domenica 6 dicembre 2015

Ex piddini ancora non si rassegnano per come si sono fatti fottere il partito. Sinistra Inutile come sempre

Due anni di renzismo (ir)realizzato
di Michele Prospero il manifesto 6.12.15 
L’8 dicembre di due anni fa Renzi è diventato il segretario del Pd. Per chi della velocità aveva fatto un mito, e dall’energia creativa del corpo del capo aveva ricavato l’attestato della garanzia di successo, due anni di potere sono un tempo enorme, valido per sopportare una verifica. Una radiografia l’ha fornita il rapporto Censis con la metafora bruciante del paese in «letargo». Quando Renzi concluse la sua marcia trionfale tra i gazebo, raccolse, oltre al sostegno di ambienti esterni pronti a finanziare una scalata ostile, anche un’ansia di successo, sfumato nel 2013, e un bisogno di rinnovamento delle classi dirigenti. Un biennio di leadership incontrastata basta però per lasciar appassire i sogni di gloria e per smentire ogni attesa di ricambio effettivo nelle pratiche e nei volti del ceto politico locale.
Il governo della mancia per tutti non attira un voto in più al Pd. E le sue disinvolte e creative misure economiche non agganciano la ripresa, anzi aggravano il divario con il passo spedito di altri partner europei. Le esclusioni sociali crescono, l’evasione fiscale e contributiva regna incontrastata, il differenziale territoriale si acuisce, i servizi pubblici, la sanità deperiscono. Galleggia l’illegalità, solerte è la misura per il salvataggio delle banche amiche.
Le imprese, incassato l’oro delle decontribuzioni e dei tagli Irap, continuano a rigettare ogni strategia competitiva fondata sull’innovazione e la qualità. Con la libertà di licenziamento, sancita dalle nuove leggi sul mercato del lavoro varate dal governo, le aziende si sentono protette da una irresistibile corazza. E pensano di proseguire nella strada della competizione al ribasso, tramite la marginalizzazione del sindacato, la precarietà camuffata dalle tutele crescenti. Il basso costo del lavoro è loro garantito in eterno dal potere di licenziare con modico indennizzo monetario.
Presto il nero diventerà la figura dominante nei rapporti contrattuali perché, dopo 40 anni di lavoro e con una pensione che non sarà di molto superiore a quella sociale, al dipendente risulterà più conveniente chiedere di essere pagato in nero, così almeno potrà racimolare qualche spicciolo in più dal mancato versamento dei contributi. Senza una politica degli investimenti, e senza una crescita dei salari pubblici e privati (altro che mance graziosamente elargite, senza alcun progetto di società), il sistema si avvita in una spirale regressiva e catastrofica.
Questo biennio perduto lascerà ferite sociali e politiche difficili da rimarginare. La volontà del capo di governo di presentarsi come il generoso protettore di tutta la nazione, che distribuisce bonus e mance ai ragazzi, ai carabinieri, agli insegnanti, non solo disperde risorse preziose, perché scarse, senza alcun risultato tangibile nell’inclusione sociale ma non viene premiato nella sua spericolata raccolta del consenso clientelare due punto zero.
Ha un bel dire Paolo Mieli che Renzi non è un capo divisivo, ma vive nella splendida condizione di chi ha la felice fisionomia di un leader vincente che scavalca mirabilmente gli steccati e pesca fiducia ovunque. Ascoltando meglio gli umori reali, non mancherà la percezione di un vivo sentimento di inimicizia, e anche di odio politico, che cresce e impedisce allo statista di Rignano di sfondare, nonostante l’infinita presenza in video, il sostegno generale dei media, il gradimento dei poteri che influenzano, la smobilitazione della destra.
Non basta, per rimediare alla deriva, raccogliere l’invito a costruire il partito, senza il quale, in effetti, tra il capo e il territorio esiste solo un solidissimo vuoto. Il problema è che Renzi non può costruire un partito, per ragioni strutturali. Ha distrutto quel poco di organizzazione che rimaneva, costringendo alla fuga gli illusi che fingevano di ritrovare nei gazebo i residui di vecchie simbologie e nei comitati elettorali degli affaristi in carriera i detriti di memorie, e non può edificare una nuova struttura, con gli eventi fuggevoli dei mille banchetti.
A Renzi il partito serve solo come fonte di legittimità per ordinare lo «stai sereno» e per continuare ad abitare a palazzo Chigi finché vuole. Non ha una cultura moderna della leadership, ma sprigiona solo una caricaturale infatuazione per i simboli esteriori del comando da caserma. Non è vero quello che ha raccontato Eugenio Scalfari a Otto e mezzo, e cioè che Renzi comanda da solo perché in tutte le democrazie avviene così.
Ovunque esistono gruppi dirigenti rispettati e non trattati come subalterni inoffensivi con cui il capo scherza nelle direzioni in diretta streaming. Ogni capo convive con oligarchie agguerrite, con gruppi parlamentari non arrendevoli. Persino Obama ne sa qualcosa. E il nuovo leader laburista Corbyn ha avuto l’investitura del partito ma i gruppi parlamentari, espressioni di un’altra cultura politica, non si piegano, e resistono anche platealmente alle sue direttive in politica estera. Non fanno come i deputati del Pd, designati per l’ottanta per cento come seguaci di Bersani, e poi tutti inginocchiati a riverire il nuovo padrone senza mai un cenno di disobbedienza.
Se ci fosse stato un partito, Renzi non lo avrebbe mai scalato, e se avesse, dopo la conquista, ricostruito un partito, proprio i suoi dirigenti lo avrebbero già disarcionato, per una manifesta inattitudine alla leadership autorevole. Altrove a togliere di mezzo un capo che ha perso le regionali, ha liquidato il nucleo organizzativo del partito, costretto alla diserzione la membership, manifestato una palese inadeguatezza al governo e naviga in chiaro affanno nei sondaggi, sarebbe il suo stesso partito. Ma la fortuna di Renzi è di non avere un partito. E può accontentarsi di un simulacro che gli dà i gradi di comandante di giornata.
Due anni terribili di deconsolidamento della democrazia costituzionale e del lavoro sono trascorsi e c’è poco da festeggiare con banchetti unitari in prossimità della catastrofe. Il solo auspicio è che l’odio e la delusione che covano nella sinistra ferita si trasformino in politica, e ci siano classi dirigenti pronte a raccogliere la difficile impresa, di ricominciare con un pensiero critico dopo il forte rumore dello schianto.

Primarie il 28 febbraio, ma è pasticcio alla milanese
Pisapia 'giocatore' e non più arbitro nella corsa dei gazebo fa innervosire il Pd Ma a sinistra Sel ora rischia l'implosionedi Daniela Preziosi il manifesto 6.12.15
Il pasticciaccio brutto stavolta — e per una volta — non si consuma nella romanissima via Merulana, ma nella milanesissima Piazza della Scala, a Palazzo Marino. Nella capitale lombarda la matassa delle primarie si ingarbuglia ad alta velocità. E se presto qualcuno non si fermerà a rimettere il bandolo al suo posto la premiata ditta Pisapia rischia di trasformarsi da luminoso modello di alleanza (in maggioranza ha anche il Prc) a modello di scissione a sinistra.
Ieri il giovane segretario del Pd Pietro Bussolati (colomba renziana) ha rivolto una preghiera ai vendoliani di rito milanese, fedeli di Pisapia: «Sel ha rotto le alleanze ovunque, noi abbiamo lavorato in questi mesi perché ci sia un’alleanza del centrosinistra qua, continueremo. Però è Sel che deve decidere facendo chiarezza». In realtà venerdì sera è stato il Pd milanese a far saltare l’incontro del tavolo che avrebbe dovuto dare l’ok all’inizio della raccolta delle firme per le candidature alle primarie, che doveva partire domani e concludersi dopo un mese. Formalmente la delegazione dem non si è presentata in polemica con il sindaco che, tornato dall’incontro con Renzi a Roma (poi ripartito per Parigi, da dove è rientrato ieri sera), avrebbe deciso da solo lo spostamento delle primarie dal 7 marzo al 28. Ieri Pisapia ha cercato di mettere pace nella sua nervosissima famiglia: «Come data delle primarie propongo il 28 febbraio perché i candidati abbiano il tempo di presentare il proprio progetto di città. Su questa tempistica non ho avuto valutazioni negative e confido che al più presto si riunisca il tavolo della coalizione per un accordo condiviso». In questo caso a raccolta delle firme inizierebbe domani e finirebbe il 20 gennaio.
Ma non è la data delle primarie a innervosire il Pd quanto il cambio di ruolo dello stesso Pisapia nella vicenda dei gazebo: da arbitro a giocatore. Perché di fronte ai tanti segnali di sostegno di Renzi a Sala, il sindaco ha risposto con intensità uguale e contraria lanciando e benedicendo la sua vice Francesca Balzani. Nulla di ufficiale, ancora. Del resto entrambe le candidature, Sala e Balzani, formalmente ancora non esistono.
In questi giorni a Milano i vendoliani sono sottoposti a richieste di giuramento sulla lealtà in caso di vittoria ai gazebo di Sala. La cosa non giova ai rapporti fra alleati. Del resto non è un segreto che un pezzo della sinistra non digerisce Mister Expo e non lo voterà. Nicola Fratoianni, coordinatore nazionale di Sel, lo ha detto al Corriere della sera: «Se accettassimo il vincolo delle primarie e poi lui vincesse saremmo costretti ad appoggiarlo e questo non lo possiamo fare». In questo delicato shangai la Sel milanese tenta un equilibrio: «Sala è un corpo estraneo all’alleanza, non possiamo decidere al buio. Ma in caso di scelte dilemmatiche l’ultima parola spetterà agli organismi dirigenti della città», spiega la segretaria Anita Pirovano. La novità però è ch il sindaco Pisapia si va convincendo che Balzani, con il suo appoggio, può vincere su Sala. E che, come spiega chi ci ha parlato, l’elettore di centrosinistra non potendo votare «per Giuliano» sarebbe pronto a votare «con Giuliano».
Purché però si risolva un punto dirimente: che i nomi della sinistra non siano due. Come sono oggi: a fronte di una candidata in pectore, la vicesindaco, a sinistra c’è Pier Francesco Majorino, in corsa da giugno. Che peraltro non ha preso bene il lancio della nuova sfidante e a oggi non ha intenzione di ritirarsi. Ieri su facebook ’Pier’ ha chiesto «che la raccolta firme inizi presto» e che «non si giochi con l’alleanza di centrosinistra: se qualcuno vuole fare a Milano la coalizione che governa il Paese ce lo si dica (e a quel punto è davvero inutile farle, le primarie). Meglio il divorzio breve che l’agonia lunga». Ce l’ha con Renzi. Ma anche con Sel. Anzi con tutta ’Si’, Sinistra italiana. Venerdì infatti anche Stefano Fassina, candidato a Roma fuori dalle primarie, ha spiegato che Sala «non rappresenta la pluralità di interessi e culture politiche che Pisapia teneva assieme».
Oggi Pisapia sarà a Sky, ospite del programma di Maria Latella. Con ogni probabilità sarà un ’Pisapia’ ormai giocatore delle primarie. E in questo caso la sinistra, quella milanese e quella ’italiana’, dovrà farci i conti.

Nuovo modello Il calo degli iscritti e il potere di Renzi nel Pd
La diminuzione dei tesserati non rappresenta una particolare fonte di preoccupazione per il segretario, essendo addirittura una condizione necessaria al consolidamento della sua leadership
I problemi sono a livello locale, dove spesso a contare sono dirigenti di dubbia fedeltà
di Giovanni Belardelli Corriere 6.12.15
Nei giorni scorsi il Pd ha ripreso a discutere sul calo degli iscritti. Calo preoccupante e drammatico, secondo l’opposizione interna al partito, di dimensioni limitate secondo i renziani. In ogni caso, che la diminuzione vi sia stata è indubbio: quasi 800 mila iscritti con Veltroni segretario, un po’ meno di 500 mila con Bersani, solo 350 mila nel 2014. Sennonché, nella discussione interna al Pd ma anche negli articoli che la stampa ha dedicato alla questione, mi pare non si sia messa ancora a fuoco la questione essenziale, sintetizzabile in una domanda. Siamo davvero sicuri che per Renzi il calo degli iscritti costituisca un problema?
A Renzi infatti, che ha conquistato la segreteria del Pd grazie a primarie rivolte ai potenziali elettori, tutto ciò che rimanda al vecchio partito bersaniano di derivazione comunista, che misurava la sua forza sul numero degli iscritti e delle sezioni, risulta estraneo. A caratterizzare il suo modo di governare, più che l’obiettivo sempre rimasto nel vago di un «partito della nazione» (che ancora presupporrebbe un’idea di partito strutturato in modo tradizionale, di tipo novecentesco per intenderci), è l’idea di una politica postpartitica fondata sul rapporto diretto tra il leader e i cittadini. In questo quadro, ogni struttura intermedia che si interpone nel rapporto — la Cgil, certo, ma anche il Pd inte so come «la ditta» bersaniana — risulta soprattutto di ostacolo. Anche per Renzi, naturalmente, un partito serve; ma non è quello d’antan, che organizzava i dibattiti in sezione e orientava gli iscritti attraverso i meccanismi del centralismo democratico, bensì è il partito che, sul modello del Partito democratico americano, si mobilita in occasione delle elezioni per assicurare il successo del leader. È il rapporto con gli elettori, non con gli iscritti, che interessa Renzi. Non da ultimo perché è grazie agli elettori che ha ottenuto un notevole successo nel meccanismo di finanziamento attraverso il 2 per mille, con 550 mila persone che hanno dato la loro indicazione in favore del Pd.
Lo scarso interesse per il partito-di-iscritti è del resto rafforzato dalle tendenze cesaristiche che alcuni politici e intellettuali di sinistra (ad esempio Biagio De Giovanni in un’intervista al Corriere del 24 novembre) attribuiscono al presidente del Consiglio. Si dovrebbe semmai parlare, nel caso di Renzi, di un «cesarismo democratico», poiché le implicazioni autoritarie del cesarismo (da Giulio Cesare ai due Bonaparte) in questo caso sono evidentemente tenute a bada dal rispetto delle procedure democratiche. Ma certo l’osservazione coglie un elemento reale: lo stesso uso che il premier intende fare del referendum sulla riforma costituzionale (referendum previsto dalla Carta come strumento nelle mani di chi si oppone alla riforma, non per confermare e accrescere il consenso nei confronti di chi l’ha realizzata, come lo concepisce invece il presidente del Consiglio) sembra giustificare appunto i timori di una deriva cesaristica o plebiscitaria.
Del resto, un elemento populistico-plebiscitario è intrinseco alle democrazie contemporanee, anche se in Italia la presenza di partiti strutturati ha reso difficile riconoscerlo. Quanto meno, fino alla comparsa di Berlusconi che, se rappresentava un’anomalia per tutto ciò che concerneva il conflitto di interessi, si collocava invece sulla scia di quella personalizzazione della politica, di quel rapporto diretto con gli elettori fondato sui media e in particolare sulla televisione, che rappresenta una caratteristica normale delle democrazie contemporanee.
Alla luce di tutto ciò, mi pare evidente che il calo di iscritti non costituisca particolare fonte di preoccupazione per Renzi, essendo addirittura — si potrebbe argomentare — una condizione necessaria al consolidamento del suo potere. È un potere, come si sa, che diventa incerto a livello locale, dove spesso a contare sono dei leader di dubbia fedeltà al segretario del partito. Ma questo è un problema che non credo Renzi possa pensare di affrontare riportando il Pd al modello bersaniano della «ditta» .

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