venerdì 11 dicembre 2015

La democrazia moderna è morta negli Stati Uniti molto prima che in Europa, se mai c'è stata


Oliviero Bergamini: Democrazia in America, ombre corte

Risvolto

Quanto è effettivamente democratico il sistema politico e sociale statunitense? L'esame approfondito, condotto nelle pagine di questo libro, rivela contraddizioni e carenze profonde: una partecipazione elettorale tra le più basse dell'Occidente, un meccanismo di voto esposto a errori e forzature, una dilagante influenza delle lobbies economiche, una progressiva concentrazione dei media, un impoverimento del discorso pubblico, crescenti disuguaglianze economiche e sociali, una forte limitazione di alcune fondamentali libertà civili e un generale indebolimento dello Stato di diritto. Se gli Stati Uniti hanno guidato il mondo sulla strada della democrazia, oggi rischiano di condurlo su quella della sua involuzione.



Oliviero Bergamini insegna Storia dell'America del nord e Storia del giornalismo presso l'Università di Bergamo. Tra le sue pubblicazioni: Un esercito per la nazione. La nascita del moderno sistema militare degli Stati Uniti (Marcos y Marcos, 1996), Breve storia del federalismo americano 8Marcos y Marcos, 1997) e Storia degli Stati Uniti (Laterza, 2003).


Effetti sociali perversi made in Usa 
Saggi. Torna dopo dieci anni in libreria «Democrazia in America?» di Oliviero Bergamini, per ombre corte 
Ferdinando Fasce Manifesto 10.12.2015
Torna in libreria, a un decennio dalla sua prima uscita, Democrazia in America? Il sistema politico e sociale degli Stati Uniti di Oliviero Bergamini, nella bella collana Americane di Roberto Cagliero, Erminio Corti e Stefano Rosso (ombre corte, pp. 262, euro 20). Ci torna con una nuova, robusta introduzione che, in una trentina di pagine, integra e aggiorna opportunamente il testo; un testo rimasto, nella sostanza, lo stesso dell’edizione del 2004, uscita prima del secondo mandato di George W. Bush e di quello di Barack Obama come presidenti.
Ha fatto bene Bergamini a lasciarlo così: un po’ perché l’impianto di fondo, con l’intenzione ribadita di «comprendere» la democrazia d’oltre Atlantico «nelle sue luci e ombre», sulle orme dichiarate di Tocqueville, funziona ancora pienamente; un po’ perché esso testimonia di una fase della riflessione su quella realtà che è venuto il momento di superare, inerpicandosi su sentieri che magari lascino da parte il più che legittimo e comunque sempre illuminante riferimento al pensatore normanno, per procedere con l’aiuto di altre guide più adatte ai nostri tempi di così profonda ridefinizione della faccia del capitalismo. Tipo un vecchio-giovane Marx a Detroit o magari, meglio, ancora un Marx o un CLR James nella Silicon Valley o nel Sud di Wal-Mart. 
Ma prima di procedere, occorre ricordare, come dicono la quarta di copertina e Wikipedia, che Bergamini, oggi caporedattore della redazione esteri del Tg1, ma già docente all’Università di Bergamo dove tuttora insegna Storia del giornalismo, è uno che gli Stati Uniti li conosce molto bene per averci studiato, fatto ricerca e vissuto con risultati scientifici e culturali inoppugnabili. Gli dobbiamo, fra l’altro, un pregevole, ampio lavoro di scavo nella storia dell’esercito statunitense a cavallo fra Otto e Novecento (Un esercito per la nazione: Elihu Root e la nascita del moderno sistema militare degli Stati Uniti, Marcos y Marcos, Milano 1995) e una svelta, fortunata sintesi sulla Storia degli Stati Uniti (Laterza, 2010), oltre a numerosi contributi di storia della stampa usciti sempre da Laterza, fra cui La democrazia della stampa. Storia del giornalismo (Roma-Bari, 2013). 
Perché il punto interrogativo apposto alla famosa formula del nobile francese in giro per il Nord America nei travagliati primi anni trenta dell’Ottocento? Perché, esplorata passando al setaccio «alcuni aspetti» dell’insieme «di istituzioni, pratiche, rapporti sociali, politici ed economici» che la connotano, la «democrazia americana» rivela un denso tessuto di contraddizioni, che, scrive Bergamini, convivono con «elementi di vitalità e di innovazione che pur all’interno di alcune condizioni strutturali, le assicurano spazi di movimento ed evoluzione». Eccoci così introdotti a un viaggio tematico che in otto, compatti capitoli ci fa trascorrere dal sistema elettorale, alle forme della politica, al potere economico, alle condizioni sociali, alla situazione delle minoranze, al viluppo media-informazione-ideologia, ai diritti individuali, a una generale panoramica sullo stato di salute complessivo della democrazia d’oltreoceano. 
Ogni capitolo è introdotto e concluso con un riferimento a Tocqueville, che compare pure negli exergo d’apertura, a suggellare, con annotazioni sempre appropriate, il ragionamento condotto nel capitolo stesso. Le dolenti note sulla «democrazia americana» cominciano dal sistema e dalle pratiche elettorali che, dice Bergamini, anche se non hanno visto ripetersi «l’effetto ‘perverso’ (reso possibile dal metodo maggioritario) dell’elezione di un presidente ‘di minoranza’, come quella di George W. Bush Junior nel 2000», non hanno comunque «rappresentato alcun drammatico balzo in avanti della partecipazione elettorale degli americani», con l’affluenza al voto del 63,6 % degli aventi diritto effettivo nel 2008, ridiscesi al 61,8 quattro anni dopo (dati che comunque suggeriscono una crescita nel XXI secolo rispetto alle bassure assolute di metà anni novanta, anche se gli iscritti alle liste elettorali restano attorno al 70%). 
Le note si fanno ancora più dolenti quando da questa dimensione passiamo a quella del potere economico e della sua capacità di erodere «progressivamente la stessa forza del sistema politico democratico» con una penetrazione dei comitati elettoral-lobbistici in vario modo controllati dalle grandi corporations tale da indurre Bergamini a ricorrere all’ormai celebre formula della «post-democrazia» di Colin Crouch. Per non parlare delle difficoltà dello stato sociale nella morsa neoliberista, esaminate con acume nel quarto capitolo, o dei persistenti e anzi per certi versi aumentati problemi delle minoranze, con in testa ancora una volta gli afroamericani, a dispetto dei facili trionfalismi sulla presunta era post-razziale introdotta dall’avvento di Obama.
A questo punto, però, l’utilissima rassegna di Bergamini va forse integrata gettando in campo una parola che nel libro, in ossequio a Tocqueville, non compare, ma che invece è tornata al centro dell’indagine storiografica statunitense degli ultimi anni, tanto da ispirare un intero filone di studi e ricerche. La parola, vecchia di tre secoli, ma sempre nuova, è «capitalismo». 
Beninteso, non si tratta di fare le pulci a un libro, che conserva una forza invidiabile a tanti anni dalla sua prima pubblicazione, contrapponendogli un suo fantasma. Si tratta piuttosto di cambiare registro e interrogarsi, sulle orme di David Montgomery e oggi di Alice Kessler-Harris o di Steve Fraser, su quanta e quale liberaldemocrazia sia compatibile col capitalismo/i, statunitense e globale. E attorno a questo articolare un’agenda di ricerca interdisciplinare, magari impossibile in un paese sgangherato come il nostro, ma il cui solo pensiero promette di tenerci svegli nella notte buia dell’eterna commedia tra gufi e volpi sotto le ascelle.

L’America appannata del nuovo secolo
Gennaro Sangiuliano Domenicale 20 12 2015
La Democrazia in America è il titolo di un fortunato saggio di Charles Alexis de Tocqueville, pubblicato a Parigi per la prima volta nel 1835, diventato un classico del pensiero politico e sociale. Prende forma dalle impressioni del giovane magistrato parigino che tra il 1831 e il 1832 compì un viaggio di nove mesi nell’America del Nord, per gli europei un immenso Paese, all’epoca meno conosciuto dell’Oriente. Ma nel descrivere le istituzioni, i costumi, l’economia americana, de Tocqueville elabora una delle prime opere sistemiche sulla democrazia liberale. «Negli Stati Uniti», scriverà Raymond Aron, «non venne soltanto per osservarvi, da viaggiatore, costumi e usi di altri uomini: egli volle da sociologo, descrivere una comunità unica e, nel contempo, comprendere la particolarità nella quale si esprime, oltre l’Atlantico, la tendenza democratica comune all’antico e al mondo nuovo».
Non c’è dubbio che il Novecento è stato il secolo americano, tale per una molteplicità di motivi. Gli Stati Uniti hanno avuto non solo un predominio tecnologico, economico e militare sul resto del mondo. Ma sono stati il modello di democrazia, di eguaglianza e di opportunità a cui tendere. Un esempio di virtù politica che ha sollecitato, forse anche al di là dei reali meriti, l’immaginario di milioni di persone in tutto il mondo. Una nuova patria per tanti rifugiati a cominciare dai protestanti che lasciarono l’Europa nel ’600 e che forgiarono lo spirito nazionale della nuova terra. 
Il Novecento è stato il secolo americano anche perché con generosità gli Stati Uniti, superando marcate tendenze isolazioniste interne, si sono spesi in due guerre mondiali per fermare prima gli Imperi centrali poi il nazismo. E nella seconda metà del secolo hanno contrastato l’imperialismo sovietico-comunista in una lunga Guerra Fredda. 
Tuttavia, occorre domandarsi se, entrati da oltre un decennio nel nuovo secolo, gli Stati Uniti siano ancora un esempio globale, una potenza morale, oltre che militare e tecnologica. A dare una risposta ci prova Oliviero Bergamini, con il saggio Democrazia in America? , dove il punto interrogativo posto accanto allo storico titolo di Tocqueville riflette il dubbio di fondo. 
La verifica avviene ponendo sotto le lenti le diverse articolazioni del sistema americano, dalle forme della politica, alla partecipazione elettorale, ai poteri economici, alla condizione sociale fino alle condizioni delle minoranze. Fatti, dati, cifre per accertare se l’America è ancora il luogo del “sogno”, la nazione leader a cui guardare. 
Gli Stati Uniti sono la nazione industrializzata con le maggiori sperequazioni economico-sociali. «Più di un decimo della popolazione è ufficialmente povera», rileva Bergamini, oltre il 12 per cento degli americani è al di sotto della soglia di povertà, circa 35 milioni di persone. La presidenza Obama aveva aperto grandi speranze sulla possibilità di alleviare le condizioni degli esclusi e, invece, si scopre che la situazione era di gran lunga migliore negli anni Sessanta, ai tempi della presidenza di Lyndon Johnson quando il tasso di povertà generale era del 22,2 per cento. Obama ha combattuto la crisi economica, conseguente al crollo finanziario di Lehman Brothers, con una politica di espansione monetaria di chiara marca keynesiana, il cosiddetto “Stimulus bill”, che secondo molti osservatori ha prodotto effetti positivi. Tuttavia, la ripresa è avvenuta «senza alcuna alterazione sostanziale della distribuzione del potere interno, e al contrario, nel segno di forti e crescenti sperequazioni di reddito». Obama ha rinunciato – anche per le opposizioni del Congresso e delle lobbies – al progetto di creare un’assicurazione sanitaria pubblica (public insurance option ), ridimensionando di molto l’ambizione di garantire a tutti l’assistenza sanitaria. 
La partecipazione elettorale negli Usa resta molto bassa, distorcendo quel valore della democrazia partecipata, ateniese, esaltata da Tocqueville, negli ultimi anni, però, la diffusione di internet ha efficacemente integrato il dibattito politico. 
L’ascesa repentina di giovani intraprendenti che hanno fatto delle loro geniali intuizioni grandi realtà imprenditoriali (Microsoft, Google, Facebook) dimostra che gli Stati Uniti sono ancora il terreno fertile per chi voglia trasformare un’idea in un valore, cosa che nella vecchia Europa, impaludata in regole e burocrazie, spesso non riesce. Secondo Bergamini, però, anche il capitalismo americano avrebbe perso slancio, rispetto al più rampante mondo asiatico, a cominciare dal fatto che «l’imprenditoria privata pura dove il capitalismo dispiega la sua forza perché libero dall’influenza dello Stato», è un’immagine retorica che forse non ha più riscontro nei fatti. Negli Usa, come del resto altrove, pesano gli aiuti di Stato, il protezionismo doganale, la legislazione fiscale di favore per alcune aree. Questo non deve destare scandalo ma è un fatto. A Spartanburg, in South Carolina, la Bmw ha aperto una grande fabbrica di automobili grazie a incentivi fortissimi: dalla concessione del terreno del valore di 35 milioni di dollari, ceduto per un affitto al costo simbolico di un dollaro l’anno, fino a un incentivo a fondo perso di 150 milioni di dollari per uno stabilimento del valore di 700 milioni di dollari, oltre a grandi investimenti infrastrutturali di supporto.
Luci e ombre, dunque, per l’America del nuovo millennio. Se è vero che questa grande nazione ha perso lo smalto del passato, in una globalità sempre più frammentata, resta comunque un riferimento. «L’America mi salva, mi chiama e mi rifà», scrisse Giuseppe Prezzolini che ne divenne cittadino e vi visse oltre trent’anni.

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