Pisapia 'giocatore' e non più arbitro nella corsa dei gazebo fa innervosire il Pd Ma a sinistra Sel ora rischia l'implosionedi Daniela Preziosi il manifesto 6.12.15
Il pasticciaccio brutto stavolta — e per una volta — non si consuma nella romanissima via Merulana, ma nella milanesissima Piazza della Scala, a Palazzo Marino. Nella capitale lombarda la matassa delle primarie si ingarbuglia ad alta velocità. E se presto qualcuno non si fermerà a rimettere il bandolo al suo posto la premiata ditta Pisapia rischia di trasformarsi da luminoso modello di alleanza (in maggioranza ha anche il Prc) a modello di scissione a sinistra.
Ieri il giovane segretario del Pd Pietro Bussolati (colomba renziana) ha rivolto una preghiera ai vendoliani di rito milanese, fedeli di Pisapia: «Sel ha rotto le alleanze ovunque, noi abbiamo lavorato in questi mesi perché ci sia un’alleanza del centrosinistra qua, continueremo. Però è Sel che deve decidere facendo chiarezza». In realtà venerdì sera è stato il Pd milanese a far saltare l’incontro del tavolo che avrebbe dovuto dare l’ok all’inizio della raccolta delle firme per le candidature alle primarie, che doveva partire domani e concludersi dopo un mese. Formalmente la delegazione dem non si è presentata in polemica con il sindaco che, tornato dall’incontro con Renzi a Roma (poi ripartito per Parigi, da dove è rientrato ieri sera), avrebbe deciso da solo lo spostamento delle primarie dal 7 marzo al 28. Ieri Pisapia ha cercato di mettere pace nella sua nervosissima famiglia: «Come data delle primarie propongo il 28 febbraio perché i candidati abbiano il tempo di presentare il proprio progetto di città. Su questa tempistica non ho avuto valutazioni negative e confido che al più presto si riunisca il tavolo della coalizione per un accordo condiviso». In questo caso a raccolta delle firme inizierebbe domani e finirebbe il 20 gennaio.
Ma non è la data delle primarie a innervosire il Pd quanto il cambio di ruolo dello stesso Pisapia nella vicenda dei gazebo: da arbitro a giocatore. Perché di fronte ai tanti segnali di sostegno di Renzi a Sala, il sindaco ha risposto con intensità uguale e contraria lanciando e benedicendo la sua vice Francesca Balzani. Nulla di ufficiale, ancora. Del resto entrambe le candidature, Sala e Balzani, formalmente ancora non esistono.
In questi giorni a Milano i vendoliani sono sottoposti a richieste di giuramento sulla lealtà in caso di vittoria ai gazebo di Sala. La cosa non giova ai rapporti fra alleati. Del resto non è un segreto che un pezzo della sinistra non digerisce Mister Expo e non lo voterà. Nicola Fratoianni, coordinatore nazionale di Sel, lo ha detto al Corriere della sera: «Se accettassimo il vincolo delle primarie e poi lui vincesse saremmo costretti ad appoggiarlo e questo non lo possiamo fare». In questo delicato shangai la Sel milanese tenta un equilibrio: «Sala è un corpo estraneo all’alleanza, non possiamo decidere al buio. Ma in caso di scelte dilemmatiche l’ultima parola spetterà agli organismi dirigenti della città», spiega la segretaria Anita Pirovano. La novità però è ch il sindaco Pisapia si va convincendo che Balzani, con il suo appoggio, può vincere su Sala. E che, come spiega chi ci ha parlato, l’elettore di centrosinistra non potendo votare «per Giuliano» sarebbe pronto a votare «con Giuliano».
Purché però si risolva un punto dirimente: che i nomi della sinistra non siano due. Come sono oggi: a fronte di una candidata in pectore, la vicesindaco, a sinistra c’è Pier Francesco Majorino, in corsa da giugno. Che peraltro non ha preso bene il lancio della nuova sfidante e a oggi non ha intenzione di ritirarsi. Ieri su facebook ’Pier’ ha chiesto «che la raccolta firme inizi presto» e che «non si giochi con l’alleanza di centrosinistra: se qualcuno vuole fare a Milano la coalizione che governa il Paese ce lo si dica (e a quel punto è davvero inutile farle, le primarie). Meglio il divorzio breve che l’agonia lunga». Ce l’ha con Renzi. Ma anche con Sel. Anzi con tutta ’Si’, Sinistra italiana. Venerdì infatti anche Stefano Fassina, candidato a Roma fuori dalle primarie, ha spiegato che Sala «non rappresenta la pluralità di interessi e culture politiche che Pisapia teneva assieme».
Oggi Pisapia sarà a Sky, ospite del programma di Maria Latella. Con ogni probabilità sarà un ’Pisapia’ ormai giocatore delle primarie. E in questo caso la sinistra, quella milanese e quella ’italiana’, dovrà farci i conti.
La diminuzione dei tesserati non rappresenta una particolare fonte di preoccupazione per il segretario, essendo addirittura una condizione necessaria al consolidamento della sua leadership
I problemi sono a livello locale, dove spesso a contare sono dirigenti di dubbia fedeltà di Giovanni Belardelli Corriere 6.12.15
Nei giorni scorsi il Pd ha ripreso a discutere sul calo degli iscritti. Calo preoccupante e drammatico, secondo l’opposizione interna al partito, di dimensioni limitate secondo i renziani. In ogni caso, che la diminuzione vi sia stata è indubbio: quasi 800 mila iscritti con Veltroni segretario, un po’ meno di 500 mila con Bersani, solo 350 mila nel 2014. Sennonché, nella discussione interna al Pd ma anche negli articoli che la stampa ha dedicato alla questione, mi pare non si sia messa ancora a fuoco la questione essenziale, sintetizzabile in una domanda. Siamo davvero sicuri che per Renzi il calo degli iscritti costituisca un problema?
A Renzi infatti, che ha conquistato la segreteria del Pd grazie a primarie rivolte ai potenziali elettori, tutto ciò che rimanda al vecchio partito bersaniano di derivazione comunista, che misurava la sua forza sul numero degli iscritti e delle sezioni, risulta estraneo. A caratterizzare il suo modo di governare, più che l’obiettivo sempre rimasto nel vago di un «partito della nazione» (che ancora presupporrebbe un’idea di partito strutturato in modo tradizionale, di tipo novecentesco per intenderci), è l’idea di una politica postpartitica fondata sul rapporto diretto tra il leader e i cittadini. In questo quadro, ogni struttura intermedia che si interpone nel rapporto — la Cgil, certo, ma anche il Pd inte so come «la ditta» bersaniana — risulta soprattutto di ostacolo. Anche per Renzi, naturalmente, un partito serve; ma non è quello d’antan, che organizzava i dibattiti in sezione e orientava gli iscritti attraverso i meccanismi del centralismo democratico, bensì è il partito che, sul modello del Partito democratico americano, si mobilita in occasione delle elezioni per assicurare il successo del leader. È il rapporto con gli elettori, non con gli iscritti, che interessa Renzi. Non da ultimo perché è grazie agli elettori che ha ottenuto un notevole successo nel meccanismo di finanziamento attraverso il 2 per mille, con 550 mila persone che hanno dato la loro indicazione in favore del Pd.
Lo scarso interesse per il partito-di-iscritti è del resto rafforzato dalle tendenze cesaristiche che alcuni politici e intellettuali di sinistra (ad esempio Biagio De Giovanni in un’intervista al Corriere del 24 novembre) attribuiscono al presidente del Consiglio. Si dovrebbe semmai parlare, nel caso di Renzi, di un «cesarismo democratico», poiché le implicazioni autoritarie del cesarismo (da Giulio Cesare ai due Bonaparte) in questo caso sono evidentemente tenute a bada dal rispetto delle procedure democratiche. Ma certo l’osservazione coglie un elemento reale: lo stesso uso che il premier intende fare del referendum sulla riforma costituzionale (referendum previsto dalla Carta come strumento nelle mani di chi si oppone alla riforma, non per confermare e accrescere il consenso nei confronti di chi l’ha realizzata, come lo concepisce invece il presidente del Consiglio) sembra giustificare appunto i timori di una deriva cesaristica o plebiscitaria.
Del resto, un elemento populistico-plebiscitario è intrinseco alle democrazie contemporanee, anche se in Italia la presenza di partiti strutturati ha reso difficile riconoscerlo. Quanto meno, fino alla comparsa di Berlusconi che, se rappresentava un’anomalia per tutto ciò che concerneva il conflitto di interessi, si collocava invece sulla scia di quella personalizzazione della politica, di quel rapporto diretto con gli elettori fondato sui media e in particolare sulla televisione, che rappresenta una caratteristica normale delle democrazie contemporanee.
Alla luce di tutto ciò, mi pare evidente che il calo di iscritti non costituisca particolare fonte di preoccupazione per Renzi, essendo addirittura — si potrebbe argomentare — una condizione necessaria al consolidamento del suo potere. È un potere, come si sa, che diventa incerto a livello locale, dove spesso a contare sono dei leader di dubbia fedeltà al segretario del partito. Ma questo è un problema che non credo Renzi possa pensare di affrontare riportando il Pd al modello bersaniano della «ditta» .
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