L’America e i musulmani L’incubo di scoprirsi vulnerabili
di Massimo Gaggi Corriere 4.12.15
NEW YORK Nella notte le reti televisive inseguono, angosciate, la caccia agli assassini di San Bernardino. I commentatori conservatori della Fox propendono per il terrorismo e gli esperti da loro intervistati accusano Barack Obama: basta fingere di non vedere, ignorare il problema per paura di irritare i musulmani, paghiamo le sue incertezze nella lotta contro l’Islam radicale. Sugli altri «network» i giudizi sono più cauti: forse la follia omicida di Syed Farouk nasce da conflitti di lavoro, non da motivazioni politiche o religiose. Man mano che arrivano le notizie sulle armi da guerra e gli ordigni esplosivi accumulate dagli attentatori, un vero arsenale per compiere più di una strage, la pista di una violenza legata a dispute in ufficio perde quota. Davanti all’America si aprono le porte dell’inferno: l’infiltrazione di un terrorismo islamico radicale dal quale il Paese sembrava immune grazie alla natura, apparsa fin qui pacifica e pragmatica, delle comunità musulmane degli Stati Uniti. Cittadini molto più integrati nella società rispetto agli islamici che vivono in Europa, che spesso arrivano a ostentare un patriottismo «yankee». Fin dalla strage di Charlie Hebdo , 11 mesi fa, Obama aveva sottolineato le differenze: «Da noi i musulmani hanno combattuto anche durante la Guerra civile» di metà Ottocento dalla quale è nato l’attuale assetto degli Stati Uniti. Comunità islamiche laboriose e pacifiche sparse in tutto il Paese: «La prima moschea, nel 1929, è sorta in North Dakota». Nonostante i timori legati al terrorismo, i musulmani d’America (2,6 milioni secondo il censimento del 2010 ma il dato è quasi certamente sottostimato: probabilmente negli Usa vivono da 3 a 6 milioni di persone di fede islamica, pari all’1-2 per cento della popolazione), fino a qualche giorno fa non erano visti come un vero pericolo. Le preoccupazioni erano soprattutto di convivenza sociale, di conflitti culturali. Come a Hamtramck, in Michigan, prima cittadina nella quale l’immigrazione da Yemen, Bangladesh e Bosnia ha reso i musulmani maggioranza in appena 10 anni: quattro moschee in centro e divieto di vendita di alcolici nelle strade vicine ai luoghi di culto, con conseguente crollo del turismo e proteste.
Da ieri i problemi sono ben altri. «Forse le cause della strage vanno trovate in conflitti sul posto di lavoro, forse è terrorismo o forse una combinazione delle due cose» ha detto cupo e a voce bassa Obama, ricalcando i giudizi appena formulati dal Fbi e ammettendo che le motivazioni degli attentatori sono ancora sconosciute. È quella «combinazione delle due cose» che spaventa di più l’America: significa che tra l’area chiara di una convivenza magari problematica ma comunque pacifica con una comunità musulmana moderna, aperta ai valori occidentali, e quella nera della minaccia di un’esplosione di terrorismo jihadista esportato dall’Isis anche al di là dell’Atlantico, si sta ora sviluppando una temibile area grigia: musulmani inquieti o scontenti come i fratelli Tsarnaev, quelli delle bombe della maratona di Boston, o i coniugi Farouk, che solo apparentemente continuano a vivere da cittadini assimilati, immersi serenamente nel «sogno americano», mentre in realtà covano odio e propositi omicidi, senza far trapelare alcun indizio delle loro reali intenzioni.
In un documentario i tormenti della Cia
di Massimo Gaggi Corriere 4.12.15
U n uomo anziano dai tratti latini entra in una chiesa deserta. Si inginocchia con un rosario tra le mani. Ha l’aria sofferta. Sta prendendo decisioni difficili, avverte una voce fuori campo. Sembra una scena del «Padrino» ma non lo è. L’uomo inquadrato dalla telecamera è Leon Panetta, l’italoamericano che è stato capo di gabinetto di Bill Clinton alla Casa Bianca, capo del Pentagono con Obama e anche capo della Cia. Ed è per quest’ultimo ruolo che gli autori di «The Spymaster», un eccezionale documentario sulle decisioni di vita e di morte e i dubbi morali dei capi dell’ intelligence appena trasmesso negli Usa dalla rete Showtime, hanno scelto lui per le scene iniziali: Panetta confessa i suoi tormenti, soprattutto quelli del 2009 quando venne individuata la mente di un attacco di terroristi suicidi in una base dell’Afghanistan che costò la vita a sette agenti della Cia, l’episodio narrato nel film di Kathryn Bigelow «Zero Dark Thirty». Il terrorista è in un compound in Pakistan, ma con lui ci sono anche moglie e figlio. Il politico democratico riflette, temporeggia, ma alla fine autorizza la distruzione del compound coi missili lanciati da un drone: «Questa è una guerra, eliminarlo era un’assoluta priorità: ho deciso secondo coscienza».
Dubbi che hanno scosso anche altri capi dell’ intelligence chiamati a decidere uccisioni o l’uso di metodi violenti, ai limiti della tortura, negli interrogatori di terroristi catturati. Un affresco drammatico, agghiacciante e umano al tempo stesso, quello che viene fuori dal lungometraggio nel quale Gideon e Jules Naudet sono riusciti a intervistare tutti i 12 capi della Central Intelligence Agency ancora in vita, compresi l’ex presidente George Bush (padre) e George Tennet, al vertice dal 1997 al 2004, che non aveva mai parlato. Tennet ammette gli errori di analisi sulle armi proibite di Saddam Hussein (informazioni errate alla base dell’invasione dell’ Iraq) mentre per gli attacchi dell’11 settembre 2001 se la prende con le distrazioni della Casa Bianca. Uomini tormentati, ma anche divisi tra loro. Nel documentario sono divisi in due fazioni: quelli che come il direttore attuale, John Brennan, considerano la tortura una pagina nera e preferiscono colpire coi droni. Mentre altri come Michael Hayden e lo stesso Tennet negano il ricorso a vere torture, sostengono che le confessioni così ottenute hanno evitato molte stragi, mentre i terroristi uccisi coi droni non possono più parlare e fornire informazioni utili all’ intelligence .
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