Comunità Italia Architettura, città e paesaggio dal dopoguerra al Duemila
A cura di Alberto Ferlenga e Marco Biraghi
GIUSEPPE MATARAZZO Avvenire 18 dicembre 2015
La stagione gloriosa dell’architettura
Alla Triennale la mappa del progetto italiano dal 1945 al 2000. I volti di una disciplina che oggi suscita scarso interesse
4 dic 2015 Corriere della Sera Di Vittorio Gregotti
Confesso che devo fare un certo sforzo a scrivere dell’ampia mostra Comunità Italia che si è inaugurata venerdì 27 novembre alla Triennale di Milano e che vuole percorrere l’intero periodo del secondo dopoguerra dell’architettura italiana. Certo una ragione di questa resistenza deriva dal fatto che essa coincide quasi con l’intero percorso della mia vita di architetto, risveglia il ricordo dei miei errori e mancanze, ma la ragione principale è che essa vuole descrivere più di sessant’anni nel loro intero dispiegarsi, senza quasi offrire giudizi sulle diverse opinioni, fondamenti e successioni di idee e sulla discussione dei diversi punti di vista. Forse è proprio per questo che si vuole presentare il materiale senza alcun ordine né regionale né cronologico, sottolineando le aree culturali differenti, proponendo invece forse su un unico piano le ragioni diverse, complicate e contraddittorie che divengono il terreno del desolante stato delle cose di oggi, in cui ogni architettura sembra un oggetto scaduto, senza capacità di durata. Non un racconto storico ma una mappa.
Dobbiamo comunque essere molto grati per il messaggio offerto da questa mostra intorno al nostro recente passato proprio oggi di fronte a una condizione incerta, confusa e pericolosa per il futuro di un’architettura che sembra incapace di mantenere la sua possibilità di essere «sostanza di cose sperate» avrebbe detto Edoardo Persico.
È una mostra importante, con un ottimo allestimento, che descrive una condizione in cui l’architettura era al centro della cultura italiana e che oggi sembra invece suscitare scarso interesse.
Si tratta quindi di una mostra che è volontariamente senza nessuna esclusione di tendenze nella scelta di fondamenti che possano fornire qualche indicazione sulle vie percorribili oggi; piuttosto un ritratto filologico su come si è costruita negli anni tra il 1945 ed il 2000 la nostra cultura, pur con scarsi riferimenti alle connessioni con un internazionalismo critico che pure ha costituito in tutto questo percorso un elemento importante per la cultura architettonica italiana.
Perché dopo un lungo periodo di dibattiti vivissimi, guardando la mostra non sembra oggi di poter agire più nella tragedia o nella contesa culturale ma nella nevrosi di un’indifferenza insieme enciclopedica e dispersiva?
Tutto il passato sembra ricoperto da uno strato di polvere unificante in una sorta di archeologia architettonica, urbana e territoriale che propone un futuro solo come un mosaico complicato e disomogeneo che non produce una figura ma un insieme di tentativi di gruppi in opposizione e con intenzionalità provvisorie.
Dal 1945 al 2000 si confrontano realismo e razionalismo modernista, praticista, o illuminista che prende coscienza dell’importanza di storia e contesto: futuro in cui le tecnologie da mezzi si sono trasformati in contenuti, rari momenti di coscienza del territorio antropologico come materiale di architettura, postsessantottismo divenuto materiale di sogni dispari del soggetto, nuove forme di neoimperialismo o di ideologia democratica americana, decostruzionismo formalista e forme architettoniche come visibilità del capitalismo finanziario globale o al contrario neoregionalismo folcloristico, nostalgie novecentesche o nostalgia mascherata in postmodernismo. Tutto si sovrappone senza vincitori e vinti: o meglio con la dispersione di ogni riflessione su qualche elemento di verità del presente. Oppure tali verità sono oggi tanto frammentate da presentarsi con una sorta di neoeclettismo senza risposte convincenti.
E questo implica sovente nei nostri anni una progettazione architettonica insensibile alla ricchezza della cultura dei luoghi e sensibile solo ad un futuro in cui la globalità significa solo indifferenza sovrapposta al valore della stabilità del progetto, a favore di una provvisorietà come segno dello sviluppo infinito senza meta.
Perché al di là di ogni credenza religiosa e morale, persino l’ambizione dello sviluppo urbano e della regolazione tecnologica del territorio sembrano voler dimostrare solo il desiderio di poter accedere rapidamente ad un nuovo stato delle cose, senza sapere quali. Solo la proposta di qualche rammendo senza toccare i principi insediativi e l’idea di sviluppo in quanto ansia e indecisione, cioè modificazione incessante e provvisoria anziché ragionevole, possibile e necessaria per la vita collettiva e per la sopravvivenza dell’architettura.
Queste sono le reazioni che, forse ingiustamente, ha suscitato su me questa lodevolissima mostra anche del mio passato.
Cinquant’anni vissuti pericolosamente
Emanuele Piccardo Manifesto 19.12.2015
Dopo la fine del secondo conflitto mondiale l’Italia è un paese lacerato, non solo nelle sue parti più fragili, le città, ma anche nelle menti degli architetti, dapprima interpreti del fascismo e poi fautori della ricostruzione, alle prese con la difficile scelta di quale linguaggio applicare alle opere dopo tanto orrore.
Comunità Italia. Architettura, città e paesaggio dal dopoguerra al Duemila, la mostra in corso alla Triennale di Milano a cura di Alberto Ferlenga e Marco Biraghi (visitabile fino al 6 marzo), pone la questione della produzione architettonica degli ultimi cinquant’anni, non senza alcune ombre nella selezione dei lavori e dei punti di vista storico-critici che presenta.
Quello che emerge è una comunità di architetti e architetture eterogenee. Se da una parte troviamo ancora i maestri del moderno come Franco Albini, Figini & Pollini, Gio Ponti, Giovanni Michelucci, impegnati nella riformulazione dei loro linguaggi (da adattare al mutato clima culturale), dall’altra, c’è la proliferazione di architetti che si sono formati a partire dal movimento moderno, ma dal quale hanno preso le distanze, come tutta l’ampia truppa di postmoderni (non solo come fattore temporale): Aldo Rossi, Arduino Cantafora, Giangiacomo D’Ardia, Costantino Dardi, Massimo Scolari, Luciano Semerari e molti altri. «Architetti-maestri» che, attraverso l’occupazione delle scuole di architettura con Aldo Rossi principale alfiere, hanno formato centinaia di professionisti che hanno operato la distruzione della cultura architettonica italiana.
Non è un caso che il postmoderno inconsapevole attuato da geometri, ingegneri e architetti (questi ultimi più consapevoli degli altri) abbia determinato l’espansione della città italiana con i suoi archetipi di villette e condomini, spesso di pessima qualità architettonica e costruttiva. Operazioni speculative le cui scelte progettuali sono state giustificate dai comportamenti dei «maestri». Come è accaduto a Cusago, nell’hinterland milanese, dove una delle quattro case sperimentali di Renzo Piano, costruite negli anni ’70, è stata sostituita da un’abitazione vernacolare in pietra e intonaco giallo-rosa, la seconda demolita quest’anno, e delle due restanti una è ancora integra e l’altra è all’asta a rischio demolizione.
Non è occasionale che proprio nella mostra milanese si parli di un «caso Piano», osteggiato dalla critica militante di Tafuri-Dal Co, nel suo periodo più interessante quello del Beaubourg, delle sperimentazioni nella spiaggia di Voltri, del recupero del Lingotto e, appunto, delle case sperimentali. Così dopo Piano che risponde in modo solitario al monopolio del postmoderno, la rassegna avrebbe potuto evidenziare la non eccezionalità della produzione architettonica dell’ultimo cinquantennio. Ma non accade perché i curatori sono nati in quella cultura che stava colonizzando il dibattito nelle università e nelle riviste.
La comunità italiana degli architetti negli ultimi cinquant’anni ha costruito in contesti molto diversi, dal punto di vista economico, socio-culturale e geografico: dal Villaggio Eni di Edoardo Gellner a Borca di Cadore alla ricostruzione del Teatro Carlo Felice di Aldo Rossi a Genova, dalla tomba Brion di Scarpa alla casa Cei di Ettore Sottsass jr, dal Pirellone di Ponti all’Università di Las Palmas di Polesello. In questi abbinamenti forzati appare evidente lo scontro tra sperimentatori (vinti) e postmoderni (vincitori) dove dell’uso della parola comunità non c’è nessun riscontro reale.
Fare comunità, titolo marcatamente olivettiano, significa avere un ideale, un obiettivo, invece le architetture selezionate non hanno nulla in comune. È una comunità sorda, senza dialogo tra i suoi componenti, di architetti antagonisti gli uni contro gli altri. Ma la mostra, al di là della contrapposizione ideologica, pone alcuni interrogativi più generali sull’efficacia degli allestimenti espositivi. Uno di questi riguarda il display espositivo stesso che, dopo un secolo, è ancora uniformato alla presenza di oggetti fisici come i plastici e i documenti cartacei (talvolta sostituiti da artefatti per ragioni di budget), con un uso dei video finalizzato a colmare le lacune del contenuto.
La scelta di puntare su un allestimento diverso per ogni stanza tematica è interessante ed emerge in maniera più forte del contenuto. Se analizziamo le stanze dell’editoria e del cantiere, la «messa in scena» va in soccorso ai pochi materiali presentati. Nel primo caso, una serie di libri rappresentati dalle fotocopie delle copertine su forex illustrano la produzione editoriale più significativa, mentre i quello del cantiere una serie di pali metallici, che riproducono i ferri dell’armatura del cemento, testimoniano come sia più importante stupire e spettacolarizzare.
In questa alternanza di display, la parte centrale della mostra è quella più riuscita: qui sono collocati i settanta plastici originali, realizzati in cartone, legno, plastica, sintomo di diversi approcci progettuali. Così una rassegna di architettura non sperimenta l’uso delle nuove tecnologie — ologrammi, realtà aumentata, suoni e schermi interattivi, come ha fatto in parte Use (curata da Stefano Boeri in Triennale nel 2002) — per rifugiarsi in un allestimento più tradizionale e sicuro, dove la fotografia, sempre considerata arte minore, occupa un soppalco buio con alcune immagini di Basilico, Ghirri, Guidi. Questo accade nonostante l’importanza che la fotografia ha avuto e ha tuttora nel racconto dell’architettura e delle trasformazioni urbane.
Mostre. «Comunità
Italia. Architettura, città e paesaggio dal dopoguerra al Duemila»: la
rassegna alla Triennale di Milano, visitabile fino al 6 marzo
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