venerdì 20 novembre 2015

Un mese in un faro

Il CiclopePaolo Rumiz: Il Ciclope, Feltrinelli pagg. 160 euro 15

Risvolto
Un’isola uncinata al cielo con le sue rocce plutoniche, attracco difficile, fuori dai tracciati turistici, dove buca il cielo un faro tuttora decisivo per le rotte che legano Oriente e Occidente. Paolo Rumiz, viandante senza pace, va a dividere lo spazio con l’uomo del faro, con i suoi animali domestici: si attiene alle consuetudini di tanta operosa solitudine, spia l’orizzonte, si arrende all’instabilità degli elementi, legge la volta celeste. Gli succede di ascoltare notizie dal mondo, e sono notizie che spogliano l’eremo dei suoi privilegi e fanno del mare – anche di quel mare apparentemente felice – una frontiera, una trincea. Il faro sembra fondersi con il passato mitologico, austero Ciclope si leva col suo unico occhio, veglia nella notte, agita l’intimità della memoria (come non leggere la presenza familiare della Lanterna di Trieste), richiama – sommando in sé il “gesto” comune delle lighthouse che in tutto il mondo hanno continuato a segnare la via – le dinastie dei guardiani e delle loro mogli (il governo dei mari è legato all’anima corsara delle donne), ma soprattutto apre le porte della percezione. Nell’isola del faro si impara a decrittare l’arrivo di una tempesta, ad ascoltare il vento, a convivere con gli uccelli, a discorrere di abissi, a riconoscere le mappe smemoranti del nuovo turismo da crociera e i segni che allarmano dei nuovi migranti, a trovare la fraternità silenziosa di un pasto frugale. Rumiz ci porta con sé davanti al Ciclope, dentro il Ciclope, per dirci la scoperta della solitudine, del vivere con poco, della confidenza con il cielo, con il ritmo della luce, con la propria interiorità e l’inquietante meraviglia del mondo.

Un “viaggio immobile” diventato avventura dell’anima.

Sento che l’Isola è un sensore nell’universo che la circonda. Un’antenna parabolica di pensieri vaganti. Qui sento, non ho bisogno di capire.


Senza internet né sms come resistere al silenzio di un faro 
“Il Ciclope” di Paolo Rumiz: un mese trascorso su un’isola lontana da tutto che divenne un reportage a puntate su “Repubblica”

FRANCO MARCOALDI Repubblica 20 11 2015

Arriva un giorno in cui anche il viaggiatore più inquieto, il viandante perenne, sente il bisogno di sostare. Di viaggiare da fermo. Di individuare un luogo remoto che imponga solitudine e silenzio. È lì che comincia il viaggio dell’anima: una navigazione ancor più tempestosa di quella per mare, un turbinio di visioni, ricordi, incubi, emozioni, allucinazioni, miraggi, pensieri.
Quel giorno è arrivato anche per Paolo Rumiz, che dopo tanto peregrinare per il pianeta, ha deciso di trascorrere tre settimane in uno dei più alti e impervi fari del Mediterraneo — situato su una minuscola isola subito trasformata in “Isola”, con la maiuscola: paradossale incontro tra l’auto-reclusione e la massima libertà. Lasciati a terra internet, smartphone, mail e messaggini, ora Rumiz si trova solo con se stesso. Con le sue gioie quiete e i suoi allarmi emotivi — con le sue fantasie, le sue riflessioni, i suoi fantasmi. Ai quali si abbandona sospinto da un contatto finalmente diretto e totale con gli elementi naturali primigeni: i venti, le maree, le martellanti piogge, i fulmini assassini, i rari giorni di bonaccia. Nell’Isola regna l’occhio ciclopico del faro, che casualmente si raddoppia nell’unico occhio di un asino guercio, grande consumatore di limoni, subito soprannominato Kyklops. Ciclope, del resto, è anche il titolo di questo libro estremo che racconta cosa passa per la testa di un uomo che va in cerca di un luogo altrettanto estremo, dove poter finalmente tornare in contatto con la propria interiorità. Un luogo dove si possa riscoprire il senso di una vita più autentica e frugale, più rispettosa del concetto di limite — quindi timorosa del Dio, o degli dèi, che comunque sovrastano ogni forsennata e ridicola hybris.
Rumiz non ci dice dove si trovi l’Isola in cui si è autosegregato (forse per preservarne l’intatta magia), anche se dissemina il libro di un tale numero di tracce da consentire di poterla individuare. Ma in fondo, a che servirebbe, visto che stiamo parlando di un luogo dell’anima? È infinitamente più importante sapere cosa accade in quello scoglio circondato dal mare. È più importante conoscere il continuo sfrangiarsi e ricomporsi del tempo quotidiano secondo i ritmi peculiari di una “fabbrica” che “lavora” di notte. E venire a contatto così con una dimensione del sonno (e dei sogni) più simile a quella del regno animale, sottoposta a continue e quanto mai prepotenti variabili metereologiche. È più interessante perlustrare uno spazio minuscolo di terreno, ricco di sorprese: finocchietto di mare, aglio selvatico, asparagi, gemme di cappero. E fare amicizia con i suoi specialissimi ospiti: i faristi, esemplari di una specie in via di estinzione, resi superflui dai Gps e dall’automazione, ultimi monarchi assoluti di regni remoti e reclusi. Creature postume di poche o punte parole, votate alla fantasia, e spesso e volentieri in balia della follia. Uomini e donne senza padrone, eppure sempre in costante e frenetica attività. Presi come sono a controllare il generatore, fare il pane, badare ai tubi della cisterna, alla stazione meteo. Per non parlare dell’attività più importante, quella di vestali della sacra luce: «Una lampadina da dodici watt, grande come un’unghia», che grazie a una fantasmagorica magia di prismi, riflessi e rifrazioni, si potenzia a un punto tale da illuminare il mare avanti a sé per decine di miglia. Anche Rumiz, quando ne viene a conoscenza, rimane basito: «Quel capolavoro millimetrico ti costringe quasi a prostrarti, come davanti a una divinità, un enigma. O la pupilla di una sfinge».
La vita sull’Isola, del resto, è piena di misteri. Apre il campo alle peggiori allucinazioni e alle più grandi meraviglie. Qui tutto è possibile. Anche che il faro, scosso dal muggito straziante del vento, “pianga”. Una volta giunti qui si è costretti, volenti o nolenti, a oltrepassare la “linea d’ombra”. Ed è bene riconoscere, afferma Rumiz, che «l’aldilà è a un passo». Ma i benefici, per l’autore, si avvertono anche al di qua di quella linea ideale. Quasi che soltanto guardando il presente da tale scoglio desertico risulti infine chiara la logica di sopruso e rapina che governa le vicende del mondo. È proprio vero: molte, moltissime cose succedono nell’Isola — dove soltanto in apparenza poco o nulla accade.

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