lunedì 16 novembre 2015

Un depistaggio politico

A noi!Tommaso Cerno: A noi! Cosa ci resta del fascismo nell'epoca di Berlusconi, Grillo e Renzi, Rizzoli

Risvolto
Ancora nel 2014, fra gli italiani ci sono santi (pochi), come Beppino Englaro, e poeti (pochissimi): fra questi, lo stesso Berlusconi, su cui tutto si può dire ma non che non sia un grande visionario. I più, però, sono conformisti, come dai tempi del Gattopardo: tutto cambia perché nulla cambi. Ecco quindi che a parole oggi siamo "politically correct", ma le nostre scelte concrete tradiscono che abbiamo paura del “diverso” o di chi ha idee innovative, originali. Questo – mostra Cerno – avviene ovunque: in politica e nella società, nella burocrazia e persino nelle organizzazioni a tutela dei diritti civili.


Nati con la «camicia nera». Nel Dna italiano l’ombra del Duce 
In «A noi!» (Rizzoli) Tommaso Cerno collega i difetti del Paese agli errori della stagione mussolinianaLa martellante comunicazione di Renzi, le felpe di Salvini, i diktat digitali di Grillo, i misteri L’eccidio alla Fiera di Milano del 12 aprile 1928 è stato «cancellato dalla memoria collettiva» 

16 nov 2015  Corriere della Sera Di Antonio Carioti
Quelli che... Mussolini è dentro di noi » cantava Enzo Jannacci, esprimendo con l’immediatezza folgorante dell’artista l’idea che il fascismo avesse lasciato un’eredità profonda nella mentalità e nei comportamenti del popolo italiano. La stessa tesi che Tommaso Cerno, studioso di storia e direttore del «Messaggero Veneto», argomenta con ampiezza nel libro A noi!, un tentativo di leggere l’Italia di oggi come una proiezione di quella che si prosternava (anche se non proprio tutta) ai piedi del Duce. 
Se gli italiani sono nati con la camicia, afferma l’autore nell’introduzione, si tratta senza dubbio di una camicia nera. 
Così il processo di crescente personalizzazione della politica, che si è avviato con la sbrigativa risolutezza di Craxi, poi ha trovato un interprete pirotecnico in Berlusconi e oggi produce la martellante comunicazione social di Matteo Renzi, le felpe colorate di Matteo Salvini e i diktat digitali di Beppe Grillo, viene visto da Cerno come una riproposizione più o meno aggiornata dello stile mussoliniano. Così come l’occupazione partitocratica della Rai richiamerebbe l’uso sapiente della radio e dei filmati Luce da parte del regime. 
Tuttavia il problema non riguarda soltanto i vertici politici. Le considerazioni di Cerno chiamano in causa l’intera società e il costume diffuso. Ad esempio l’ossessione maschilista per il sesso, mascherata da una patina di perbenismo bigotto. Oppure il rapporto incestuoso tra la grande industria e uno Stato mangiatoia, con la pratica antica di privatizzare i profitti e socializzare le perdite a discapito dei contribuenti. Ma anche la pervasività della corruzione, da cui il fascismo, contrariamente a certi stereotipi ripetuti non solo in ambienti nostalgici, non era affatto immune: il ventennio mussoliniano fu tra le altre cose, scrive Cerno, «un continuo cantiere di ruberie, truffe ai danni dello Stato, ricatti economici ai cittadini, prebende, mostruosi conflitti d’interesse». 
C’è poi il capitolo tragico dei misteri sanguinosi. L’eccidio dinamitardo alla Fiera di Milano del 12 aprile 1928 (venti morti) rimase non solo impunito, ma appare tuttora indecifrabile anche sul piano della ricostruzione storica, molto peggio della strage di piazza Fontana, anche perché oggi risulta del tutto «cancellato dalla memoria collettiva». 
Insomma gli elementi di continuità sono ben solidi, anzi si ha l’impressione che i vizi denunciati da Cerno, in primo luogo la tendenza al conformismo e all’opportunismo che caratterizza gli italiani, emergano dal libro non solo come un pesante lascito del regime, che certo per alcuni versi li portò all’esasperazione, ma anche, forse soprattutto, come fenomeni di lunga durata, dei quali affiorano tracce consistenti anche in epoca prefascista e preunitaria. In fondo Giacomo Leopardi scrisse un non meno sconsolato Discorso sopra lo stato presente dei costumi degl’italiani nell’anno di grazia 1823.

Dalla tragedia all’operetta così sopravvive l’eterno fascismo italiano 
Tommaso Cerno ricostruisce nel libro “A Noi!” la presenza di lungo periodo dell’ideologia mussoliniana Che, più del passato, spiega le vicende della politica di oggi
FILIPPO CECCARELLI Repubblica 18 11 2015
Si può pensare alla storia, ha scritto Regis Debray, come una specie di condominio per cui l’ultimo pianerottolo non assomiglia a quello sottostante, ma a quello due piani sotto. Così, per meglio comprendere il potere e i potenti di questi ultimi anni — uomini forti e soli al comando — sembra inutile soffermarsi sui pallidi, esili, sottili e prudenti capi dc della Prima Repubblica, ma tocca riandare diretti e senza indugi al fascismo.
È quanto ha fatto Tommaso Cerno in questo A noi!, impresso su una copertina d’iper grafica pop littoria, sottititolo: Cosa ci resta del fascismo nell’epoca di Berlusconi, Grillo e Renzi (Rizzoli). E per quanto sia evidente che di quel ventennio ci restano diverse cose, la novità è che forse solo un giornalista, scrittore e conduttore televisivo quarantenne — giusto l’età del premier — poteva trarre vantaggio dal tempo lungo per «riscoprire» con occhi distaccati la figura di Mussolini: «Come un biologo al microscopio ».
Perciò soffermandosi, più che sui disastrosi eventi, sui simboli, i miti, i rituali, le coreografie, gli stereotipi e i linguaggi che spesso a suon di metafora quell’esecrato regime ha silenziosamente, forse inconsapevolmente, comunque inesorabilmente trasmesso alla politica e in special modo ai leader della Seconda Repubblica: dal Cinghialone con gli stivali al Cavaliere con il Sole in tasca fino al Rottamatore futurista; senza tralasciare, nell’incalzante disamina, il razzismo e la volgarità del Senatùr o gli insulti del Buffone a cinquestelle, ritenuto alfiere di una sorta di «sansepolcrismo post-moderno».
Nel frattempo, osserva Cerno, il celebre balcone di Piazza Venezia è chiuso con un lucchetto. Ma oggi non c’è chiavistello, tanto meno copyright, che possano bloccare l’eredità del duce quanto a dispositivi di comando, spasmo di comunicazione (iconografia, musica), centralità del corpo, ricadute carismatiche, culto della personalità e indeterminatezza tra ciò che è del capo e ciò che è di tutti.
Non è questione di revisionismo. Tanto meno si tratta di scandalo o iconoclastia a buon mercato. Sia pure talvolta un po’ forzato per la foga dell’autore a tutto comprendere nel meccanismo analogico-comparativo, appare chiaro che antifascista fu l’Italia solo dal 1946 fin verso la metà degli anni 80. Poi basta, e su quella stagione si chiude una parentesi.
Forse c’entrano le morti di Moro e di Berlinguer, entrambe all’altezza del dramma geopolitico della guerra fredda. Forse in questo ignaro mussolinismo ha un peso il carattere nazionale con le sue ineffabili regolarità: a partire dalla figura della mamma (Rosa, per inciso, si chiamavano le mamme di Mussolini e di Berlusconi, oltre a quella di Andreotti) per finire con la vocazione al trasformismo e/o all’intrigo di palazzo e al tradimento. E certo gli esempi non mancano.
Del resto con la personalizzazione verticale della leadership e il revival del decisionismo ecco che la democrazia, almeno come la si intendeva nella Costituzione, tende a farsi optional, seconda scelta, o finzione. Consumata nella vergogna la «Repubblica dei partiti», il potere torna quello di prima e riemerge l’eterno fascismo all’italiana, l’inconfessabile continuità di cui hanno scritto Pier Paolo Pasolini e Giorgio Bocca. Un’attitudine mentale, uno stato latente dell’animo che si riconosce e si misura più nell’opportunismo o nell’obbedienza dei governati che non nelle tecniche di chi, ieri da un balcone con la faccia cattiva e la voce grossa, oggi con le chiacchiere e le smancerie in tv o sui social, si ostina spesso invano a governarli.
In realtà, come ha scritto Bernardo Valli, «la storia, più che ripetersi, ti insegue nella memoria quando gli avvenimenti che la ritmano hanno qualche somiglianza con quelli di un tempo tragico e remoto, rimasto inchiodato nei ricordi. Basta allungare la mano per rianimare fatti di 70-80 anni fa». Sennonché la replica di questo fascismo domestico va in scena secondo modelli sempre più degradati. Come se la storia si riducesse a operetta, eterna commedia,grottesco cinepanettone, farsa terribilmente oscena: ma troppo lontana nei suoi esiti dalla tragedia fascista.
Così fra le ricostruzioni
hard- boiled di Benito, Claretta e donna Rachele che si prendono a spintoni e a sberle a Salò e il racconto di Veronica o delle «cene eleganti» del berlusconismo terminale il congegno forse si riscalda; così come fra lo scempio di Piazzale Loreto e i servizi sociali di Cesano Boscone si frappone un’aggrovigliata disparità di destini che rende insieme più leggero e pesante ogni paragone.
Ma la grande lezione, la migliore scoperta è che l’uomo forte è in realtà assai debole. O almeno: gli stanno addosso la vita privata, la famiglia, le amanti, le brutte figure, i dossier, la malattia, la sua stessa non infrequente follia. E non si capisce mai se tutto questo sia un bene o un male; se per caso il saluto stentoreo che dà titolo al libro di Tommaso Cerno, A noi!, non si possa dirottare in un più consolante congedo: «a loro!», poveri diavoli del potere, sempre diversi e uguali nel comune destino che li aspetta al varco.

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