venerdì 4 dicembre 2015

Luigi Pintor nel Novecento

Jacopo Onnis (a cura di): La dignità dell’uomo. Luigi Pintor, ragione e passione, Ediesse

Risvolto

A novant’anni dalla nascita il libro ricorda un protagonista del giornalismo, della politica, della cultura italiana del Novecento. Dal 1925 al 2003 la vita di Luigi Pintor attraversa un secolo segnato da tragedie, speranze, vittorie, sconfitte. La morte del fratello Giaime, 24 anni, in uno dei primi episodi della lotta partigiana, la Resistenza a Roma, la cattura da parte dei fascisti della banda Koch, la tortura, il carcere, la condanna a morte, la militanza comunista, il lavoro giornalistico all’«Unità», la radiazione dal Pci nel 1969, la nascita del «manifesto», su cui scriverà sino a pochi giorni dalla scomparsa. Un’esistenza spesso segnata dal dolore (la morte di entrambi i figli), mai dalla rassegnazione e dalla resa. Si batte fino all’ultimo per la dignità della persona umana, contro ogni forma di sfruttamento, contro la guerra, per una sinistra libera e aperta. La politica per Pintor ha senso solo se non si allontana dall’etica e se è in grado di cambiare i rapporti tra le persone. Maestro di giornalismo, è rimasto famoso per i corsivi e gli editoriali, brevi e fulminanti. Le parole sono preziose, sono fatti di cui assumersi la responsabilità. Lo stile è innanzitutto una questione morale. Ne sono conferma i libri scritti negli ultimi anni della sua vita: Servabo, La signora Kirchgessner, Il nespolo, I luoghi del delitto. Testi brevi, esili autobiografie. Temi privati, intimi: gli affetti, la malattia, il dolore, la morte. Testi esemplari, per discrezione e finezza letteraria.



Un’etica politica assoluta e intransigente 
Saggi. «La dignità dell’uomo. Luigi Pintor, ragione e passione», un volume collettivo sul giornalista e fondatore de «il manifesto» 

Alessandra Pigliaru Manifesto 4.12.2015, 0:19 
«Non ha mai cessato di combattere. La morte lo ha toccato spesso, la rassegnazione mai. Non voglio che passi l’idea, presente in molte pur rispettose e affettuose commemorazioni, di un grande giornalista, di un prodigioso polemista, di una esemplare testimonianza di impegno politico-morale, e però di un irrealistico e sconfitto profeta». Luciana Castellina appare netta, nel suo lungo e circostanziato ricordo di Luigi Pintor, posto in apertura di un volume appena pubblicato per Ediesse e a cura di Jacopo Onnis che ripercorre la vita, il lavoro e le relazioni politiche di una figura centrale del Novecento italiano. La dignità dell’uomo. Luigi Pintor, ragione e passione (pp. 246, euro 13), ricorda così la parabola di Pintor restituendone più che un mero omaggio. Dignità, ragione e passione sono elementi che ne ritraggono bene la vicenda umana e politica. Di tenore kantiano, i contorni della dignità seguivano in Pintor una qualità morale intrinseca, non negoziabile, senza prezzo. Un nitore della ragione quando si chiarisce a se stessa, declinata anche in un «un fortissimo bisogno di assoluto» – come ricorda Alfredo Reichlin – per niente spirituale ma legato a un fermo languore di verità. L’etica della parola era la stessa che accompagnava sia i suoi indimenticabili editoriali che le sue produzioni narrative autobiografiche. In entrambi i casi lo stile doveva restare asciutto, arrivare all’essenziale per portare alla sintesi la struttura complessa di pensiero e linguaggio. 
La scomparsa del fratello Giaime, 24 anni, che viene ucciso da una mina tedesca nei pressi di Castelnuovo al Volturno, sorprende Luigi Pintor diciottenne ma niente affatto impreparato. Anzi, è da lì a poco che prende avvio la resistenza a Roma nei Gap, dopo che la guerra si è sovrapposta alla sua adolescenza «con la precisione di una calcomania» — scriverà nel prologo di Servabo. La militanza comunista, il lavoro giornalistico, l’esilio in Sardegna dopo l’XI congresso del Pci, la radiazione dal partito, la scommessa di un quotidiano come il manifesto sono solo alcune delle tappe che raccontano un’ostinazione lungimirante nello stare al mondo. Forse perché, sottolinea Valentino Parlato, in Luigi Pintor «la ragione diventava passione». Non era passaggio repentino ma lento, intransigente corrugarsi di quello che è stato il suo speciale «incrocio tra la notazione del vissuto e la rappresentazione del nocciolo generale» — come ha avuto modo di scrivere Pietro Ingrao. Sta qui infatti la consapevolezza dell’implacabile rimando che dalla vita piena di dolori lo ha sempre e comunque riportato alla politica, ricondotta a questa altezza nelle parole di chi lo ha conosciuto. Ripercorrere allora la memoria di una generazione che accanto e insieme a lui è cresciuta, e, per chi è più giovane, immaginare l’orizzonte di una stagione fondamentale del Novecento, sono aspetti che segnano l’operazione voluta da Jacopo Onnis. 

A parte i contributi di Pietro Ingrao, Rossana Rossanda e Alberto Asor Rosa – comparsi nella rivista del manifesto nel 2003 — i restanti ventisei interventi che compongono il volume e si snodano tra interviste, testimonianze e aneddoti, raccontano l’intelligenza di un protagonista, maestro di giornalismo, un uomo che non si è accontentato di essere minoritario – secondo Rossana Rossanda. Nelle sfumature private della sorella Antonietta, di sua moglie Isabella Premoli, emerge il ritratto severo ma gentile di un uomo d’altri tempi, indocile eppure capace di attenzioni. Così nel macerarsi per la morte di suo figlio Giaime all’età di 41 anni. Ne ritrova le agende e decide di riportarne un passo, impietoso e difficile, contenuto ora in un capitoletto de La signora Kirchgessner. E infatti conclude: «io non capivo che la mia trepidazione paterna non trasmetteva intimità e tenerezza ma estraneità e imposizione. E continuerò a non capirlo in più gravi circostanze. Può dunque capitare di mettere al mondo un bambino con suo patimento, di non aiutarlo a starci, di farlo crescere in sofferenza e morire in solitudine». 

Testimone del proprio tempo, più che pessimismo il suo è stato un realismo estremo – per dirla con Loris Campetti. E non solo perché ha saputo prevedere lucidamente gli sviluppi della politica e della sinistra italiana, come ricorda Riccardo Barenghi, ma perché era l’osservazione profonda e attenta della realtà a portarlo a chiarezza inequivocabile, «ricerca di una soluzione utile a preparare una svolta» secondo Norma Rangeri.
«Contano più che mai le intenzioni. Se fosse per i risultati non rifarei nulla di quello che ho fatto e non fatto. Preferirei di no. Ma se guardo alle intenzioni – scriveva Pintor — è un altro discorso». Da Anna Maria Pisano a Ritanna Armeni, Corradino Mineo, Stefano Rodotà, Marco Ligas, Aldo Tortorella e molti altri, il rigore politico e l’irreprensibilità sono state le cifre distintive attraverso cui viene ricordato Luigi Pintor: «consiglierei una rivoluzione retrattile, per quanto l’aggettivo non si presti alle scritte murali, che ristabilisca i ritegni e i tempi interiori abolendo gli orologi. Qualcosa che permetta di capirsi (…), i gesti che sfiorano le cose viventi e quelle inanimate e dicono più delle parole articolate di cui meniamo vanto».

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