domenica 6 dicembre 2015
Ancora su "Stato, Grande Spazio e nomos", di Carl Schmitt
Alla ricerca dello spazio perduto
Lo sforzo intellettuale di Schmitt per definire un nuovo ordinamento
giuridico del pianeta appare oggi nient’altro che una splendida
archeologia di fronte al disordine mondiale del nostro tempo
di Mario Andrea Rigoni Corriere La Lettura 6.12.15
Il nome di Carl Schmitt (1888-1985) si associa, ormai anche
nell’opinione corrente, oltre che all’odioso antisemitismo,
antiamericanismo e filonazismo delle sue posizioni personali (fu
arrestato e processato dagli Alleati a Norimberga per l’autorevole
sostegno dato al Terzo Reich), anche e innanzitutto all’elaborazione di
fondamentali analisi e concetti politico-giuridici, delineati con
impressionante lucidità teorica ed esposti con una nitidezza ed
efficacia da eccellente scrittore (lo stile è appartenuto sempre più ai
conservatori o ai reazionari che ai progressisti).
Molti dei temi del suo pensiero, al quale si sono interessati esegeti e
studiosi di ogni tendenza, marxisti ed ex marxisti compresi, sono
ripresi in una raccolta di saggi scritti fra il 1927 e il 1978 e
pubblicati adesso da Adelphi con il titolo Stato, grande spazio, nomos ,
che fanno da corona, nella forma della precisazione, dell’integrazione o
dello sviluppo, alle opere maggiori del giurista tedesco.
Il primo di questi saggi, Il concetto del politico , già noto in Italia
(ma qui riproposto nell’edizione del 1927), distingue l’area limitata
della politica ( die Politik ), che si identifica con le istituzioni
statali, dal politico ( das Politische ). L’aggettivo sostantivato
(entrato in uso solo agli inizi del secolo scorso) include l’area non
giuridica, riveste un carattere ubiquitario e trova la sua essenza nella
polarità amico-nemico, da intendersi non in senso privato, ma pubblico:
quando il Vangelo esorta ad amare i propri nemici, intende i nemici
privati, l’ inimicus , l’avversario, non il nemico pubblico, l’ hostis .
L’idea di questa polarità è ricavata sia dall’opera di un esponente del
tacitismo spagnolo del Seicento, Alamos de Barrientos, sia dall’
Arthasastra del teorico dello Stato indiano Kautilya (IV sec. a. C.), ma
essa figura anche altrove, come nella riflessione sulla politica antica
svolta dal nostro Leopardi nello Zibaldone di Pensieri , che quasi
certamente Schmitt non conosceva. In ogni caso la distinzione fra amico e
nemico sostanzia non solo, come è ovvio, il fenomeno della guerra, ma
anche il nomos , ossia il possesso e l’ordinamento della terra, un
concetto al centro di un grande libro di Schmitt, di spirito o di
significato sorprendentemente «liberale», intitolato appunto Il nomos
della terra nel diritto internazionale dello «jus publicum europaeum»
(1950).
In almeno due saggi della raccolta (che è anche fornita di preziose e
sistematiche note) Schmitt torna sul tema del nomos . Storicamente, esso
ha conosciuto tre fasi. La prima, caratterizzata da un mondo ristretto e
puramente terraneo, arriva fino al Cinquecento, quando le scoperte
geografiche operate dall’Europa dischiudono lo spazio agli oceani,
dominati dalla potenza marittima più forte, che era l’Inghilterra. Il
nomos eurocentrico, basato sull’equilibrio fra terra e mare, andò in
pezzi con la Prima guerra mondiale, dopo della quale si aprì
un’ulteriore dimensione, quella dello spazio aereo. Al momento in cui
Schmitt scrive Il nuovo nomos della terra (1954), il mondo è diviso in
un Oriente comunista e un Occidente capitalista, che si fronteggiano
nella guerra fredda. Quale sarà dunque il nuovo nomos della terra?
Schmitt prospetta diverse possibilità, nessuna delle quali sembra però
essersi realizzata. La sua inclinazione o il suo auspicio si rivolgeva
alla formazione di molteplici grandi spazi autonomi in grado di
instaurare un equilibrio fra loro, alla condizione, egli precisa, come
rileva Giovanni Gurisatti nella sua introduzione, che «siano delimitati
in modo sensato e risultino in sé omogenei»: uno di questi spazi è
naturalmente l’Europa, di cui Schmitt nel suo ultimo scritto (1978)
lamenta non solo il vuoto di unità politica, ma anche l’assenza del
desiderio e dell’interesse stesso di crearla in nome di un patriottismo
europeo.
Dei vari concetti fondamentali ai quali Schmitt deve la sua fama, pochi
restano e resteranno sempre attuali, assumendo configurazioni in perenne
e sorprendente movimento. Uno è purtroppo, e sicuramente, la
contrapposizione amico-nemico; l’altro è «lo stato di eccezione», ossia
quella condizione di pericolo estremo per la sopravvivenza dello Stato,
che chiama in causa la questione della sovranità decisionale: chi
giudicherà? Schmitt concorda con Hobbes che l’autorità, non la verità,
fa la legge. D’altronde la risposta della storia è che il diritto viene
sempre scritto dal vincitore, il quale è «il signore anche della
grammatica».
Morto nel 1985, Schmitt non potè assistere ai più recenti fenomeni,
capitali e imprevedibili, non senza rapporto tra loro, che hanno mutato
il volto del mondo. La dinamica degli elementi, terra, acqua, aria, è
stata annullata o almeno profondamente modificata dalla rivoluzione
informatica, che ha sovvertito non solo l’omogeneità dei «grandi spazi»,
ma lo spazio e il tempo stesso, ha creato anzi un nuovo spazio e un
nuovo tempo virtuale: lo sviluppo della «tecnica scatenata», che Schmitt
ha tanto deprecato, ha reso tutto permeabile, ubiquo e simultaneo.
Al crollo del comunismo sovietico, che faceva sperare in un’epoca di
pace, hanno fatto seguito invece arcaici, feroci e diffusi scontri
religiosi. La Cina, che ha instaurato un inedito comunismo capitalista,
opera una silenziosa infiltrazione in varie parti del mondo, Africa
inclusa. La proletarizzazione delle masse arabe ha indotto flussi
migratori di proporzioni bibliche, che intaccano i confini tradizionali e
impediscono la distinzione fra l’interno e l’esterno. La guerra non è
più né la guerre en forme dello jus publicum europaeum interstatuale né
la guerra partigiana, a cui Schmitt ha dedicato scritti illuminanti, ma
il terrorismo planetario. Sembra dunque venir meno proprio quella
«localizzazione» ( Ortung ) senza la quale, secondo Schmitt, non è
possibile un ordinamento mondiale ( Ordnung ).
L’opera del giurista tedesco rischia di apparire una splendida
archeologia, mentre il futuro del nomos della terra è diventato più che
mai imperscrutabile. Coglie perfettamente nel segno, mi sembra,
l’osservazione di Günter Maschke nell’epilogo della raccolta, che «la
grandezza di Schmitt non sta nelle sue risposte, che mancano talora di
forza di persuasione, bensì nelle sue domande e nel modo di porle —
domande che non possono essere aggirate nemmeno quando non troviamo la
risposta».
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