mercoledì 9 dicembre 2015

Non lasciamo le città alla destra: alleiamoci con Berlusconi

Su Repubblica una lettera con tre firme di peso: Marco Doria, Giuliano Pisapia e Massimo Zedda, i primi cittadini 'arancioni' eletti a Genova, Milano e Cagliari anche con il sostegno del Pd. Una richiesta di unità, per "continuare percorsi che ci hanno permesso di vincere in passato e ci permetteranno di vincere in futuro". Un messaggio a Matteo Renzi: "Rafforziamo le componenti di sinistra" di MARCO DORIA, GIULIANO PISAPIA e MASSIMO ZEDDA Repubblica 9 12 2015



La sinistra risponda all’appello dei sindaci

di Piero Ignazi Repubblica 11.1215
È un invito ad un cambio di passo tanto all’interno quanto all’esterno del Pd, affinché la discussione esca da dissidi personalistici, insofferenze caratteriali e posizionamenti congressuali. Tutta l’opinione pubblica è affamata di una politica alta, di prospettiva, impregnata di convinzioni profonde. E l’area progressista in particolare richiede la difesa dei valori democratici e repubblicani a fronte del populismo arrembante e la definizione di una agenda politica sui nuovi diritti civili, su un moderno sistema di welfare e di gestione della cosa pubblica. Una agenda, in sostanza, ispirata alla giustizia e alla libertà del XXI secolo.
La lettera dei tre sindaci arancioni eletti della “antica” coalizione tra Pd e Sel — Pisapia, Doria e Zedda — rimette in moto uno spazio politico che si era anchilosato. Non a caso tutti gli attori politici interrogati dalla proposta unitaria dei sindaci, colti in contropiede, hanno immediatamente reagito con un riflesso di chiusura o di perplessità. Solo in un secondo momento il segretario del Pd ha accolto con accenti positivi il loro invito. Il loro partito di appartenenza, invece, sembra più reticente, diviso com’è tra un’ala dialogante con il governo e una duramente critica, conseguenza anche della miniscissione verso il Pd di alcuni deputati.
Di certo il messaggio dei sindaci riapre una questione — il rapporto con la sinistra — che sembrava passata nel retrobottega della politica dei democratici. A forza di insistere sul partito della nazione e di corteggiare verdiniani e affini, il Pd aveva preso una rigida postura centripeta. Ora il partito non solo deve rispondere alla proposta formulata dai suoi ex compagni di strada, ma, più in generale, deve anche porsi il problema delle alleanze perché pensare di vincere in solitaria in un sistema tripolare, quale è oramai quello italiano, costituisce un azzardo. La competizione politica segue oggi schemi totalmente diversi rispetto al 2010. Allora dominava la scena il conflitto con la destra, mentre i grillini non esistevano; inoltre il Pd doveva fronteggiare una insidia interna, portata da candidati vendoliani o alternativi (così a Milano, Napoli, Genova, Cagliari e altrove) che vincevano contro i democratici nelle primarie di coalizione.
Oggi il Pd è certamente più forte, ha una centralità nemmeno paragonabile a quella di cinque anni fa. E quindi ha responsabilità maggiori: deve interpretare e guidare tutto l’arco del centrosinistra, senza steccati o preclusioni. Perché l’invito di Pisapia, Doria e Zedda chiama a raccolta il “fronte repubblicano” per evitare una deriva di destra, di una destra lepenista esaltata dalla Lega di Salvini e dai Fratelli d’Italia della Meloni, ma gradita anche a corposi settori di Forza Italia. La minaccia di uno sfondamento del lepenismo all’italiana è ancora remoto, ma eventi imprevedibili possono accendere la miccia della paura e del riflesso sicuritario, e illusoriamente protettivo, a favore di chi urla più forte. Per prevenire questo rischio il centrosinistra non può andare in ordine sparso. Anche il partito egemone di questa area, il Partito democratico, non può pensare di governare dovunque, solo contro tutti. Il Pd deve uscire dall’abbaglio del 41% delle europee. Si è cullato troppo a lungo nella convinzione di essere diventato egemone, l’unico player in campo. Invece, per vincere è necessario, come ricordano i sindaci, ampliare il fronte a tutti coloro che condividono “gli ideali e i valori del centrosinistra” al di là delle divergenze sulle singole politiche.
Proprio questo invito, ancora più che nella proposta di alleanze per le amministrative, costituisce il cuore, e la sfida più ambiziosa, della lettera dei tre sindaci: discutere, ragionare, confrontarsi su quali sono oggi questi ideali e valori di fronte al perdurare di una profonda, devastante crisi socio-economica, ad uno slabbramento del vivere civile, alle sfide dell’immigrazione e dell’accoglienza, dell’integrazione e della sicurezza. Disegnare una nuova agenda valoriale e politica del centrosinistra, di un centrosinistra aperto e inclusivo, costituisce la migliore risposta all’antipolitica e all’aggressività della destra estrema. 

Guardare oltre il Duomo la sfida a Renzi di Pisapia
Il suo appello unitario parla al cuore e alla mente di una sinistra frastornata E ha come orizzonte “nascosto” il 2018di Stefano Folli Repubblica 9.12.15
Non è un duello in stile Ok Corral perché la forma e le buone maniere non si dimenticano, ma certo è un contrasto politico serio quello che si profila a Milano. Da un lato il commissario all’Expo, Giuseppe Sala, che incarna un’ipotesi ben precisa: il sindaco-manager capace di rompere i vecchi schemi e raccogliere consensi negli ambienti della sinistra moderata non meno che della destra pragmatica: un sindaco “del fare”, si sarebbe detto in anni passati, del tutto post-ideologico.
Dall’altro lato una candidata dalla forte impronta politica, Francesca Balzani, vice di Pisapia e nei fatti sostenuta a spada tratta dal sindaco uscente. Il primo interpreta la prospettiva centrista del Pd, tale da raccogliere consensi anche nell’area che un tempo avrebbe votato Berlusconi. La seconda rappresenta un tentativo di riaggregare il voto di sinistra nelle sue varie e disarticolate espressioni. Il primo è l’immagine stessa del “partito del premier”, formula che convince di più dell’altra definizione: quel “partito della nazione” sempre evocato, ma raramente precisato.
La seconda è soprattutto una scommessa: l’idea che possa esistere una sinistra con radici nella società, specie fra i ceti più deboli, e al tempo stesso in grado di vincere nelle urne. Quindi non una sinistra condannata alla sconfitta oppure a trasformarsi in qualcosa di diverso (appunto il “partito del premier”).
Milano - ormai è quasi un luogo comune è la città che anticipa i cambiamenti. Anche stavolta non si smentisce. L’appello all’unità - del Pd e della sinistra - firmato da Pisapia con i sindaci di Genova e Cagliari ha un preciso significato: vuole parlare alla mente e anche al cuore di un mondo talvolta frastornato, incerto sulla propria identità e incalzato dai nuovi populismi, leggi 5Stelle in primo luogo.
Al tempo stesso la linea di Pisapia è diversa, non solo nel tono, rispetto al renzismo. Per ora riguarda il livello comunale, ma con l’ambizione sottintesa di valere un giorno anche sul piano nazionale: magari quando il Pd andrà a congresso, prima delle elezioni del 2018.
Con il progetto di riunire le anime della sinistra, in particolare il Sel, Pisapia spera di consolidare la base elettorale della Balzani. E non a caso la diretta interessata auspica un confronto aperto, non condizionato dai vertici romani. L’appello serve a definire un patrimonio di consensi alternativi a quelli in cui pescherà Sala, ovvero quel bacino trasversale assai vasto sulla carta, che fa del manager un candidato quasi imbattibile in vista del confronto interno.
Ma bisogna guardare oltre Milano. Un passo dopo l’altro, Pisapia sta modellando un profilo distinto rispetto al capo del governo. Lo fa con il sorriso e senza fretta, anche con lealtà, eppure il suo obiettivo è tagliare la strada al “partito del premier” nella città più importante e più legata alle speranze o alle illusioni di ripresa economica.
La minoranza del Pd e con essa l’area non solo parlamentare che vive con frustrazione il “renzismo” potrebbero aver trovato il loro nuovo punto di riferimento. In fondo hanno bisogno di una leadership dopo il risultato non esaltante della battaglia contro la riforma del Senato. Pisapia potrebbe essere quel leader? È difficile dirlo oggi, ma l’idea di ripartire da Milano e dalle primarie ha una sua logica. Non più il gioco stretto all’interno dei palazzi, ma un’uscita in campo aperto sfruttando l’arma renziana per eccellenza: le primarie.
L’argomento per riaggregare la sinistra è preso dalla cronaca di questi giorni: l’esigenza di contrastare il populismo di destra, ossia il vento francese. Il che non riguarda Sala, certo non classificabile come populista. Tuttavia i termini del problema sono chiari: la ricucitura dei rapporti a sinistra contro il dinamismo modernizzatore che punta tutto sulla persona.
C’è da credere che Renzi non si farà trascinare nella contesa per non mettere a rischio il governo. A lui interessa in via prioritaria non perdere le maggiori città. A Milano meglio riuscirci con Sala, ma in concreto si vedrà. 

Dopo il voto. Il Front National si infrange sul muro di Parigi Patto elettorale Ps-Verdi-Gauche
Nella capitale il partito della Le Pen si è fermato al 9,65%. Ancora più giù nell’XI arrondissement ferito dalla strage. L’elettorato borghese urbano rimane a sinistra. Ma le élites cominciano a convertirsi al populismodi Bernardo Valli Repubblica 9.12.15
Ufficiali da ieri le liste per il ballottaggio No di Sarkozy ad accordi con i socialisti che però hanno ritirato i candidati in tre sfide. Intesa a sinistra in otto regioni Alti funzionari, laureati all’Ena sono sempre più attirati da una forza politica dinamica che ai loro occhi sembra ormai in grado di offrire buone occasioni “
I barbari sono stati respinti, ma l’estrema destra darà nuovamente l’assalto a quello che considera il detestato centro del potere
PARIGI L’ONDATA di estrema destra non si è abbattuta sulla capitale come sul resto del paese. Si è quasi infranta contro le mura di Parigi, come un fiume in piena contro un argine. I voti al Front National sono stati infatti espressi con parsimonia nei venti arrondissements (distretti municipali) della metropoli, la quale conta due milioni e mezzo di abitanti. Nell’insieme della Francia il partito di Marine Le Pen ha ottenuto il 28% al primo turno delle regionali di domenica scorsa. Sulle rive della Senna si è dovuto accontentare di un terzo: 9,65%. Un quoziente modesto che figura al quarto posto, dopo quello del centro destra, dei socialisti e dei Verdi. Parigi ha deluso la famiglia Le Pen. E ha rassicurato molti francesi.
Alcuni miei vicini di casa, in un arrondissement dove il risultato del FN è stato ancora più misero (7,32%) rispetto a quello nazionale, dicono che «i barbari sono stati respinti ». Altri sostengono invece che la metà dei parigini «ha snobbato le urne». E aggiungono «meglio così, potevano fare dei danni». Altri ancora paventano che «l’estrema destra riservi l’ultimo assalto a Parigi, detestato centro del potere». C’è anche chi è fiero: «Parigi ha resistito».
Sono pareri in cui si alternano humor e inquietudine. Ai quali va aggiunta una precisazione. La Parigi intra muros è un’isola urbana in cui vive una ristretta popolazione privilegiata, oltre a quella addetta ai servizi dei quartieri popolari, per lo più magrebini. E in essa affluiscono ogni mattina e se ne vanno ogni sera milioni di uomini e donne residenti nell’ampia regione circostante, l’Ile de France. La società parigina, come quella di altri grandi centri urbani (Lione o Bordeaux), con la no- tevole eccezione di Marsiglia, si è puntualmente espressa in favore dell’Europa e si è rivelata meno sensibile ai richiami populisti. Anzi li ha respinti. Anche in questa occasione.
Un tempo popolare e amante delle barricate, la capitale si è soprattutto imborghesita, e vi risiede un campione abbastanza significativo dell’attuale elettorato di sinistra, composto da una classe media professionale. Non a caso il sindaco attuale è una socialista, come il suo predecessore. Insomma questa è un’importante porzione di Francia che non si lascia sedurre da Marine e da Marion, le due Le Pen, la zia e la nipote. Anche l’11° arrondissement, dove sono avvenuti i massacri di gennaio a Charlie Hebdo e di novembre al Bataclan, ha lesinato i voti al Front National. Non gli ha dato più del 7,49%. Neppure un terzo del risultato nazionale che traumatizza la società democratica. Le emozioni per il sangue versato dai terroristi non hanno favorito il partito islamofobo.
Questa seconda Francia riequilibra la situazione che l’attualità, attizzata da due voti, quello negativo espresso domenica scorsa e quello incerto dei ballottaggi di domenica prossima, rende inquietante. Marine Le Pen non può contare su questa Francia, in larga parte urbana. Per alimentare il suo sogno di diventare un giorno la prima donna presidente della Quinta Repubblica. Per ora la sua Francia è l’altra: quella in cui l’estrema destra raccoglie i voti di molti operai un tempo comunisti e socialisti, e di parte della classe media impoverita e impaurita dall’immigrazione. E tuttavia le élites che un tempo respingevano in blocco il Front National bussano alla sua porta. Alti funzionari, laureati della Scuola Nazionale dell’Amministrazione (l’Ena), dalla quale escono ministri e dirigenti d’azienda, e delle Grandes écoles, fabbriche di tecnici e di insegnanti, sono sempre più attirati da una forza politica dinamica che ai loro occhi sembra ormai in grado di offrire buone occasioni.
Per non parlare degli intellettuali “non più universali ma sovranisti”, in definitiva provinciali, in compunta osservazione del fenomeno Le Pen, che potrebbe salvare l’identità nazionale dal detestato multiculturalismo. Ho scoperto in una rivista di filosofia che Antonio Gramsci è stato adottato dagli intellettuali “sovranisti” che apprezzano le pagine in cui parla di come si raggiunge l’egemonia culturale.
Sono tutti sintomi che annunciano l’ingresso imminente del Front National nella società democratica che finora lo respingeva? E’ quel che temono i partiti in queste ore indaffarati nel preparare la controffensiva destinata a limitare l’avanzata del Front National, dal 6 dicembre prima formazione politica di Francia in seguito ai voti ottenuti al primo turno delle elezioni regionali. Dalle 18 di ieri le liste dei candidati ai ballottaggi di domenica sono ufficiali. Il capo del centro destra, Nicolas Sarkozy, ha ribadito il suo rifiuto di unirsi ai socialisti per decidere quali candidati, dei due partiti, siano i più adatti ad affrontare, nelle varie situazioni, il Front National. I socialisti hanno allora deciso di propria iniziativa di ritirare i loro uomini in tre regioni, nel Nord, nell’Est e in Provenza, e hanno invitato gli elettori a esprimersi in favore del rappresentante del centro destra per sconfiggere il Front National. E’ stata un’iniziativa generosa di cui resta incerto l’esito, poiché chi ha votato a sinistra al primo turno potrebbe rifiutare l’appoggio all’esponente di destra, sia pure democratico.
La sinistra ha nel frattempo deciso di unirsi: gli esponenti del partito socialista, del Front de Gauche (la sinistra della sinistra, di cui fanno parte i comunisti) e dei Verdi hanno raggiunto faticosamente un accordo per affrontare insieme il voto in otto regioni. Soltanto per la Bretagna non è stata trovata un’intesa. L’unità della sinistra dovrebbe favorire i socialisti in regioni che sembravano fuori dalla loro portata. 


Psicodramma socialista: la base si ribella a Parigi «Strategia sbagliata»
Per Jean-Pierre Masseret, 71 anni, «il fronte repubblicano ha fallito dal 2002» Il «no» di Sarkozy I «Républicains» hanno rifiutato fusioni o desistenze, ma il Ps chiede lo stesso il ritiro
Il presidente uscente della Lorena rifiuta di ritirarsi al secondo turno per «passare» i voti alla destra di Sarkozy Decine di candidati lo seguono e bocciano la teoria di un «fronte repubblicano» per fermare il Front National
di S. Mon. Corriere 9.12.15
METZ «Non mi ritiro». Tenace come il padre minatore, Jean-Pierre Masseret è un signore di 71 anni che ha passato tutta la vita tenendo in tasca la tessera del Partito socialista. Presidente uscente della Lorena, Masseret era il candidato della sinistra nella nuova grande regione dell’Est (Alsazia-Lorena-Champagne-Ardenne), diventata in queste ore il cuore della politica francese. Il suo no ai vertici di Parigi fa tremare il partito, e il sistema grazie al quale la democrazia finora era riuscita a tenere il Front National lontano dal potere.
Da domenica sera in avanti, Masseret ha ricevuto da Parigi le continue telefonate e gli sms del segretario Jean-Christophe Cambadélis e del primo ministro Manuel Valls. Non erano messaggi di incoraggiamento.
Dopo lo choc di domenica 6 dicembre — il Front National in testa in 6 regioni su 13 —, il Partito socialista ha tentato di rianimare un ormai moribondo «fronte repubblicano», ossia il vecchio patto tra destra e sinistra per convogliare i voti al secondo turno su un unico nome, in modo da sbarrare la strada al candidato del Front National. I Républicains di Nicolas Sarkozy hanno rifiutato fusioni o desistenze, ma il Ps ha deciso di procedere in modo unilaterale nelle tre regioni dove il FN rischia davvero di vincere, ossia a Nord, Sud e Est, che sono anche quelle dove i socialisti hanno ottenuto i risultati peggiori.
Nelle prime due regioni i candidati di sinistra si sono conformati alle consegne di partito e si sono ritirati, appoggiando gli ex avversari di destra Xavier Bertrand contro Marine Le Pen e Christian Estrosi contro Marion Maréchal-Le Pen. Nell’Est, la manovra è andata male.
Anche lì i vertici socialisti hanno chiesto al loro uomo Masseret di non presentarsi al secondo turno. Sono persino andati in televisione per lanciare un appello agli elettori di sinistra a votare domenica prossima non per lui ma per il suo avversario di destra Philippe Richert, meglio piazzato nella sfida contro il candidato del Front National, Florian Philippot.
Il dramma interno al Partito socialista al potere è andato avanti fino a ieri sera alle 18, e si è concluso nel modo peggiore possibile. Cambadélis e Valls hanno incassato il rifiuto di Masseret, ma non solo. Quando è stato chiaro che lui sarebbe andato avanti, rispettando un impegno preso con i militanti durante la campagna elettorale, Cambadélis e Valls si sono rivolti agli uomini della sua lista ordinando anche a loro di abbandonare: se il 50% più uno avesse ubbidito, la lista Ps sarebbe stata dichiarata caduca per legge, nonostante Masseret. C’era tempo fino alle 18 per ottenere il ritiro di 95 nomi, ma hanno abbassato la testa solo in 71 su 189. La lista socialista va avanti, contro il volere del partito a Parigi. La base si ribella ai vertici.
«Il fronte repubblicano non funziona», dice l’eroe del giorno (negativo o positivo a seconda dei punti di vista) Jean-Pierre Masseret. «Da domenica sera dormo poco. Non è un momento piacevole per me. Diventerò il colpevole di tutti i mali della Terra. Ma la strategia del fronte repubblicano non va bene, e questo dal 2002».
Masseret si riferisce a un evento traumatico per la sinistra francese: il 21 aprile 2002 l’allora leader del Front National Jean-Marie Le Pen arrivò secondo al primo turno delle presidenziali, superando a sorpresa il premier socialista Lionel Jospin che abbandonò per sempre la vita politica. Al ballottaggio gli elettori socialisti vennero invitati a votare per il presidente uscente e fino ad allora avversario Jacques Chirac, che vinse a mani basse.
Da allora il «fronte repubblicano» è servito come valvola di sicurezza del sistema, frenando l’avanzata dei lepenisti. Ma ha incoraggiato la tendenza a combattere il Front National non sul piano delle idee, ma con un misto di disprezzo e manovre sottobanco, e ha offerto ai Le Pen argomenti a sostegno dello slogan «sono tutti uguali».
«Continueremo la lotta fino in fondo», proclama allora il socialista ribelle Masseret. Anche a costo di favorire la vittoria finale di Florian Philippot e del Front National. 

La crisi economica e non il terrorismo il motore del Front
Ha vinto nelle regioni dove la disoccupazione è più altadi Alessandro Barbera La Stampa 9.12.15
La Liberté è rimasta sepolta sotto i cadaveri del Bataclan. La Fraternité l’ha fatta a pezzi la globalizzazione, in Francia come nel resto d’Europa. Ma quanto ha pesato l’Egalité nell’enorme vittoria di Marine Le Pen al primo turno delle elezioni amministrative? Se le stragi avessero fatto la differenza, il risultato del Front National a Parigi avrebbe dovuto essere eclatante. E invece se si esclude la Bretagna, lì registra il peggior risultato con uno striminzito 9,7 per cento dei consensi.
Il flop a Parigi
Nel decimo arrondissement, il cuore sanguinante della Capitale, la percentuale scende al 7,3 per cento. Può sembrare solo una questione di censo. L’elettore lì è aperto, laico, cosmopolita, niente a che vedere con chi vive nelle periferie che hanno allevato una generazione di terroristi. Ma quello è anzitutto un francese ricco. Se giri per le strade e chiedi dove stia il grande malato d’Europa, qui non sanno di che parli.
Bloomberg ha confrontato il risultato di domenica del Front National con il tasso di disoccupazione regione per regione: quanto più è alta la percentuale dei senza lavoro, tanto più forte è il successo dell’estrema destra. Vero è che le dodici grandi aree nate dalla nuova divisione amministrativa sono grandi e complesse, eppure il risultato migliore la Le Pen lo incassa nel Nord-Pas-de-Calais, poi in Provenza, in Alsazia e Lorena, nel Languedoc, zone in gran parte rurali, dove la disoccupazione supera il dieci per cento e non sempre note per le tensioni etniche. Insomma, nella vittoria della Le Pen c’è anzitutto la sofferenza di una nazione che punisce i due grandi partiti che in questi anni l’hanno governata con scarsi risultati: i socialisti e l’ex Ump di Nicolas Sarkozy.
Tasse alle stelle
La pressione fiscale in Francia resta oltre il 44 per cento, la più alta d’Europa dopo la Danimarca, la crescita è debole (+1,1 per cento la previsione alla fine dell’anno) appena migliore di ciò che spera di ottenere Matteo Renzi. Ma la spesa pubblica è al 57,2 per cento del Pil, ben oltre il 51,1% dell’Italia e il 49,3% della Grecia. La disoccupazione è di sette decimali sotto a quella italiana (10,8 contro l’11,5 per cento) e però calmierata da un esercito di dipendenti pubblici nell’amministrazione centrale e locale. Mentre a queste latitudini si tagliava, oltralpe si assumeva.
Immigrazione, identità, eclissi dei partiti tradizionali: nella crisi della politica continentale c’è certamente molto di questo. Eppure il prosaico «It’s the economy stupid» coniato nel 1992 dallo stratega di Bill Clinton James Carville si conferma decisivo. Per recuperare consensi il premier spagnolo Mariano Rajoy si è spinto a pelar verdure in un programma televisivo. Risalire la china del 44 per cento incassato quattro anni fa è impossibile, ma nonostante questo i sondaggi lo danno saldamente in testa con oltre il 28 per cento, almeno sette punti sopra il minimo storico, il Psoe, i liberisti di Ciudadanos, almeno dieci punti sopra Podemos di Pablo Iglesias. Al netto della reazione patriottica alle ambizioni autonomiste della Catalogna, il recupero di Rajoy è speculare al trionfo della Le Pen: l’economia spagnola viaggia ad una velocità quattro volte quella dell’Italia, tre volte più veloce della Francia. La disoccupazione è ancora altissima al 21,6 per cento, eppure in rapido calo. Più che nei grandi centri urbani, Rajoy recupera consenso nelle zone più povere, quelle che avevano pagato il dazio più alto alla crisi iniziata nel 2011 e culminata con il salvataggio europeo delle banche. Si vota domenica 20 dicembre, un paio di giorni prima le aziende spagnole distribuiranno la tredicesima a lungo sospesa. A Madrid dicono che la scelta della data non è a caso. It’s the economy, stupid. 

Il «Front national» italiano? È il M5S, non la Lega Nord
di Roberto D’Alimonte Il Sole 9.12.15
L’Italia non è la Francia. E Matteo Salvini non è Marine Le Pen. Sembra una cosa scontata e invece pare che lo si debba rammentare. L’uno è il leader di un partito che si chiama Lega Nord per l’indipendenza della Padania. L’altra guida un partito che si chiama Front National. Come si fa a pensare che siano la stessa cosa? È vero che Salvini cerca di far dimenticare le origini del suo partito non parlando più di Padania e omettendo sempre più di frequente il riferimento al Nord, ma è un espediente che funziona poco. La Lega di Salvini non è un partito nazionale. Il suo elettorato si concentra prevalentemente nelle regioni del Nord dove alle ultime europee ha preso il 12% dei voti contro l’1% nelle regioni del Sud. E non è nemmeno un partito nazionalista perché non è l’Italia, ma la Padania il suo riferimento ideale e il suo obiettivo politico. Nel suo statuto si parla esplicitamente di indipendenza della Padania e del suo riconoscimento internazionale quale “Repubblica federale indipendente e sovrana”. Tutto il contrario del partito di Marine Le Pen che invece ha fatto della identità nazionale il nocciolo duro del suo programma.
Né è credibile l’idea che Salvini possa convocare in un prossimo futuro un congresso straordinario per trasformare la Lega Nord in Lega nazionale. La Lega è quella che è. E lo sarà ancora a lungo. Ancorata a un passato che oggi sta stretto a Salvini, le cui ambizioni- queste sì - sono uguali a quelle di Marine Le Pen. Anche se volesse il leader della Lega Nord non si può permettere cambiamenti radicali che distruggerebbero l’attuale Lega senza certezze sulla possibilità di creare un partito di destra nazionale simile a quello francese. In questi casi l’ambiguità è una soluzione obbligata. Ed è questa la strategia oggi. In fondo la Lega Nord di Salvini è un po’ come il vecchio Pci. L’obiettivo del superamento del capitalismo era sempre lì, ma non se ne parlava mai. Così è per l’indipendenza della Padania. Ma Salvini ha certamente un merito. Ha ereditato una Lega Nord ridotta ai minimi termini e ne ha fatto il maggior partito del centro-destra italiano. Non è poco, ma non basta a farne il Fronte italiano.
Una cosa accomuna Lega Nord e Front National: la loro posizione fortemente critica su Europa e immigrazione. Queste sono questioni che oggi pagano sul piano elettorale. Ma non bastano a Salvini per far dimenticare agli elettori del centro-sud che il suo è un partito del Nord. L’espediente di attrarre questi elettori con una lista diversa da quella della Lega Nord, una lista incentrata sul suo nome, non ha funzionato alle ultime elezioni regionali ed è molto improbabile che possa funzionare alle prossime. In Puglia la lista Noi con Salvini ha preso il 2% dei voti. In Campania non si è nemmeno presentata.
L’Italia non è la Francia per un altro motivo che nuoce a Salvini. In Francia il Front National è la vera alternativa ai partiti tradizionali. Come tale raccoglie non solo i voti di coloro che vogliono meno Europa, meno immigrazione e più sicurezza, ma anche di quelli che puntano a un cambiamento radicale di classe dirigente. È il partito anti-establishment della Quinta Repubblica. Un partito tenuto ai margini per decenni da un sistema istituzionale ed elettorale che lo ha penalizzato. Ancora oggi dentro l’assemblea nazionale ci sono solo due deputati del Fronte su 577, pur avendo ottenuto quasi il 14% dei voti alle ultime elezioni politiche nel 2012. Ma questa emarginazione è diventata ora un vantaggio perché consente al partito di Marine Le Pen di apparire come diverso dagli altri e quindi di capitalizzare la voglia di cambiamento cui i partiti tradizionali non riescono a rispondere. La Lega di Salvini non ha questo vantaggio. È un partito che è stato a lungo al governo. E oggi si presenta ancora come alleato di un partito come Forza Italia che è membro del partito popolare europeo. È come se Sarkozy e Le Pen andassero a braccetto.
Da molti punti di vista, ma non tutti, è il M5s ad essere molto più simile al Front National. È questo il partito percepito da tanti elettori italiani, in tutte le zone del paese e in tutti i ceti sociali, come la vera alternativa alla casta. Le sue posizioni sulla immigrazione non sono quelle del Fronte di Marine Le Pen, nonostante gli ammiccamenti di Grillo verso gli elettori leghisti. Su questo tema il M5s non può permettersi di rincorrere la Lega Nord. La sua componente di sinistra si ribellerebbe. Ma sull’Europa invece è molto vicino alle posizioni del Front National e questo gli consente di togliere spazio a Salvini. Inoltre come il Front National beneficia della crisi economica e delle paure a essa associate. Insomma, il quadro politico italiano è molto più complesso e frammentato di quello francese e questo rende difficile per Salvini imitare Marine Le Pen. I due sistemi partitici sono semplicemente troppo diversi. Le vicende politiche francesi non avranno un effetto politico duraturo da noi, anche se i problemi che sollevano ci toccano da vicino. Oggi in Italia esiste certamente uno spazio politico per un partito come il Front National, ma è occupato da troppe formazioni in competizione tra loro.
In ogni caso solo domenica si vedrà cosa succederà veramente in Francia. Il primo turno ha fotografato le prime preferenze degli elettori e il Front National è arrivato primo, così come aveva già fatto alle ultime europee. Ma la sinistra e la destra hanno preso complessivamente più voti. La prima 7.806.562 e la seconda 6.884.785 contro i 6.052.733 del partito di Le Pen. Trattandosi di un sistema maggioritario non sono questi totali a decidere la partita, ma la distribuzione dei voti nelle varie regioni. Ma questi voti dicono che destra e sinistra rappresentano insieme ancora due terzi degli elettori francesi. Dipenderà da loro il risultato finale. Dipenderà soprattutto dal comportamento degli elettori dei partiti di sinistra esclusi dal secondo turno. Il bello dei secondi turni è che gli elettori, sia quelli dei partiti esclusi dal secondo turno sia quelli dei partiti presenti, sono davanti ad una scelta chiara. Dal loro voto dipende chi governa, e lo sanno. Di fronte a questa responsabilità molte cose possono cambiare, o nulla. Nell’un caso o nell’altro all’indomani del voto ne sapremo molto di più su quello che bolle all'interno della società francese. 

La democrazia della paura
di Nadia Urbinati Repubblica 9.12.15
LA DEMOCRAZIA della paura ha vinto in Francia con l’arma della retorica xenofoba del Fronte Nazionale. È temuta in tutti i paesi occidentali. Lo si intuisce dalle parole tranquilizzanti usate da Barack Obama nella conferenza stampa tenuta due giorni fa. Il Presidente ha sentito il bisogno di rassicurare gli americani che farà tutto quanto è in suo potere per proteggere la democrazia, aggiungendo che «la libertà è più potente della paura» e deve essere difesa a tutti i costi. Alla sua destra, i candidati repubblicani, Donald Trump in testa, lanciano allarmati proclami di chiusura delle frontiere e perfino di Internet. Il problema è che di fronte a nemici invisibili e spietati, come i terroristi dell’Is, la libertà cerca riparo nelle politiche di emergenza e queste possono a loro volta essere usate da cinici demagoghi per chiedere misure liberticide radicali, nel nome della difesa della nazione. Questo è il rischio che corre la Francia oggi. La severità tempestiva di Hollande non è riuscita a convincere i francesi che quelle misure di limitazione delle libertà sono sufficienti. E come in un circolo vizioso, la strategia della salvezza nazionale diventa scopo a se stesso; per Marine Le Pen la guerra contro l’Is è un pretesto e le misure antiterrorismo sono la grande opportunità per realizzare il vero obiettivo: risolvere il problema dell’immigrazione con la chiusura delle frontiere. Farla finita con l’Europa. Ecco il progetto dei nazionalisti europei, che hanno in Le Pen la loro leader.
E Marine Le Pen lo sa e usa proprio l’argomento dell’emergenza per chiedere più radicale emergenza. La strada è aperta a esiti terribili. La leader del Fronte Nazionale, oggi primo partito in Francia, invoca passioni ancestrali dell’unità del corpo mistico della nazione contro i nemici interni, gli emigrati,i rifugiati: tutti identificati con i terroristi, con i musulmani. La semplificazione è una retorica spietata che taglia corto sui dettagli e le specificazioni. È per questo potente nell’immaginario collettivo, facile da capire e da reiterare fino al parossismo. Dove il Fronte Nazionale ha stravinto è infatti nelle regioni di confine: a Calais ha superato il 50%, approfittando delle pressioni contro le migliaia di rifugiati — la “nuova giungla” — che sperano di salpare per l’Inghilterra.
La democrazia liberale non ha armi potenti contro la paura perché la libera competizione delle idee vuole ed esige la pace civile e la tranquillità. È debole contro la paura radicale perché la sua regola è quella di riuscire a unire le opinioni senza azzerare le differenze, senza mettere tutti i diversi in un fascio. È debole, soprattutto in Europa, dove si è impiantata sulla nazione, su un corpo che può essere rappresentato in chiave identitaria estrema. Giuseppe Mazzini lo comprese molto bene e insistette nel tenere distinta la nazionalità del corpo politico democratico dalla religione nazionalista. Si tratta di una distinzione raffinata tuttavia, agevole da articolare in tempi di tranquilla politica dell’ordinario. La storia del vecchio continente ce lo insegna: la paura ha travolto le giovani e deboli democrazie del primo dopoguerra. Bastò a pochi demagoghi speculare sull’impoverimento delle masse e la paura fece il suo corso: armando prima i nazionalismi guerrafondai poi i fascismi che imposero regimi a partito unico in nome della salvezza della patria. Quel che venne poi lo sappiamo fin troppo bene.
Da quelle ubriacature nel mito della purezza della nazione ne siamo usciti addomesticando la nazione con i diritti individuali, e la democrazia con il pluralismo dei partiti e la limitazione dei poteri. Ma queste regole, questi diritti non sopravvivono in solitudine, senza il sostegno di un’opinione larga e diffusa, senza un senso comune. Questo è essenziale proprio perché le democrazie non possono evitare che si esprimano idee liberamente, non possono chiudere la bocca ai demagoghi. La loro forza è sotterranea e deve saper emarginare questi rischi senza reprimerli. Questo dovrebbe a maggior ragione succedere in tempi ardui, per non lasciare che astuti capipopolo soffino sul fuoco della paura e aggreghino larghe maggioranze. La paura travolse le deboli democrazie del primo dopoguerra e torna ad essere un rischio nell’Europa delle solide democrazie costituzionali. Sottoposte allo stress durissimo della crisi economica e del terrorismo. Una risposta, la più facile e, a quanto pare, ciclica, è il populismo, il regime della maggioranza assoluta, il potere del numero grande non per governare nel rispetto del numero piccolo, ma per sopraffarlo e governare contro di esso. Il maggioritarismo è, come ha spiegato Yves Ménie su questo giornale pochi giorni fa, una pericolosa arma in mano ai populisti. È un esito possibile della democrazia della paura — una traiettoria che per l’Europa potrebbe avere effetti devastanti e che attuerebbe in pieno i progetti antieuropei dei suoi nemici. 

La minoranza punta alla battaglia congressuale
Se il doppio incarico leader-premier è «pilastro» del Pddi Emilia Patta Il Sole 9.12.15
Pier Luigi Bersani e Massimo D’Alema, dopo la fine della breve era veltroniana con le primarie del 2009 vinte da Bersani, lo hanno sempre pensato: le cariche di segretario e premier è meglio che siano divise. Separazione di “carriere” che negli ultimi giorni è tornata di attualità: a chiederlo esplicitamente i leader della minoranza interna Gianni Cuperlo e Roberto Speranza e anche il sindaco di Milano Giuliano Pisapia, che con questa mossa ha fatto pensare alla sua intenzione di proporsi come l’anti-Renzi del Pd al congresso previsto nel 2017. Eppure lo statuto voluto da Walter Veltroni nell’ormai lontano 2007, cioè l’anno di nascita del Pd dopo lo scioglimento dei Ds e della Margherita, si incentra proprio su questo punto, che può essere definito in termini giuridici il pilastro della costituzione materiale: il segretario del Pd è anche il candidato premier naturale e, in caso di primarie di coalizione, l’unico candidato del partito. È la cosiddetta “vocazione maggioritaria” del Pd sempre osteggiata proprio da Bersani e D’Alema, che credevano e credono nella necessità di una coalizione di centrosinistra il più ampia possibile.
Durante la gestione bersaniana del Pd non ci fu il tempo né il clima politico per il pur evocato “ritocco” alle primarie (e quindi allo statuto). E il ciclone Matteo Renzi, dopo la non-vittoria alle politiche del febbraio 2013, ha travolto tutto. Compreso - non a caso - il premier allora in carica Enrico Letta, che appunto leader di partito non era. Così come non lo era Romano Prodi durante il suo primo governo, nato nel ’96: e proprio la rivalità politica con D’Alema, allora capo dei Ds ossia del partito di maggioranza relativa, portò alla fine del Prodi 1 con l’arrivo dello stesso D’Alema a Palazzo Chigi. La contraddizione irrisolta tra leadership e premiership si è riproposta con modalità simili durante il secondo governo Prodi (2006-2008). Il Professore cercò allora di predisporre gli anticorpi: costituì un suo partito (l’Asinello, che poi confluì con i Popolari nella Margherita) e cercò la legittimazione politica diretta attraverso le prime primarie nazionali, naturalmente aperte, per la scelta del candidato premier: il 16 ottobre del 2005 ben 4 milioni e 311mila elettori si recarono ai gazebo per incoronare Prodi con il 74,17% dei sì. Eppure tutto questo non bastò a blindarlo al governo, e furono proprio altre primarie a mettere in scena definitivamente la contraddizione irrisolta: quelle del 14 ottobre del 2007 per la scelta del leader-candidato premier - come previsto appunto dallo statuto del neonato Pd - che incoronarono Veltroni (3 milioni e mezzo di elettori, 75,82% di sì). Iniziò proprio quel giorno la delegittimazione strisciante del premier in carica Prodi, che cadde meno di un anno dopo anche per problemi di coesione della coalizione di governo.
Si capisce dunque l’assoluta intenzione di Renzi di non rimettere in discussione la coincidenza delle due cariche. Anche perché, a parte la Francia che è un caso a sé dal momento che con le presidenziali si elegge il capo dello Stato che in quanto tale rappresenta tutti i francesi, la coincidenza dei due ruoli c’è in tutte le democrazie parlamentari d’Europa: Germania, Inghilterra e Spagna in primis. La minoranza del Pd argomenta la necessità di separare leadership e premiership con il fatto che l’agenda del governo rende impossibile al premier-segretario curare il partito sui territori (e su questo punto Renzi ha in effetti la necessità di intervenire). Ma è chiaro che sarebbe un modo per tornare a controllare la “ditta”. Per questo il tema sarà centrale nella prossima battaglia congressuale.


A Milano Pisapia media Altrove è gelo Sinistra-Pd
Verso un Election day comune delle altre primarie il 6 marzodi Francesca Schianchi La Stampa 10.12.15
Un appello «condivisibile», certo, ma che va rivolto a Sel, secondo il vicesegretario del Pd Lorenzo Guerini. Da Sel, però, è il coordinatore nazionale Nicola Fratoianni a ribattere che «è Renzi che lo deve accogliere». Morale, la lettera-appello di tre sindaci di sinistra – il genovese Marco Doria, il milanese Giuliano Pisapia e il cagliaritano Massimo Zedda –, scritta per invocare «l’unità aperta e larga del centrosinistra» e pubblicata ieri da «Repubblica», in teoria piace ai due attori principali dello schieramento, in pratica non mette in discussione di un millimetro le rispettive posizioni. Altro che «prospettiva del superamento delle attuali divisioni» come obiettivo delle forze di centrosinistra, come scrivono i tre primi cittadini: in vista delle amministrative di primavera, da Torino a Roma a Napoli i percorsi sono ancora lontani.
L’unica città in cui le strade sembrano convergere è Milano: lì, si è deciso per le primarie il 7 febbraio, e saranno larghe, «vere, di coalizione», dice il sindaco Pisapia, grande mediatore tra le diverse anime del centrosinistra meneghino, «si sono ricomposte le divergenze che c’erano state sulla data», ora chi firmerà la Carta dei valori si impegnerà «ad apprezzare il lavoro svolto in questi anni e, ovviamente, a sostenere il vincitore in caso di sconfitta». Un centrosinistra unito per provare a vincere ancora, perché le recenti elezioni francesi sono «un ulteriore campanello d’allarme»: «A Milano e nel Paese, il centrosinistra vince unito», e diviso perde, «come ha dimostrato la Liguria». Lui ancora non fa sapere chi sosterrà, anche se tutti conoscono la sua preferenza per la vicesindaco Francesca Balzani, che dovrebbe annunciare a breve la candidatura. Mentre i vertici del Pd sostengono il manager di Expo, Giuseppe Sala, non amato nelle fila di Sel: se vincesse lui le primarie toccherebbe sostenerlo, «se accettiamo lo schema delle primarie poi è inevitabile starci fino in fondo», concede il capogruppo alla Camera, Arturo Scotto.
Condizioni che non si vedono in altre città: a Torino «non vedo la possibilità di ricucire con Fassino», elenca Scotto; a Napoli «bisogna ripartire da De Magistris», a Roma «la fine di Marino ha scavato un solco che mi sembra difficile recuperare». A dare la misura della distanza ci pensa Fratoianni, che chiede al Pd nientemeno che di rinnegare il Jobs act, la riforma della scuola e della Costituzione e la legge elettorale, praticamente tutta l’azione di governo, «e noi saremmo pronti come in ogni occasione a sederci a un tavolo e a discutere». L’appello «va rivolto in primo luogo a chi, segnatamente Sel, ha deciso di non confermare l’alleanza in alcune città come Torino e Bologna», è la risposta dal Pd di Guerini. Loro, i democratici, fisseranno nel corso di una Direzione da tenersi nella seconda settimana di gennaio la data dell’election day per le primarie: probabilmente sarà il 6 marzo, abbastanza lontano da costruire le candidature, ma un po’ meno del 20 marzo indicato inizialmente da Renzi. Che ieri ha lasciato reagire all’appello all’unità del centrosinistra i vicesegretari, mentre lui tramite la sua newsletter ha rilanciato la Leopolda, «non un’iniziativa targata Pd» in programma questo fine settimana a Firenze, invitando tutti i parlamentari dem, «chi di voi vuole esserci è il benvenuto»: «Dal segretario del Pd non mi aspetterei la promozione di iniziative di corrente», la risposta piccata del senatore della minoranza Miguel Gotor. E dire che Renzi aveva appena chiesto di non perdere tempo a parlare di «primarie e discussioni correntizie».

Verso le amministrative Sulle alleanze è scontro nel centrosinistra
L’appello dei tre sindaci “arancioni” per l’unità Pd-Sel divide il partito: plauso di Cuperlo e Speranza Guerini: è stata Sel a sfilarsi a Torino, Bologna e Roma Le tensioni sulla sfida di Milanodi Emilia Patta Il Sole 10.12.15
Roma «Le notizie che arrivano dalla Francia impongono, a chiunque possa, di fare qualcosa per impedire che la destra, il populismo e la paura vincano. Noi, che governiamo le nostre città con un approccio ideale e non ideologico, pensiamo che in un momento così difficile e complesso sia necessario ritrovare quell’unità aperta e larga del centrosinistra che, sola, può ridare fiducia agli italiani. Per far questo è indispensabile ripartire dalle forze politiche che, insieme al civismo autentico, compongono in gran parte d’Italia il centrosinistra e che, con differenze ma unità di intenti, hanno saputo vincere e governare. Quelle forze sono principalmente il Pd, perno e componente maggioritaria, e Sel. Uno schema diverso rispetto a quello del governo nazionale, dove Sel è all’opposizione. Ma noi auspichiamo e lavoriamo affinché questa fase sia un momento transitorio. A partire dai Comuni». Firmato: Marco Doria, Giuliano Pisapia e Massimo Zedda. L’appello a Matteo Renzi dei sindaci “arancioni” di Genova, Milano e Cagliari - pubblicato su Repubblica - arriva in tempo per le primarie di inizio 2016 che dovranno delineare candidature e alleanze per il voto di giugno nei Comuni. Ed è un appello per una politica delle alleanze classica, ossia l’alleanza di stampo bersaniano incentrata su Pd e Sel, vista come alternativa al presunto “partito della Nazione” rivolto al centro. L’alleanza di governo con l’Ncd di Alfano viene giudicata realisticamente «senza alternative» in questo Parlamento dai tre sindaci, ma le forze centriste vengono bollate senza mezzi termini come «forze che nulla hanno a che vedere col centrosinistra».
Più che un contributo per la buona riuscita del voto nei Comuni, insomma, l’appello dei tre sindaci appare come una prima piattaforma verso il congresso del Pd che si celebrerà a fine 2017 (e c’è già chi ritiene che lo stesso Pisapia possa essere il candidato segretario anti-Renzi, ruolo per il quale sono in campo anche i governatori di Toscana e Lazio Rossi e Zingaretti). Alleanza classica a sinistra contro il Pd a vocazione maggioritaria e conseguente attacco al doppio ruolo di segretario e premier previsto dallo statuto (è stato sempre Pisapia, pochi giorni fa, a riparlare dell’opportunità di separare le cariche così come sostiene la minoranza dem). Non stupisce allora che ad applaudire l’iniziativa siano per primi i leader della minoranza Gianni Cuperlo e Roberto Speranza. Minoranza che nel week end, in contemporanea con la Leopoda renziana, si riunirà in convention a Roma proprio su questi temi. Dal punto di vista di Largo del Nazareno, tuttavia, l’appello dei sindaci è rivolto all’indirizzo sbagliato. «È condivisibile lo spirito col quale Pisapia, Doria e Zedda si rivolgono al campo del centrosinistra in vista delle prossime amministrative - ribatte il numero 2 del Pd Lorenzo Guerini -. Un appello che tuttavia va rivolto in primo luogo ad altri, a chi, segnatamente Sel, ha deciso di non confermare l’alleanza in alcune città che andranno al voto come Torino e Bologna».
In effetti Sel non solo non appoggerà la ricandidatura dei sindaci Piero Fassino e Virginio Merola, ma a Napoli vendoliani ed ex Pd si sono già schierati con il sindaco uscente Luigi De Magistris e a Roma c’è già un candidato prima ancora che si tengano le primarie: Stefano Fassina, ex viceministro del governo Letta («a Roma non ci sono le condizioni per costruire una coalizione», precisa lui). Al momento la coalizione di centrosinistra è confermata solo a Trieste con la ricandidatura di Roberto Cosolino e appunto a Cagliari con Zedda (a Genova non si voterà a giugno). E a Milano, naturalmente. Sempre che le primarie non si trasformino in una faida tra Pisapia-Francesca Balzani e Renzi-Giuseppe Sala, dando a Sel il pretesto di sfilarsi in caso di risultato sgradito.

Un appello che parla a tre sinistre ma sullo sfondo c’è la legge elettorale
di Lina Palmerini Il Sole 10.12.15
L’appello all’unità dei tre sindaci – Pisapia, Zedda e Doria - trova almeno tre sinistre in campo. Tre, al netto del Pd. C’è una parte che è contro la ricostruzione del centro-sinistra perché, come dice Cofferati, ormai è finito, non esiste più e bisogna mettere in campo un partito di sinistra alternativo, una sorta di Podemos o Syriza. Dunque, l’appello si fa cadere nel vuoto perché il tentativo che stanno facendo da Civati a Fassina va nella direzione opposta: creare una sinistra antagonista non solo della destra ma dello stesso partito democratico. C’è poi un’altra sinistra, che è incarnata da Sel, che è contro Renzi e che potrebbe immaginare una alleanza con il Pd ma non finché c’è l’attuale premier da cui sono nate politiche di destra come il Jobs act. C’è infine una terza sinistra che è quella a cui appartengono i tre sindaci - ma anche molti amministratori locali di Sel - che quell’appello lo fa, lo riceve e vorrebbe dargli seguito.
È a queste divisioni che parla l’invito dei sindaci di Milano di Cagliari e di Genova. Non è retorica, insomma. Ma è un coltello nella piaga di troppe ambiguità che rischiano di disperdere quel patrimonio di vittorie elettorali e di esperienze amministrative nate dalla collaborazione con il Pd. E sono talmente forti queste divisioni a sinistra che ieri ci si è perfino attaccati su chi fosse il destinatario di quell’appello. Per alcuni è Renzi che vuole sbaraccare il centro-sinistra e puntare al partito della nazione, per altri è Sel che infatti non partecipa alle primarie di Milano a differenza di Pisapia. La ragione del rifiuto del partito di Vendola e Fratoianni è semplice: se si va ai gazebo poi si deve appoggiare chiunque vinca ed, eventualmente, anche Sala che però è un candidato che risponde a una logica politica opposta a quella che Sel sta perseguendo a Roma. Ecco quindi il cortocircuito che divide le strade anche di chi era vicino come Pisapia e Vendola.
E infatti ieri il sindaco di Milano ha detto solo ciò che era possibile dire, cioè che l’appello ha il pregio di far discutere e che le vicende locali non hanno nulla a che fare con Roma. Ma la difficoltà è invece proprio questa, che le vicende locali in questo momento si sovrappongono con quella nazionale. E succede soprattutto a Sel che nel 2008 è stata scottata dall’essere rimasta fuori dal Parlamento per “colpa” della vocazione maggioritaria del Pd di Veltroni. Oggi, con Renzi, quello scenario torna. E non torna con il rifiuto di fare alleanze – come fece Veltroni con la sinistra – ma con la forza di una legge elettorale che premia la lista, non la coalizione. È dunque una lotta di sopravvivenza quella di Sel e della sinistra, perché l’Italicum mette davanti a un bivio: o si entra nella lista o si supera la soglia del 3%, non c’è una terza via. Ed è chiaro che più Sel entra nell’orbita del centro-sinistra di governo, più il voto utile diventa quello al Pd, più si rischia di non superare la soglia. Questo potrebbe accadere con alleanze strette nelle grandi città e questo è il tormento di tutte le divisioni perché oggi i sondaggi danno Sel tra il 3 e il 4%, un filo da una nuova espulsione dai seggi parlamentari.
Il dilemma è tutto qui. Se porti più voti essere una sinistra di governo o se ne porti di più un profilo nettamente antagonista e di opposizione. Alla fine, si potrebbe perfino pensare che l’obiettivo vero di questo braccio di ferro sulle alleanze sia la legge elettorale più che Renzi o il Jobs act. E che con un ritocco all’Italicum e un premio di coalizione, non di lista, i patti a livello nazionale e locale nascerebbero senza appelli all’unità. 

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