martedì 15 dicembre 2015

Armando Cossutta, detto Bibì




Previdente padre di famiglia, per le classi subalterne italiane fece certamente più di Ingrao ma meno di Fanfani. A lui dobbiamo una agguerrita pattuglia di deputati e assessori, alcuni improbabili piccoli Lenin di provincia e soprattutto il governo D'Alema.

Il suo capolavoro - nonché sintesi di un impegno politico sempre improntato alla saldezza degli ideali - fu però la visita a Slobodan Milosevic un giorno prima di bombardarlo.
Ultimamente pare che avesse preso l'accento di Rignano sull'Arno. Ma senza tirarsela o farla tragica quanto il sen. prof. Mario Tronti [SGA].

Morto Cossutta, il più filosovietico dei comunisti italianiAveva 89 anni. Era l'uomo più vicino a Mosca. Dopo la svolta diede vita a Rifondazione Comunista. Cuperlo: "È rimasto fedele agli ideali della sua gioventù"
di ALBERTO CUSTODERO Repubblica 15 12 2015

Aveva 89 anni, si è spento al San Camillo di Roma. Fondatore di Rifondazione comunista dopo la trasformazione del Pci e poi del Partito dei comunisti italiani.Stampa 15 12 2015

Un ricordo di Cossutta, comunista fino alla fine

di Paolo Franchi Corriere 16.12.15
Un comunista. Così ha sempre sperato lo ricordassero, Armando Cossutta. Soprattutto i tantissimi, comunisti e no, che lo hanno conosciuto. Partigiano delle Brigate Garibaldi, non indulse mai alla retorica resistenziale. Il ricordo di Milano liberata di cui si diceva più fiero erano i ghisa nella loro migliore uniforme. Nel Pci, il battesimo del fuoco in piazza lo ebbe da giovanissimo segretario di Sesto San Giovanni, la Stalingrado d’Italia, governando la collera degli operai per l’attentato a Palmiro Togliatti. Non sognò mai ore x. Fu lui, dopo un’aspra battaglia, a prendere il posto del duro Giuseppe Alberganti alla guida dei comunisti milanesi. Nella geografia politica del Pci si collocò tra il centro e la destra, comunque a una distanza siderale dalla sinistra di Pietro Ingrao. La sua ascesa, prima a Milano, poi a Roma, parve irresistibile. Finché, nel 1975, Enrico Berlinguer non lo allontanò dalla segreteria del partito, sostenendo che aveva accumulato troppo potere anche se non ne aveva profittato. La sua emarginazione, dovuta anche agli stretti rapporti politici ed economici con Mosca, cominciò lì, e divenne rottura quando, nel 1981, Berlinguer dichiarò esaurita la «spinta propulsiva» dell’Unione Sovietica: per Cossutta, che pure non viveva nel mito dell’Urss, questo «strappo» con la patria della rivoluzione d’ottobre avrebbe portato inevitabilmente il Pci, più che alla socialdemocratizzazione, alla rovina. Non fu settario, ebbe ottimi rapporti con uomini politici anche lontani da lui, come Bettino Craxi. Combattendo contro la svolta di Achille Occhetto, si ritrovò accanto compagni «sinistri» che aveva osteggiato per tutta la vita. Uno di loro, Fausto Bertinotti, lo volle addirittura segretario di Rifondazione. Durò poco, Cossutta lasciò Rifondazione per dar vita al Partito dei comunisti italiani. Durò poco anche lì. Milanese, tenne sempre in grande considerazione il Corriere e tifò sempre Inter. La sua bella famiglia gli è stata sempre molto vicina. L’amatissima moglie Emi se ne è andata pochi mesi fa. Ai figli le condoglianze più affettuose. 

Armando Cossutta, carissimo avversario Luciana Castellina Manifesto 16.12.2015, 9:37
Nella storia, noi ingraiani del Pci, e ancor più noi del Manifesto e poi del Pdup, siamo annoverati fra gli avversari di Armando Cossutta. E non si può certo negare che il contrasto politico sia stato fra noi duro e di sostanza. E però io, ma credo anche gli altri miei compagni, provo grande tristezza nel momento in cui apprendo della sua scomparsa. Non solo per nostalgia della nostra vecchia comunità comunista che ogni giorno riceve dalla realtà attuale una nuova botta, sicché gli antichi contrasti ci sembrano minuzie rispetto ai solchi che oggi si sono aperti con una sua parte così consistente, quella che ancora sta nel Pd. Non solo. È perché io a Cossutta volevo bene, e credo lui ne volesse a noi: nonostante la durezza della nostra radiazione, cui il gruppo di compagni che a Cossutta si ispirava dette un sostanziale contributo, è rimasta reciproca stima. Che ci consentì di ritrovarci assieme, impegnati sullo stesso fronte, a partire dall’avvio del processo di scioglimento del Pci, nel 1989.
Quando io militante molto romana ho sentito per la prima volta il suo nome è stato peraltro in una fase in cui siamo stati dalla stessa parte: lui dirigente di primo piano della Federazione di Milano, io ancora impegnata nella ribellione della Federazione giovanile contro la settaria chiusura di una parte dei vecchi. Che a Milano avevano una vera roccaforte contro cui si batterono, membri della stessa segreteria federale, sia Rossana Rossanda che Cossutta. È stato solo anni dopo che diventò esplicito tema di scontro politico il giudizio sull’Urss, e dunque il tema del rapporto fra il Pci e il Pcus.
Ancor oggi mi chiedo il perché di quel suo filosovietismo, che peraltro lui stesso ripensò quando all’inizio degli anni Novanta venne un giorno nella redazione del manifesto per ragionarne con pacatezza, riconoscendo la validità delle nostre obiezioni che erano invece state solo frettolosamente condannate.
È un interrogativo che riguarda tutto il Pci, anche se la corrente «cossuttiana» protrasse a lungo la sua fedeltà, in polemica con la rottura che Berlinguer aveva invece operato nel 1981. Io credo che più che un giudizio di merito sui pregi di quel socialismo già dagli anni Sessanta così segnato dal «breznevismo», si sia trattato del timore che, nel condannare quell’esperienza, venisse meno nel grande corpo dei comunisti italiani l’orizzonte dell’alterità, la coscienza che nonostante l’accettazione da parte del Pci delle regole del sistema democratico rappresentativo, il suo pieno inserimento nelle sue istituzioni, non si era perduto l’obiettivo strategico: la costruzione di una società alternativa al capitalismo. Una esigenza che forse proprio lui sentiva di più per esser stato per anni responsabile della politica degli enti locali del partito, che ha orientato nel senso delle più spericolate alleanze moderate.
Il legame con Mosca, insomma, era per lui una sorta di polizza di sicurezza, di certificazione del permanere di una identità rivoluzionaria.

Molti anni dopo, del resto, nella prima fase di vita di Rifondazione Comunista, quando si strinse fra Armando Cossutta (non con tutti i suoi) e i compagni ex Pdup che in quel partito erano entrati, un accordo forte sui connotati che la nuova formazione avrebbe dovuto avere, non ci fu alcun dissenso sul documento politico approntato per il Congresso costitutivo, in cui netta fu la presa di distanza dall’esperienza sovietica. (Non la cancellazione dell’importanza della rivoluzione d’ottobre, come poi il Pds si affrettò a fare, che era bene — si riaffermò — ci fosse stata, pur «avendo esaurito la sua carica propulsiva», per citare la frase di Berlinguer).

Con Cossutta, dicevo, ci siamo ritrovati dopo la Bolognina. Lui non era più nella direzione del partito, come del resto Ingrao. C’era stato un ricambio. E perciò a votare subito contro la proposta di Occhetto ci ritrovammo solo in tre: un’inedita coalizione, due ex Pdup (rientrato nel Pci poco prima della morte di Berlinguer), io e Magri, e Cazzaniga, giovane filosofo di Pisa, in quota Cossutta.

L’alleanza, come è noto, non si saldò subito, e a contestare la scelta dello scioglimento del Partito furono due diverse mozioni: la numero 2 che aggregava ingraiani e i più autorevoli berlingueriani, la numero 3, quella dei cossuttiani. Ma dopo il congresso di Bologna, in vista del ventesimo di Rimini, che avrebbe dovuto confermare la scelta, i due gruppi si unificarono e fu presentata una sola mozione. Insieme ottenemmo l’adesione del 35% del partito.
Perdemmo, ma non si trattava di una forza di poco conto. La divisione si riprodusse sul che fare di questa forza, se usarla dentro il partito o invece per costruirne un altro. Ad Arco di Trento, dove si tenne l’ultima nostra assemblea precongressuale, i due vecchi leader, Ingrao e Cossutta, tornarono a dividersi: Ingrao disse io comunque resto nel gorgo, Cossutta io comunque esco. Ma le due componenti si mischiarono nella scelta sicché a fondare il primo nucleo di Rifondazione furono compagni che provenivano da posizioni assai diverse.
Non starò certo a rifare la storia di quel tempo ormai remoto. Se non per testimoniare del legame strettissimo che si creò fra noi e Cossutta, e del coraggio di Armando nell’affrontare la diffidenza «antimanifestina» dei suoi vecchi compagni nei nostri confronti.
A me fu affidata la direzione del settimanale Liberazione, un compito difficilissimo, vi assicuro, per gli assalti continui che dovetti subire per le scelte che compivo. Ma sempre ho potuto contare sulla leale difesa di Cossutta. Che a Lucio Magri affidò addirittura la relazione al II° congresso di Rifondazione, nel momento burrascoso dell’arrivo sulla scena di Berlusconi e mentre il Pds ancora oscillava fra alleanza centrista e centrosinistra.
In quella fase Cossutta aveva ancora il controllo determinante del nuovo partito per il peso che vi aveva la vecchia base del Pci, ma ne temeva la deriva settaria, così come quella dei nuovi arrivati non provenienti dalle fila del Pci: i sindacalisti di base fuori dalla Cgil e Democrazia Proletaria. Bisognava trovare una figura per dirigere Rifondazione che non avesse vissuto gli scontri interni al Pci sì da superare i rancori del passato. Ed è così, di nuovo in accordo con Magri, che si pensò a Bertinotti, che aveva una storia socialista e sindacalista, non il nostro vissuto.
Mi fermo qui: raccontare quanto accadde dopo significherebbe riaprire un dibattito troppo vecchio e che comunque non è certo questa l’occasione per riattivare. Se ne ho accennato è per dire di come sia possibile superare vecchie rotture e costruire inediti accordi, un’esperienza da rinverdire.
Ad Armando Cossutta, che era il più anziano ed autorevole fra noi, va il merito di essersi mosso senza arroganze, senza sotterfugi, con intelligenza e lealtà. Le rotture successive di Rifondazione — quella che spinse molti di noi ex Pdup ad abbandonare nel 94–95, quella che indusse lo stesso Cossutta a rompere nel 1998; e infine quella di Sel — hanno tutte origine nel nodo irrisolto della discussione che seguì quel secondo congresso di Rifondazione che pure si era concluso quasi all’unanimità.
Se non suonasse retorico mi verrebbe di promettere, in morte di un compagno cui leviamo le bandiere e di cui piangiamo la scomparsa, che ci impegneremo finalmente a condurre su questi temi una riflessione comune e pacata. Ciao compagno Cossutta.

Da Longo al «no» alla Bolognina 

La biografia. «Rottamatore» contro gli uomini di Secchia, avversario di Bertinotti 50 anni dopo 


Andrea Fabozzi, Daniela Preziosi Manifesto 16.12.2015, 9:20 
Il 14 luglio 1948, appena si diffonde la notiziadell’attentato a Togliatti, 45mila operai di Sesto San Giovanni, la «Stalingrado d’Italia», riempiono la piazza del Rondò, occupano le fabbriche. Il commissario di polizia di Sesto si presenta da Armando Cossutta, ventenne segretario della sezione, e gli dice: «Dottore, io sono ai suoi ordini». «Non sono dottore», risponde Cossutta, e lo manda via. Poi, dopo sessant’anni, nelle sue memorie, spiega: «La sua era solo una mossa per seguirci più da vicino». 

Comunista allevato da Luigi Longo nella cura dell’organizzazione e della «vigilanza democratica», responsabile negli anni più duri della sicurezza interna del partito, Cossutta è stato anche giovanissimo segretario della federazione milanese incaricato da Togliatti di «rottamare» il gruppo dirigente secchiano (erano con lui Tortorella e Rossanda), il più giovane componente della Direzione nazionale (negli anni Sessanta di soli 17 componenti), coordinatore dell’ufficio di segreteria e capo dell’organizzazione del più grande partito comunista d’occidente. «Ha accumulato troppo potere, del quale peraltro non ha abusato», disse di lui Berlinguer quando decise di rimuoverlo dalla segreteria (per affidargli gli enti locali) sostituendolo con Gerardo Chiaromonte, uno dei capi della destra interna che condizionerà fino all’ultimo il segretario. 
Pesava su Cossutta la fama di «uomo di Mosca» perché da responsabile dell’amministrazione aveva il controllo del Fondo di solidarietà con il quale l’Urss sosteneva i partiti fratelli — dollari che servivano in minima parte a bilanciare quelli che la Dc e i socialisti italiani ricevevano dagli Usa e che nel Pci finivano quasi per intero, ha raccontato Cossutta, a tamponare i buchi della stampa comunista e fiancheggiatrice. L’accusa aperta di «filosovietismo» gli è stata mossa solo negli anni Ottanta, quando l’Armando contrastò lo «strappo» (espressione sua) di Berlinguer successivo al colpo di stato in Polonia; prima non avrebbe potuto dirlo nessuno. Non nel partito — i rapporti con Mosca erano tali che quando Cossutta, dirigente di turno a Botteghe oscure nell’agosto del ’68 fu informato dell’invasione di Praga e non riusciva a contattare né Longo né Berlinguer né Amendola (tutti in vacanza oltrecortina), per bucare il muro sovietico dovette minacciare i compagni di rivolgersi altrimenti all’ambasciatore italiano a Mosca, somma ingiuria. E nemmeno fuori dal partito, visto che da capo dell’Italturist era Cossutta ad accompagnare in Urss i dirigenti Eni o il ministro degli esteri Fanfani per concludere affari. Dalla fine degli anni Settanta Cossutta fu avversario di Berlinguer, ma restò sempre contrario alle idee di scissione che pure già allora circolavano. Restò in minoranza, e lasciò il Pci solo quando fu sciolto. 
Dopo la svolta della Bolognina le mozioni contrarie al «nuovo che avanza(va)» occhettiano erano due: Cossutta si infuria quando scopre che gli ingraiani non vogliono fare fronte con lui, filosovietico, conservatore. È un marchio comodo per gli avversari, soprattutto quelli interni, gli resterà addosso fino alla fine, anche mentre anni dopo partecipa al gay pride. Gli ingraiani non lo seguono nella rottura al congresso di Rimini e nella nascita del nuovo partito, Rifondazione comunista. Lo fonda con Sergio Garavini, Ersilia Salvato, Lucio Libertini, Rino Serri. Nel 91 è l’anima e l’organizzazione di un’amalgama fra cossuttiani, ex pdup, ex ingraiani, trozkisti, ex Dp ed ex Lc. A dicembre al primo congresso, Sergio Garavini è segretario ma non vuole accettare la «diarchia», cioè che gli sia affiancato un presidente. Si dovrà rassegnare: Cossutta non viene votato ma acclamato, standing ovation e Bandiera rossa alla fine del suo intervento. È ancora Cossutta a imporre, contro il parere di molti dei suoi, Fausto Bertinotti segretario nel ’94, ex sindacalista rimasto fin lì «nel gorgo». Alle politiche del 96, quelle della «desistenza» per «battere le destre» l’Ulivo vince e Rifondazione arriva all’8,6 per cento.
È il suo capolavoro politico: il binomio «autonomia e unità», «una formazione chiaramente di sinistra ma in rapporto unitario con le forze progressiste». La sua stella polare fino all’ultimo. Ma i voti del Prc sono determinanti per la vita nel governo. Bertinotti presto si convince che serve «un passo indietro per farne due avanti». Ha un’altra idea di partito. Nel ’98 Rifondazione vota contro la finanziaria, Cossutta si dimette da presidente e annuncia, con Diliberto e altri, il suo sì. Il voto non basta a salvare il governo Prodi, ma manda avanti la legislatura. A ottobre nasce il Partito dei comunisti italiani, parteciperà al successivo governo D’Alema — con Cossiga — che parteciperà ai bombardamenti in Kosovo (e Cossutta prima volerà a Belgrado da Milosevic) e poi Amato. Nel 2006 sosterrà l’Unione. Ma stavolta è con Diliberto a scavarsi il solco. Nel 2006 Cossutta di nuovo si dimette da presidente. Poi dal partito. La sua «linea» resta quella di un comunista per l’unità con le forze progressiste. Nel 2009 dichiara di votare «da comunista» per il Pd. Resta fino alla fine partigiano, muore da vice presidente nazionale dell’Anpi.

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