finta che non esista. Hai ragione.
Però l’idea di poter sventare una minaccia terroristica attraverso l’intervento militare non è forse contraria a ogni raziocinio ed esperienza? Gli attentati di Parigi non sono stati attacchi esterni, lo dici tu stesso, ma attacchi interni, e l’interno resta lì. Dall’America non lesinano certo a voi francesi colte lezioni sulle cause del terrorismo, da ricercarsi nella situazione delle banlieue o nell’isolamento dei musulmani– anche se i figli degli immigrati si sono radicalizzati pure a Cambridge, prospera città del Massachusetts, come dimostrano i fratelli Tsarnaev che hanno creato altrettanto panico a Boston, pur facendo meno morti.
La volontà di sconfiggere l’Is è un ottimo proposito in termini strategici. Ma certo va tenuto a mente un concetto importantissimo, ossia che il nichilismo terrorista è un prodotto inevitabile e ricorrente della modernità. Nello spazio di una vita come la tua, l’Europa ha visto l’Organisation de l’armée secrète in Francia, il terrorismo algerino, la banda Baader-Meinhof, le Brigate rosse, e ora l’Is. L’Is sconfitta può lasciare un residuo ancora peggiore. Negli anni Settanta e Ottanta del Novecento il terrorismo era terribile in Europa – ma chi parla più ormai delle bombe dell’Ira nei grandi magazzini londinesi? Il terrorismo è un leitmotiv della modernità.
Ma la nostra amnesia a riguardo può dimostrare, in maniera intelligente e sovversiva, che il terrorismo in fin dei conti è impotente: dimentichiamo perché in realtà non conviviamo ogni giorno con la paura, anche se “dovremmo”. L’amnesia avviene perché, a suo modo, per strano che sia, è la verità. La tolleranza e il pluralismo delle società liberali si prestano ad abusi e ad attacchi, ma non per questo la tolleranza è sbagliata o il pluralismo destinato all’insuccesso. Parigi, Londra e New York sono sede di azioni terroristiche perché rappresentano in forma irritante il potere del pluralismo. I jihadisti cercano l’esplosione per attirare l’attenzione, se no nessuno baderebbe a loro.
La verità di fondo del terrorismo è che continua a esistere e a spaventare, ma fortunatamente è un fenomeno raro. Nelle settimane dopo l’undici settembre, chi qui a New York mai avrebbe immaginato che nei quindici anni successivi Manhattan, e in particolare l’area attorno a Ground Zero, avrebbero vissuto una prosperità senza precedenti? Da allora in questa città non è mai più stato realizzato un solo attentato di massa; ovviamente le cose possono cambiare da qui a un’ora, o domani, non esistono infatti garanzie di “sicurezza”. Scegliamo di immaginare che se “sconfiggiamo” il terrorismo all’estero possiamo porvi fine. Ma la verità storica non è un’altra? Il terrorismo non avrà fine. Ma non può trionfare. Non è forse questa in realtà la duplice verità, ben più ardua, con cui dobbiamo convivere? Non sai quanto spero di vederti presto in uno dei nostri soliti posti. Tous au bistro, sul serio, assieme agli amici, comunque la pensino.
© New Yorker, 2015 Traduzione di Emilia Benghi
“Ci vuole la guerra ma si vince con la battaglia culturale”
Per sconfiggere il Califfato sono necessarie le truppe di terra in Siria. Però non basta. Dobbiamo avviare programmi di recupero per soffocare il disagio delle nostre periferie”
ANTONELLO GUERRERA Repubblica 24 11 2015
Per sconfiggere il Califfato e il terrorismo in Europa ci vogliono le truppe di terra in Siria. E Assad deve rimanere al suo posto, almeno per ora. Oramai lo hanno capito tutti, anche se non si può dire. Ma c’è un paradosso».
Quale?
«Anche l’Is agogna la guerra con i militari occidentali, nella sua ideologia apocalittica. Quindi, in teoria, dovremmo evitarla. Ma la realtà è questa. E non c’è altra scelta».
Michael Ignatieff non ha dubbi. Nel 2003 appoggiò la guerra in Iraq di Bush. Poi si è pentito di quel «disastro». Oggi, però, Ignatieff la pensa di nuovo così. Per l’ex politico canadese, 68 anni, professore ad Harvard e uno dei massimi esperti di geopolitica e diritti umani, lo Stato Islamico non può essere sconfitto solo con i raid, per quanto massicci.
Professore, ma chi le manderà le truppe?
«Questo è il problema. Per ora nessuno sembra pronto a farlo. Eppure le milizie sciite, sunnite e gli stessi curdi non avranno mai un impatto decisivo. Se si vuole davvero dare un colpo fatale al Califfato, bisogna erodere il territorio che ha conquistato, come è stato fatto con i talebani in Afghanistan».
Che però continuano a scuotere Kabul. E, nonostante l’intervento di terra americano, l’Iraq è nel caos. E vi è nato l’Is.
«Vero. Ma quando si decide un intervento militare non si può evitare anche un impegno di terra per ristabilire l’ordine sociale e politico negli anni a venire. Guardi che cosa è successo in Libia, un paese allo sbando, con tutte le conseguenze del caso, vedi gli abnormi flussi migratori. Far cadere oggi Assad, con metà territorio in mano agli jihadisti, sarebbe un errore. Perché c’è un male peggiore. Bisogna subito raggiungere un accordo tra regime e oppositori moderati per il coprifuoco e concentrarsi sulla vera battaglia, quella contro il Califfato. Tutto il resto verrà dopo».
E lei crede che ciò sia realistico?
«Sarà durissima, chiaro. Ma è l’unica soluzione. Magari sotto l’ombrello dell’Onu. O comunque sulla base di una cooperazione militare tra Stati Uniti e Russia. Bisogna erodere terreno all’Is con i militari. Giorni fa lo ha detto persino una storica democratica come Hillary Clinton. Solo così si potrà limitare il terrorismo in casa nostra. Perché gli attentati come quelli di Parigi hanno due radici perverse: le enormi risorse dell’Is destinate ai foreign fighter che abbiamo in casa e il fascino che suscita in loro il Califfato».
È davvero la Terza guerra mondiale, come disse tempo fa Papa Francesco?
«No. Ci sono hotspot, focolai ferali, pericolosissimi. Ma non userei il termine “guerra”».
Perché? Persino il presidente Hollande l’ha utilizzato dopo la mattanza di Parigi.
«Perché non è il termine adeguato. Anche se Hollande ha tutto il diritto di usarlo, figuriamoci. Ma per sconfiggere questo tipo di terrorismo non basta la guerra. Ci vuole anche una battaglia culturale, economica, umanitaria: bisogna aumentare la spesa sociale e i programmi di recupero in modo da soffocare il disagio nelle nostre periferie. Eppure sono almeno vent’anni che parliamo di questo. E solo qualche anno fa le banlieue di Parigi erano state messe a ferro a fuoco. Ma non abbiamo imparato niente. Ora, improvvisamente, tutti ci stupiamo di Molenbeek. Ma ce ne sono a decine in tutta Europa, dormienti. E facciamo finta di non accorgercene».
A questo proposito, c’è chi dice che il multiculturalismo ha fallito. È vero?
«Assolutamente no. Nel mio paese, in Canada, è stato un successo. E l’integrazione migliora di anno in anno. In certe parti d’Europa, invece, la situazione è diversa. C’è una fetta di popolazione tra i 18 e i 30 anni ai margini, che passa troppo facilmente dalla microcriminalità alla radicalizzazione terrorista. È lì che lo Stato deve agire, e in fretta. Ma la battaglia culturale ha bisogno anche di altro».
Cioè?
«Mi spaventa l’avversione verso i migranti, gonfiatasi terribilmente dopo gli attentati in Francia. Ciò che è successo negli Usa, con il voto del Congresso contro l’accoglienza dei siriani, può essere il primo passo verso l’abisso. E anche la Germania esita sempre più».
Mentre i movimenti xenofobi avanzano.
«Dovessimo chiudere le frontiere, commetteremmo un errore colossale. Intere generazioni di rifugiati non ce le perdonerebbero mai. Sarebbe il capitolo finale della nostra civiltà. E la Francia, in questo contesto, rischia parecchio».
Perché?
«In qualsiasi “guerra”, in particolare quella al terrorismo, il rischio è quello di rinunciare, più o meno coscientemente, ai diritti umani. Questo sia nei confronti dei propri cittadini, vedi la riduzione delle libertà e una sorveglianza sempre più pervasiva, sia nei confronti dei nemici, come il ricorso alla tortura. Lo abbiamo visto dopo l’11 Settembre. Spero che ciò non accada mai nella culla di Liberté, Égalité, Fraternité. Sarebbe il primo passo verso uno scontro di civiltà».
L’Is «forza» alleanze e confini democratici
di Adriana Castagnoli Il Sole 24.11.15
Il sedicente Stato Islamico sta ampliando il differenziale di
contemporaneità con l’Occidente. Schiavismo, spoliazioni,
brutalizzazione di etnie minoritarie hanno abbattuto confini e città in
Medio Oriente e Africa. Fino a che punto le democrazie europee sapranno
reggerne l’urto e con quali effetti sull’ordine mondiale?
La narrazione dell’IS come gruppo terroristico è utile alla retorica dei
leader politici, ma può essere fuorviante. Perché terrorismo e
uccisioni sono soltanto tattica, cifre e mezzi di un modello di Stato
globale, i cui fondamenti ideologici e storici affondano nel
panislamismo e la cui costruzione è oggi possibile grazie all’uso della
tecnologia più sofisticata. L’IS è una rete panislamica globale.
Diversamente da Al Qaeda, ha un esercito dotato di capacità militari, un
vasto territorio fra Iraq e Siria, controlla infrastrutture e linee di
comunicazione, ha una struttura amministrativo-burocratica e si
autofinanzia. Il suo obiettivo: creare un “puro” Stato sunnita,
cancellare i confini stabiliti in Medio Oriente dalle potenze
occidentali nel XX secolo, e porsi come l’autorità politica, religiosa e
militare del mondo musulmano.
Per contrastarlo, affermano gli esperti, non sono sufficienti le misure
antiterroristiche e antisommossa messe a punto in precedenza, ma serve
una più complessa «strategia di contenimento offensivo» che combini
azioni militari mirate, limitate e coordinate con sforzi diplomatici ed
economici, allineando gli interessi dei molti paesi minacciati.
Questa strategia implica il coinvolgimento dei maggiori attori globali e
regionali come Russia, Cina, Turchia, Arabia Saudita, Iran. Ma, com’è
stato osservato, non è affatto scontato che «il nemico del tuo nemico
sia tuo amico». La Cina, per esempio, criticando il doppio standard
occidentale verso il terrorismo di matrice islamica, ha chiesto alla
comunità internazionale di giustificare il giro di vite contro gli
oppositori interni che appartengono a etnie minoritarie di religione
musulmana come gli Uiguri. L’Iran è un partner altrettanto ambiguo nella
lotta contro l’IS perché il caos in Iraq è stato anche alimentato
dall’ostilità del governo sciita di Baghdad nei confronti dei sunniti,
dopo la partenza degli americani nel 2011. Sinora Arabia Saudita e Stati
del Golfo hanno mirato innanzitutto ad azzoppare l’Iran e rovesciare il
presidente Bashar al-Assad, sostenendo i ribelli siriani. Mentre la
Russia, che pure ha la responsabilità storica della slavina afghana, è
ricorsa all’hard-power della sua aviazione non solo per sostenere
l’alleato siriano, ma per rientrare da protagonista nello scenario
geopolitico mediorientale. A sua volta la Turchia dell’autocrate Erdogan
preme per entrare nell’UE, ma combatte i curdi che lottano contro l’IS.
La radicalizzazione del conflitto rafforza, peraltro, l’emergere di
un’identità panislamica che complica la presenza occidentale in Medio
Oriente. È difficile per europei e americani proteggere le popolazioni
locali solo con interventi dal cielo. Così, fra settembre e ottobre, si
calcola che circa 70mila civili si siano rifugiati nei territori
controllati dall’IS per scappare ai bombardamenti russo-siriani e
trovare cibo a buon prezzo.
Il punto è che una volta indebolitesi le élites tecnocratiche, del
petrolio e militari un tempo pro-occidentali, gli interessi
nazionalistici e regionali hanno ripreso il sopravvento. E ogni
eccessiva reazione delle potenze occidentali potrebbe approfondire il
dissenso con i paesi a maggioranza musulmana e minare le libertà civili
in patria. Né si possono deplorare povertà e diseguaglianze come fattori
chiave poiché essi sono presenti in molte regioni del mondo, ma solo
combinati con la prolungata crisi di legittimità e l’autocrazia dei
regimi di Medio Oriente e Nord Africa hanno generato l’humus per
l’attuale jihadismo.
Intanto i confini democratici d’Europa sono messi a dura prova anche
dalla crisi dei rifugiati che ha rafforzato i sentimenti xenofobi. Alle
sue porte le promesse delle primavere arabe sono svanite lasciando una
scia di Stati falliti o preda di convulsioni tribali. La fine della Pax
americana in Medio Oriente richiederebbe un’assunzione di responsabilità
da parte europea e un rafforzamento della comunità transatlantica, ma
all’orizzonte sembrano profilarsi invece più probabili misure di
arroccamento entro i propri confini nazionali.
L’interesse di Teheran
di Alberto Negri Il Sole 24.11.15
La Siria non è soltanto il nome di un Paese e di una guerra ma di tante guerre. Dopo la strage di Parigi è diventata anche la “nostra” guerra: ma non tutti la vedono allo stesso modo. «Se pensate che l’Iran diventi la fanteria dell’Occidente nella lotta al Califfato vi sbagliate», diceva ieri un alto funzionario del ministero degli Esteri iraniano.
parlava prima dell'incontro tra Putin e la Guida Suprema Alì Khamenei: in questa concisa sentenza si coglie la posizione della repubblica islamica, pronta ad afferrare l'occasione di riciclarsi come alleata contro un nemico comune ma ben decisa a fare valere i suoi interessi. Russi e iraniani non serviranno agli occidentali la testa del califfo Al Baghadi o di Assad senza contropartite. Soprattutto _ è emerso ieri dall'incontro di Teheran_ né gli uni né gli altri hanno intenzione di elargire favori agli Stati Uniti, che per altro sembrano per il momento intenzionati a lasciare agli europei la gestione della minaccia del radicalismo islamico.
Sul destino di Assad le divergenze degli occidentali con Mosca e Teheran non sono sottili e vanno ben oltre la sorte dell'autocrate di Damasco. Al tavolo di Vienna gli iraniani sono stati in linea con la Russia: cosa fare della Siria lo devono decidere i siriani. Sempre che la ex Siria riesca a ricomporsi come stato unitario.
Questa guerra, che sta per diventare anche degli occidentali e della Francia, è prima di tutto un conflitto per procura tra gli sciiti dell'Iran e i sunniti del Golfo con la partecipazione in primo piano della Turchia, membro riluttante delle Nato, che sta combattendo almeno tre battaglie, una del mondo sunnita contro Assad e l'Iran sciita, una contro i curdi, un'altra per la leadership tra i musulmani del Levante. Per questo Ankara è stata fin troppo compiacente nei confronti del Califfato.
Teheran non intende mollare né si capisce perché dovrebbe se si prevede che presto vengano tolte le sanzioni. Obama chiede che Assad faccia al più presto le valigie ma le valutazioni di diplomatici e generali iraniani espresse in una recente riunione riservata sono assai distanti: secondo loro potrebbe restare in sella altri quattro anni. E' un'esagerazione, Teheran e Mosca sanno che è a fine corsa, ma hanno investito troppo in uomini, mezzi e denari nel regime. Il prezzo è alto.
Gli iraniani, come i russi, vogliono tutelare un investimento strategico. La Siria di Hafez Assad fu l'unico Paese arabo a schierarsi con Teheran nella guerra scatenata nel 1980 dall'Iraq di Saddam, allora foraggiato dagli emiri del Golfo. E la Siria costituisce il canale di rifornimento di armi per gli Hezbollah libanesi che assicurano all'Iran la proiezione verso il Mediterraneo e Israele. Fedele a questa alleanza Bashar Assad ha rifiutato sia le pressioni di Erdogan che quelle delle monarchie del Golfo che nel 2011 offrirono a Damasco l'equivalente di tre anni di bilancio dello stato siriano per rompere l'alleanza con Teheran.
E' chiaro che per l'Arabia Saudita, le petromonarchie e i turchi l'accordo sul nucleare con Teheran è stato un colpo fatale: l'Isis non era più un'arma di pressione nei confronti degli ayatollah utile anche all'Occidente. Questa è una spiegazione del fatto che gli attentati siano arrivati prima in Turchia e poi nel cuore dell'Europa: un messaggio dei jihadisti e dei loro complici sunniti a chi li ha usati lasciandoli poi in balìa dei missili russi e iraniani. Ecco come un guerra lontana è diventata la nostra guerra. Ma siamo sicuri che lo sia davvero? Prima di avviarla l'Occidente dovrà chiedersi chi sono gli amici e i nemici: dati i precedenti e il groviglio di interessi c'è da dubitare che ne sia capace.
di Alberto Negri Il Sole 24.11.15
La Siria non è soltanto il nome di un Paese e di una guerra ma di tante guerre. Dopo la strage di Parigi è diventata anche la “nostra” guerra: ma non tutti la vedono allo stesso modo. «Se pensate che l’Iran diventi la fanteria dell’Occidente nella lotta al Califfato vi sbagliate», diceva ieri un alto funzionario del ministero degli Esteri iraniano.
parlava prima dell'incontro tra Putin e la Guida Suprema Alì Khamenei: in questa concisa sentenza si coglie la posizione della repubblica islamica, pronta ad afferrare l'occasione di riciclarsi come alleata contro un nemico comune ma ben decisa a fare valere i suoi interessi. Russi e iraniani non serviranno agli occidentali la testa del califfo Al Baghadi o di Assad senza contropartite. Soprattutto _ è emerso ieri dall'incontro di Teheran_ né gli uni né gli altri hanno intenzione di elargire favori agli Stati Uniti, che per altro sembrano per il momento intenzionati a lasciare agli europei la gestione della minaccia del radicalismo islamico.
Sul destino di Assad le divergenze degli occidentali con Mosca e Teheran non sono sottili e vanno ben oltre la sorte dell'autocrate di Damasco. Al tavolo di Vienna gli iraniani sono stati in linea con la Russia: cosa fare della Siria lo devono decidere i siriani. Sempre che la ex Siria riesca a ricomporsi come stato unitario.
Questa guerra, che sta per diventare anche degli occidentali e della Francia, è prima di tutto un conflitto per procura tra gli sciiti dell'Iran e i sunniti del Golfo con la partecipazione in primo piano della Turchia, membro riluttante delle Nato, che sta combattendo almeno tre battaglie, una del mondo sunnita contro Assad e l'Iran sciita, una contro i curdi, un'altra per la leadership tra i musulmani del Levante. Per questo Ankara è stata fin troppo compiacente nei confronti del Califfato.
Teheran non intende mollare né si capisce perché dovrebbe se si prevede che presto vengano tolte le sanzioni. Obama chiede che Assad faccia al più presto le valigie ma le valutazioni di diplomatici e generali iraniani espresse in una recente riunione riservata sono assai distanti: secondo loro potrebbe restare in sella altri quattro anni. E' un'esagerazione, Teheran e Mosca sanno che è a fine corsa, ma hanno investito troppo in uomini, mezzi e denari nel regime. Il prezzo è alto.
Gli iraniani, come i russi, vogliono tutelare un investimento strategico. La Siria di Hafez Assad fu l'unico Paese arabo a schierarsi con Teheran nella guerra scatenata nel 1980 dall'Iraq di Saddam, allora foraggiato dagli emiri del Golfo. E la Siria costituisce il canale di rifornimento di armi per gli Hezbollah libanesi che assicurano all'Iran la proiezione verso il Mediterraneo e Israele. Fedele a questa alleanza Bashar Assad ha rifiutato sia le pressioni di Erdogan che quelle delle monarchie del Golfo che nel 2011 offrirono a Damasco l'equivalente di tre anni di bilancio dello stato siriano per rompere l'alleanza con Teheran.
E' chiaro che per l'Arabia Saudita, le petromonarchie e i turchi l'accordo sul nucleare con Teheran è stato un colpo fatale: l'Isis non era più un'arma di pressione nei confronti degli ayatollah utile anche all'Occidente. Questa è una spiegazione del fatto che gli attentati siano arrivati prima in Turchia e poi nel cuore dell'Europa: un messaggio dei jihadisti e dei loro complici sunniti a chi li ha usati lasciandoli poi in balìa dei missili russi e iraniani. Ecco come un guerra lontana è diventata la nostra guerra. Ma siamo sicuri che lo sia davvero? Prima di avviarla l'Occidente dovrà chiedersi chi sono gli amici e i nemici: dati i precedenti e il groviglio di interessi c'è da dubitare che ne sia capace.
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