Maurizio Molinari
: Jihad. Guerra all'Occidente, Rizzoli
Risvolto
Da Parigi a Londra, da Madrid a Roma, l'Europa
è sulla linea del fuoco di una grande guerra per il dominio dell'Islam.
Chi guida l'assalto jihadista alle nostre città? Chi si nasconde dietro
gli attentati terroristici? Cosa può fare l'Europa per difendersi?
“Da Raqqa a Parigi, dalla Siria all’Europa:
porteremo la guerra dove vive il nemico.”
Con queste parole al-Baghdadi ha annunciato
di voler andare “all’attacco dei crociati”
per non “farli più vivere in pace”. È la minaccia
che ha generato le stragi di Parigi dimostrando
che l’Europa è diventata un fronte
della guerra combattuta in Siria e Iraq contro
i gruppi jihadisti. Ma non è l'unico. Maurizio
Molinari, giornalista esperto di questioni mediorientali,
disegna per la prima volta una
mappa dettagliata del fenomeno jihad. Nei
novemila chilometri che separano Tangeri da
Peshawar è presente una galassia di gruppi,
organizzazioni, cellule e tribù rivali fra loro,
ma accomunate dal predicare la jihad come
forma di dominio sul prossimo. “Il detonatore
è il disegno apocalittico del Califfo Abu
Bakr al-Baghdadi” scrive Molinari “attorno
a cui ruotano le sfide fra due rivoluzioni islamiche,
cinque potenze regionali di Medio
Oriente e Nordafrica, dozzine di grandi clan
tribali e una miriade di gruppi armati e sigle
terroristiche che si snodano dalle coste del
Marocco alle montagne dell’Afghanistan.”
Il risultato è un conflitto di civiltà tutto interno
al mondo musulmano e che ha identificato
nell’Europa un proprio campo di battaglia.
I gruppi jihadisti e salafiti hanno già colpito
nelle nostre città e pianificano di trasformare
le nostre strade in mattatoi di apostati e
infedeli, non solo per sottometterci ma soprattutto
per imporsi sui loro rivali interni in
una lunga guerra destinata a ridisegnare le
nostre vite.
Jihad, la guerra santa tra i diversi Islam
Dal nuovo libro di Maurizio Molinari: l’offensiva è in primo luogo un conflitto interno del mondo musulmano tra sunniti e sciiti e tra le opposte anime sunnite
Maurizio Molinari Stampa 1 12 2015
C’è un legame diretto fra quanto sta avvenendo sul lato Sud del Mediterraneo e i pericoli per la nostra sicurezza collettiva. Il detonatore è il disegno apocalittico di Abu Bakr al-Baghdadi, attorno al quale ruotano le sfide fra due rivoluzioni islamiche, cinque potenze regionali di Medio Oriente e Nordafrica, dozzine di grandi clan tribali e una miriade di gruppi armati e sigle terroristiche in gara fra loro per ottenere il controllo di spazi strategici, risorse energetiche, vie di comunicazione, luoghi di culto e grandi città lungo un fronte di combattimento disseminato di micro-conflitti che si snoda senza interruzione dalle montagne dell’Afghanistan alle coste del Marocco, passando attraverso lo Stretto di Hormuz, il Corno d’Africa e il Sahel. È una guerra che divora gli Stati post-coloniali del Novecento: Siria, Iraq, Libia e Yemen hanno cessato di esistere perché non hanno più governi, parlamenti, amministrazioni pubbliche e confini condivisi; Libano, Giordania, Tunisia e Bahrein temono di subire la stessa sorte; i giganti regionali Turchia, Arabia Saudita, Egitto e Iran hanno l’incubo di frammentazioni mortali. [...]
Frammentazione tribale
Il conflitto fra sunniti e sciiti, incentrato sui territori appartenuti a Siria e Iraq, è l’asse portante di questa guerra, la proclamazione del Califfato ne è stata la miccia e il brutale terrorismo che ha generato attraversa il Mediterraneo, creando una situazione di instabilità endemica che spinge le potenze regionali rivali di Arabia Saudita, Iran, Turchia, Egitto, Emirati Arabi Uniti a voler imporre i propri interessi con ogni possibile mezzo, forza militare inclusa. I contendenti sono monarchi, sceicchi, generali, capi tribù, leader religiosi e spietati terroristi: nessuno di loro possiede una inequivocabile definizione di vittoria né appare al momento in grado di imporsi sugli altri. E nessuno di loro può sentirsi del tutto al sicuro.
Il domino della frammentazione etnico-tribale è in fase di accelerazione, l’era della jihad si impone sulle macerie del nazionalismo arabo protagonista del secolo scorso fino al punto di minacciare l’unità di un Paese come la Turchia, pilastro dell’Alleanza atlantica. È uno scenario di precarietà tale da spingere tutti i leader, che guidino Stati o villaggi, a inseguire obiettivi tattici di breve termine, al fine di rafforzarsi a scapito di qualcun altro, nell’immediato e su terreni di scontro delimitati. È un modo di combattere che ripropone le faide tribali del deserto: scontri interminabili, alternati a tregue temporanee, con il tempo scandito da vendette e saccheggi al fine di sottomettere il nemico più vicino, alleandosi magari con i suoi avversari in una continua ridefinizione degli equilibri di forza a scapito delle popolazioni civili, vittime di violenze e povertà, obbligate a migrazioni massicce e disperate.
La stagione dell’anarchia
È una stagione dell’anarchia segnata dall’impossibilità di un singolo contendente - o di una coalizione di forze - di prevalere in maniera decisiva sui rivali. A evidenziarlo sono le caratteristiche militari del conflitto: si combatte su più campi di battaglia, con patti che vengono siglati e violati nello spazio di un mattino, condottieri che si alternano, nemici che si trasformano in alleati e viceversa, il tutto sullo sfondo di odii atavici che si rinnovano. L’unico elemento comune è il richiamo alla jihad, la «guerra santa» dell’Islam come fonte di legittimazione di forze contrapposte, in lotta fra loro. A riemergere è l’identità tribale di una regione dove le potenze coloniali europee, dopo la Prima guerra mondiale, imposero la nascita di Stati arabi con confini artificiali che, un secolo dopo, appaiono fragili come un castello di carte.
Nell’area fra Aleppo, Damasco, Hama e Homs, dove fino al 2011 si trovava il cuore della Repubblica di Siria, il conflitto è più aspro perché la posta in palio è strategica. L’Iran di Ali Khamenei, guida suprema della Repubblica Islamica, vuole mantenere in sella il regime alleato di Bashar Assad per consolidare il controllo di uno spazio geografico ininterrotto, da Baghdad a Beirut, che vede al governo leader alleati o assoggettati, e permette a Teheran di guidare una «mezzaluna sciita» di territori che dal Mare Arabico raggiunge il Mediterraneo mettendo una seria ipoteca sull’egemonia regionale. Tanto più che è l’unica nazione musulmana dell’area a poter vantare un programma nucleare legittimato dalla comunità internazionale.
Proprio per questo il fronte sunnita è accomunato dalla volontà di abbattere Assad: vuole infrangere il progetto di Teheran, creare un cuneo fra la Mesopotamia e la costa libanese, e procedere all’eliminazione degli alleati dell’Iran. In attesa dell’esito della battaglia di Damasco, eserciti, milizie e tribù combattono su ogni fronte: dall’Iraq allo Yemen, dal Sinai alla Tunisia, dallo Stretto di Hormuz a Suez, dal Sahara alle spiagge del Mediterraneo.
Avversari delegittimati
Non sempre si tratta di sunniti contro sciiti, perché c’è anche un conflitto interno fra sunniti: con gruppi rivoluzionari, soprattutto di matrice islamica, che vogliono abbattere i governi esistenti o impossessarsi di territori da dove esercitare nuove forme di potere e gestire traffici illeciti. Nato come scontro terrestre, questo conflitto multiforme si sta estendendo sul mare perché soldati e terroristi vedono nelle rotte sottocosta, in Libia come nel Sinai, nel Golfo come nel Mar Rosso, uno spazio di operazioni utile a moltiplicare azioni e profitti. Ponendo una minaccia diretta all’intera regione del Mar Mediterraneo. Ovvero anche alle coste dell’Italia.
Origini, campi di battaglia, comandanti militari e leader rivali di questo conflitto ripropongono una riedizione contemporanea della contesa fra sciiti e sunniti per la guida dell’Islam che inizia all’indomani della scomparsa di Maometto nell’anno 632 e si sviluppa oggi in uno scontro fra opposti modelli di islamizzazione.
È un conflitto di civiltà che si consuma all’interno del mondo musulmano e vede i maggiori contendenti puntare a unificare l’Islam sotto la propria egemonia, adoperando nei confronti del proprio nemico il termine takfiri - apostata - al fine di privarlo di legittimità, emarginarlo, sconfiggerlo e in ultima analisi eliminarlo. Avere tale grande guerra sull’uscio di casa significa per l’Europa doverla affrontare, perché il massacro di Parigi dimostra che può essere invasa e diventare il teatro di combattimento.
Che cosa vuole davvero il Califfato? Conquistare il potere sulle anime Maurizio Molinari analizza la minaccia del fondamentalismo islamico (Rizzoli)10 mar 2016 Corriere della Sera
Al-Baghdadi non si cura troppo di fedelissimi eliminati e
di villaggi
perduti, ciò che conta per lui è restare protagonista di una guerra
permanente. Riuscire a portarla in Europa, in Russia o negli Stati Uniti
significa dimostrare ai propri seguaci di essere il vero Califfo:
inarrestabile e feroce».
Maurizio Molinari parte da queste premesse per spiegare perché non
solo non stiamo vincendo, ma non riusciamo a combattere davvero e forse
neppure a pensare la guerra contro l’Isis. Il suo ultimo libro Jihad.
Guerra all’Occidente (Rizzoli) dà una visione d’insieme che parte dal
Medio Oriente, cuore del conflitto, e man mano si allarga al teatro
complessivo dello scontro, le potenze regionali del Golfo, l’Europa,
l’Asia centrale, la mezzaluna islamica da Timor Est al Marocco, e infine
il grande nemico, incubo e sogno di ogni estremista islamico:
l’America, dove forse soltanto un nuovo grande attentato potrebbe
volgere la partita delle presidenziali del novembre 2016 a favore di
Donald Trump contro la vincitrice annunciata — ma debole — Hillary
Clinton.
Quella che stiamo fronteggiando, e che Molinari racconta nel suo
saggio, non è una guerra tradizionale; è un’epoca. È anche l’epoca della
proliferazione nucleare, delle bombe «sporche». E gli integralisti
islamici hanno già dimostrato di essere disposti a sacrificare la vita,
pur di spegnerne molte altre insieme con la loro. Si aprono scenari di
fronte a cui è inutile tapparsi occhi e orecchie; bisogna invece
studiare, prepararsi, informarsi. Perché la storia ci riguarda. Come
scrive Molinari, il primo e più facile obiettivo dell’Isis è l’Europa: i
Balcani «terre musulmane» nel linguaggio del Califfo, l’Andalusia «da
liberare» perché apparteneva al Saladino, Roma «capitale della cristianità» e la Francia «delle prostitute e delle oscenità», colpita non a caso il 13 novembre 2015.
La scena si apre sul territorio dello Stato Islamico, dalla periferia di
Aleppo, martellata per settimane dall’aviazione russa, a quella di
Ramadi. Si estende al Kurdistan, nella versione irachena con capitale
Erbil e in quella siriana nell’enclave del Rojava; alla striscia di Gaza
in mano ad Hamas, con Hezbollah padrone del Libano meridionale e della
valle della Bekaa, a chiudere Israele — l’unica democrazia della regione
— in una morsa estremista sciita; e poi la mappa delle milizie e dei
gruppi etnici quasi sconosciuti nell’Occidente che minacciano, Fajr
Libia in Tripolitania, la tribù degli houthi nel Nord dello Yemen,
mentre a Sud Mukallah è in mano ad al-Qaida, «senza contare le aree di
territorio controllate da Isis nel Sinai, dagli al-Shabab in Somalia, da
tuareg e tebu nel Fezzan e da Boko Haram in Nigeria, sulle rive del
lago Ciad».
È il nuovo «grande gioco» della diplomazia e della politica
contemporanee, che l’autore conosce bene sia per gli anni trascorsi come
corrispondente da Bruxelles e da Washington, sia per l’esperienza sul
campo in Medio Oriente. La differenza rispetto all’Ottocento e al
Novecento è che oggi non c’è un impero anglosassone — prima quello
inglese, poi quello americano — capace di tenere sotto controllo il
Great Game. E Manca un progetto politico per restaurare l’ordine nelle
regioni sconvolte dalla guerra così le potenze regionali — Egitto, Turchia, Arabia Saudita,
Emirati Arabi Uniti, Iran — perseguono ognuna il proprio obiettivo,
incapaci di elaborare una strategia comune per fermare la guerra civile
islamica, in cui gli estremisti tentano di trascinare l’Occidente,
colpendolo per ragioni insieme di strategia e di propaganda. Il Califfo e quelli che ragionano come lui vogliono il potere sulle
anime del loro campo; e per prenderlo non esitano a spargere sangue
innocente (ma non ai loro occhi) nelle città europee.
Molinari traccia anche i ritratti dei protagonisti, spesso poco
conosciuti. Al-Baghdadi e la sua strategia dei bayat, il giuramento di
fedeltà tribale imposto a miriadi di fazioni in angoli della terra che
non abbiamo mai sentito nominare, Africa compresa. Il generale iraniano
Qassem Soleimani, braccio armato del leader supremo Ali Khamenei,
convinto assertore della necessità di «annichilire», «dissolvere» e
«rimuovere» Israele. Salman, il re guerriero dell’Arabia Saudita, e il
suo uomo Bin Nayef, il «controrivoluzionario» sunnita, che ha eradicato
al-Qaida dalla sua terra d’origine. Ahmed El-Tayyeb, il grande imam
della moschea di al- Azhar. L’emiro del Qatar Tamim alThani, «la sfinge
del Golfo», che consente i finanziamenti privati per Isis e invia gli
aerei per combatterlo. L’emiro dell’Oman Qaboos bin Said alSaid, il
negoziatore segreto… Alla fine della lettura avvincente del libro, se ne
esce con una convinzione: di questa guerra forse non vedremo la fine;
l’Isis non si ferma soltanto con le bombe occidentali, un intervento
armato della comunità internazionale, meglio se con truppe arabe, non è
rinviabile; se anche si riuscirà a uccidere al-Baghdadi come si è fatto
con Bin Laden, non è affatto escluso che nasca un mostro ancora
peggiore, così come oggi lo Stato Islamico è più potente di al-Qaida. Ci
possono salvare solo la cultura, la democrazia, la consapevolezza, la
coesione: i valori di cui Molinari parlava nel suo libro del 2013
L’aquila e la farfalla. Perché il XXI secolo sarà ancora americano.
Valori che non dobbiamo considerare acquisiti per sempre, e vanno difesi
a maggior ragione nella difficile epoca che abbiamo davanti.
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