lunedì 14 dicembre 2015

Due tattiche nel delirio occidentocentrico


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L'assimilazione dell'islamismo militante al fascismo - e dunque della finzione postmoderna della "guerra al Terrore" alla Seconda guerra mondiale - è sbagliata. Ma anche la contestazione di questa assimilazione può esserlo, se fatta con l'obiettivo di "revisionare" la storia del Novecento come storia di una rivoluzione democratica internazionale che riconosce il ruolo dell'Urss [SGA].

Tucidide tra i Curdi
Nel famoso dialogo con i Meli, gli Ateniesi danno lezione di realismo Ma anche in politica non contano sempre e solo l’interesse e le armi Le riflessioni del grande autore greco mettono in risalto questioni di scottante attualità. Ci aiutano a capire meglio l’impotenza dell’Onu, così come le ragioni degli eroici difensori di Kobane che non si sono piegati alla legge del più forte
di Mauro Bonazzi Corriere La Lettura 13.12.15
Nell’ Iliade Omero racconta del troiano Licaone, un giovane non molto fortunato. Mentre si preparava per la guerra, era stato rapito da Achille e venduto come schiavo. Liberato, era subito tornato sul campo di battaglia. Dove aveva incontrato di nuovo Achille. E la morte, perché questo aveva deciso l’eroe: a nulla servirono le lacrime. La forza comanda. I poeti greci non si facevano troppe illusioni, ed è per questo che chi s’interroga sulla natura del potere farebbe bene a meditare sulle loro storie. Bisognerebbe sempre ricordarsi di Licaone. Sicuramente se ne ricordò Tucidide, quando raccontò della spedizione degli Ateniesi a Melo.
Melo è un’isoletta dell’Egeo di nessun valore strategico. Ma nel 416 a.C. gli Ateniesi avevano deciso che era necessario esercitare un controllo totale su tutti i porti dell’Egeo. È la solita strategia delle potenze navali; ed era la fine dell’indipendenza dei Meli. Ci potrebbe essere storia più scontata e banale? Prima, però, gli Ateniesi propongono di risolvere il problema a parole, discutendo, ed è qui il colpo di genio di Tucidide. L’esito della vicenda è già scritto, per gli Ateniesi non ci sono dubbi: comunque vada, Melo perderà la sua indipendenza e diventerà loro «alleata». L’obiettivo degli Ateniesi è dunque un altro: spiegare ai Meli che non può che essere così, che è inevitabile e in fondo giusto. È una lezione, insomma, quella che gli Ateniesi vogliono impartire, mossa da spirito di umanità: imparando, i Meli eviteranno la sorte di Licaone. Un episodio marginale assurge così a paradigma dell’eterno problema del potere. Ma saranno dei bravi allievi, i Meli?
Sicuramente gli Ateniesi sono insegnanti pazienti. Perché i Meli danno spesso prova di una ingenuità sconfortante, come quando invitano gli Ateniesi a rispettare diritto e giustizia; o quando sperano nell’intervento di improbabili alleati, ad esempio gli Spartani. La risposta è severa ma illuminante: cosa c’entra la giustizia? In politica non si discute di cosa sia giusto o no; si discute di come stanno le cose, non di come si vorrebbe che andassero. Perché due sono le cose che contano, l’interesse e la forza. Tutti perseguono degli interessi, ma non tutti gli interessi sono realizzabili. Per realizzarli serve la forza. È come una legge scientifica: tutti cercano di affermarsi e ognuno ottiene quello che le sue forze gli permettono di ottenere. Basta quindi un calcolo per capire cosa si può fare e cosa no. La politica si risolve nella matematica.
Del resto, la proposta è ragionevole: non sembra, ma gli Ateniesi sono equanimi. Diversamente da Achille, riconoscono che anche i Meli hanno degli interessi. Propongono un’alleanza, quando potrebbero prendersi tutto. In cambio chiedono solo che i Meli imparino a guardare la realtà in faccia. Anche gli altri pensano al proprio interesse: come gli Spartani, che non hanno nessuna convenienza a esporsi per un’isoletta senza importanza. Quanto alla fantomatica esistenza del diritto o di parti terze e indipendenti, non vale neppure la pena di rispondere.
Sarebbe interessante sentire il parere degli Ateniesi sulle vicende nostrane. Su quanto conti la giustizia nelle risoluzioni prese in seno al Consiglio di sicurezza dell’Onu, ad esempio. O sull’attenzione intermittente dell’Unione europea per l’integrità dei confini ucraini: molto maggiore d’estate, quando il problema energetico del gas non è pressante come in inverno.
Questi sono gli uomini, questa è la realtà. I Meli devono guardare dentro se stessi, ammettere che sono come gli altri e capire che il loro caso non ha nulla di eccezionale, che è la manifestazione di una legge universale. E poi cedere. Ma i Meli rifiutano. Perché? Come interpretare il rifiuto? Per gli Ateniesi è il banale errore di calcolo di un cattivo studente. Come tutti, così i Meli cercano il loro interesse. Ma non hanno saputo valutare in modo corretto i rapporti di forza. Si sono illusi, hanno preteso troppo e per questo pagheranno. Ma questa non è l’unica spiegazione possibile.
E se i Meli avessero capito? E se avessero voluto impartire a loro volta un insegnamento? I Meli sanno bene che gli Ateniesi sono più forti, mettono in conto di essere distrutti. Eppure resistono: perché la resistenza non è solo militare, è anche intellettuale, e riguarda la presunta verità di cui gli Ateniesi sarebbero detentori. I Meli perderanno ma non si piegano all’idea che nel mondo contano solo forza e interesse. Tucidide tace, ma anche questa è una possibilità. Una possibilità gravida di conseguenze, perché smaschera la presunta oggettività del realismo degli Ateniesi, rivelandolo per quello che è: un discorso volto a giustificare il punto di vista dei forti, un discorso che offre ai deboli una scusa per la loro sottomissione. Il rifiuto dei Meli assume così il valore della testimonianza di un altro punto di vista sulla realtà dell’uomo, che non è, o non è soltanto, brama di potere. I Meli: l’eccezione che non conferma la regola. La realtà non è quella descritta dagli Ateniesi. Magari gli uomini possono essere altro; a volte lo sono pure. Ed è per questa idea che vale la pena di rischiare, persino di morire.
In effetti, non sempre le cose vanno come dicono gli Ateniesi. Non sempre siamo soli e non sempre contano solo interesse e forza. I Meli, è vero, hanno scrutato invano quel mare e quel cielo così azzurri senza che nessuna divinità o nessuna flotta apparissero in loro soccorso. Ma altre volte qualcosa succede. Quando il cielo era terso, anche il partigiano Johnny guardava in alto in attesa della sua capricciosa divinità, Alexander, il generale delle forze alleate. Alla fine gli aerei arrivarono. Oltre Manica, nel 1940, dal cielo piovevano solo bombe, ma non per questo gli inglesi accettarono di trattare con Hitler. Alla fine i nazisti furono sconfitti. I partigiani e gli alleati combattevano per interesse, per spirito di sopravvivenza, certo. Ma non solo: un’altra Europa è sorta dalle macerie di quella guerra.
In questi giorni anche sugli altipiani mediorientali il cielo è spesso limpido. E il pensiero corre ai guerriglieri curdi che a Kobane si sono opposti alla barbarie in una condizione di minorità. Anche loro guardavano il cielo in attesa di qualche apparizione. Hanno resistito e tuttora continuano a combattere. Perché? Per cosa? Per una patria, certo, e dunque per il loro interesse, in un contesto dove il groviglio degli interessi è quasi impossibile da sgarbugliare. Ma è solo interesse quello che li muove? Si è molto parlato delle donne curde che hanno scelto di combattere al fianco dei loro uomini. È solo per patriottismo che hanno impugnato i fucili, o è anche in difesa di un’altra idea di società e di donna (e di islam visto che queste soldatesse sono musulmane)? Ciò che siamo non è determinato necessariamente una volta per tutte dalle leggi di natura; siamo noi con i nostri pensieri e le nostre azioni che determineremo cosa siamo. Spesso ci comportiamo come bestie, ma non è detto che lo siamo. Anzi. Anche i Meli, i tanti Meli che calcano le scene della storia, hanno una lezione da insegnare. Sarà quella giusta?


“L’Is come il fascismo” un errore da evitare
di Niall Ferguson Repubblica 14.12.15
ABBIAMO di fronte dei fascisti», ha detto qualche giorno fa il laburista Hilary Benn alla Camera dei Comuni riferendosi allo Stato Islamico. È stato un intervento stimolante, un gradito richiamo all’opposizione che molta parte della sinistra britannica manifestò contro la politica dell’appeasement (le concessioni a Hitler, ndt) negli anni Trenta. Ma sotto il profilo storico il discorso della Benn non regge. Paragonare l’Is a Franco, Mussolini e Hitler ha contribuito a garantire al governo una robusta maggioranza sulla risoluzione di bombardare obiettivi dei jihadisti in Siria. Ma fin da quando Christopher Hitchens ha lanciato il termine “islamofascismo”,dopo gli attacchi dell’undici settembre, io sono contrario a questa analogia.
Più ci sforziamo di far rientrare le problematiche odierne nel contesto della metà del ventesimo secolo, più non ci accorgeremo che mentre il fascismo ebbe sempre struttura gerarchica, l’islamismo ha la struttura di una rete. Mentre il fascismo fece sempre presa a livello nazionale, l’islamismo fa presa a livello internazionale.
All’estremo opposto è in voga la tesi secondo cui alla radice di tutti i nostri guai ci sarebbe il “cambiamento climatico”. È una tesi che, al pari di quella recentemente avallata dal Principe di Galles, secondo cui le origini della guerra civile siriana sono da ricondurre al riscaldamento globale, alla siccità e all’esodo di contadini impoveriti dalle campagne nelle città, invita a trarre conclusioni errate. Ma c’è davvero qualcuno convinto che ridurre le emissioni di Co2 sia la soluzione per impedire agli stati del Medio oriente di disintegrarsi?
Tentiamo un approccio diverso, che sappia cogliere meglio contro cosa combattiamo. Al termine di Delitto e Castigo di Dostoevskij l’assassino nichilista Raskolnikov, profondamente scosso, fa un sogno spaventoso: «Tutto il mondo era condannato a esser vittima di una tremenda, inaudita pestilenza, mai vista prima. Interi villaggi, intere città e nazioni venivano infettati e cadevano in preda alla pazzia. Tutti vivevano nell’ansia e non si capivano a vicenda, gli uomini si uccidevano tra loro, presi da una rabbia assurda e forsennata. Si preparavano a combattersi con interi eserciti, ma gli eserciti, già in marcia, a un tratto cominciavano a dilaniarsi da soli, le file si scompaginavano, i guerrieri si slanciavano l’uno contro l’altro, si infilzavano e si sgozzavano, si mordevano e si divoravano tra loro. Nelle città le campane suonavano a stormo tutto il giorno. Tutti e tutto andavano in malora. La pestilenza aumentava e avanzava sempre più».
Questa è la Siria di oggi — e non solo la Siria; anche l’Iraq, la Libia, lo Yemen e la Nigeria. A volte temo che sarà l’Europa di domani e l’America di dopodomani. Dostoevskij, da conservatore russo, pensava che il liberalismo occidentale fosse la piaga intellettuale che avrebbe fatto impazzire la società. Oggi però il problema è un doppio contagio: l’estremismo islamico che trasforma tante città del mondo in luoghi di mattanza, e il pseudoliberalismo, che semplicemente si rifiuta di riconoscere questa minaccia.
Non illudiamoci che l’aggiunta dei bombardieri britannici ai cieli già affollati sopra la Siria sconfigga l’Is, né tantomeno porti la pace. E, in ogni caso, l’unico modo di sconfiggere l’Is sarebbe schierare le forze speciali americane su larga scala, un’opzione che il presidente Obama si rifiuta persino di prendere in considerazione, anche perché non ha idea di cosa fare dopo.
La guerra civile siriana è un conflitto sconcertante tra cinque fazioni, in cui sono intervenute almeno 15 potenze straniere in tempi diversi da quando ha avuto inizio, quattro anni fa. Siete disorientati? Ora mettetevi nei panni di un pilota dell’aeronautica militare britannica che sorvola quell’area. A pensarci bene sarebbe più semplice dare la colpa al cambiamento climatico e sganciare acqua. A confronto gli anni Trenta furono una passeggiata. Una volta rinunciato all’appeasement, era chiaro chi era il nemico e dove stava.
Fu altrettanto semplice gestire il problema dei nemici interni. In Gran Bretagna allo scoppio della guerra decine di migliaia di tedeschi e di italiani furono internati in campi improvvisati. In America furono internati più di 100mila oriundi giapponesi, in maggioranza cittadini americani. Oggi provvedimenti inumani del genere sono inimmaginabili. Ma apparentemente si è passati all’estremo opposto.
Quanto è accaduto a San Bernardino, in California, potrebbe configurarsi come l’ennesimo episodio di “violenza sul posto di lavoro” — semplicemente un nuovo esempio di “mass shooting”, le sparatorie di massa per cui l’America è tristemente nota; l’ennesima dimostrazione della necessità di limitare l’acquisto di armi. Tuttavia, sembra più che una coincidenza il fatto che la coppia avesse trascorso un periodo in Arabia Saudita, fosse in contatto con almeno un individuo “oggetto di indagine” da parte dell’Fbi, avesse espresso sostegno all’Is e in casa avessero bombe. Non so perché, ma non li vedo proprio come iscritti alla National Rifle Association.
Dalla Siria a San Bernardino, la piaga di Dostoevskij infuria. Ma Hilary Benn pensa che stiamo combattendo i fascisti e Barack Obama che i cattivi siano i repubblicani patiti di armi, per non parlare negazionisti del cambiamento climatico. Mi auguro che qualcuno parli dell’assurdità di tutto questo.
Traduzione di Emilia Benghi 

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