Intervista «Islam apocalittico, è il peggio di Europa e Medio Oriente»
Lo storico Berman: «La povertà non può spiegare tanta ferocia»
Corriere 4,12,15
La strage di San Bernardino è terrorismo islamico?
«Sembra chiaramente terrorismo islamico».
Crede che il modo in cui i media raccontano eventi come questo cambi a
seconda della religione e dell’etnia delle persone coinvolte?
«I nostri media liberal, di sinistra, tendono a presentare i casi di
terrorismo islamico negli Stati Uniti come se fossero tutt’altro. È
“rabbia legata al posto di lavoro”, è un caso di follia, e così via. Ma
alla fine i fatti vengono a galla».
Lo storico liberal americano Paul Berman — autore di Idealisti e potere
(Baldini Castoldi Dalai), Terrore e Liberalismo e Sessantotto (Einaudi) —
parla al Corriere subito dopo la strage in California. Berman ha
criticato in passato alcune posizioni della sinistra sull’Islam radicale
giudicandole troppo concilianti. Ma al contempo è severo con i
repubblicani che capitalizzano sull’odio per i musulmani.
Che effetto avrà questo attacco sulla coesistenza tra i musulmani e il resto della società americana?
«Questo episodio esige una leadership lucida e coraggiosa da parte dei
politici americani e anche dei vertici della comunità musulmana
americana. È necessaria una risposta che riconosca il reale pericolo
costituito dal movimento islamista e, allo stesso tempo, insegni al
pubblico a distinguere tra musulmani estremisti e musulmani contrari
all’estremismo. In teoria dovrebbe essere facile. Ma in pratica possiamo
aspettarci da una parte appelli demagogici all’intolleranza e
dall’altra il diniego della realtà di chi non vuol vedere ciò che sta
succedendo. La situazione è pessima — per i musulmani americani e per
tutti».
Dopo gli attacchi di Parigi, scriveva su «Le Monde» che le scienze
sociali non sono in grado di spiegare le cause profonde di questa
violenza. Chi può darci le risposte?
«Dobbiamo usare le scienze sociali, ma non illuderci che povertà,
ineguaglianza, desertificazione, esclusione sociale — le numerose “cause
profonde” invocate dalle scienze sociali — possano spiegare i movimenti
terroristici. Non spiegheranno mai perché qualcuno voglia farsi filmare
mentre decapita persone la cui religione gli è sgradita. Alla gente
piace pensare che le scienze sociali sappiano scrutare nel cuore umano.
Dobbiamo invece indagare le ideologie stesse del terrorismo e dell’odio.
E proporre delle alternative: è un dovere intellettuale. Certo, è anche
un dovere di polizia e a volte un dovere militare».
Lei ha detto che il terrorismo islamico ha le stesse radici del
nazi-fascismo e dello stalinismo. Questa eredità è alla radice della
violenza?
«Il movimento islamista è un ibrido, ideologicamente parlando. Unisce
ispirazioni totalitarie provenienti dall’Europa e una certa
interpretazione dell’Islam. Lo Stato Islamico affianca una “lettura”
apocalittica dell’Islam con una burocrazia da stato di polizia che ha
poco a che fare con le tradizioni ottomane del lontano passato ma deve
molto al partito Baath, basato sul modello sovietico. Il concetto
islamista della cospirazione demoniaca degli ebrei invece è un’eredità
nazista. Insomma, è un’unione infernale tra il peggio dell’Europa e del
Medio Oriente».
È possibile una campagna di «disintossicazione ideologica», come lei ha
auspicato in passato? Oppure le parole a un certo punto sono inutili?
«L’islamismo nelle sue varie componenti radicali si configura come un
movimento totalitario di massa — o forse come due o tre movimenti. Le
persone che ne fanno parte devono essere convinte a cambiare idea. Ed è
possibile. I movimenti totalitari di massa del passato hanno cambiato
rotta. Abbiamo un disperato bisogno di incoraggiare il dialogo. Ma è pur
vero che quando qualcuno tira fuori un Ak-47 e comincia a sparare, il
momento per una conversazione fruttuosa forse è passato».
Quali responsabilità ha l’Occidente ?
«L’Occidente e specialmente gli Stati Uniti hanno commesso ogni
possibile errore, ma poiché gli errori vanno in ogni direzione non è
semplice trarne degli insegnamenti. L’intervento in Iraq si è dimostrato
disastroso, tranne che in Kurdistan. La decisione di non intervenire in
Siria è stata un disastro persino peggiore. Allo stesso tempo, la
responsabilità per gli orrori in Iraq e Siria ricade sul partito Baath e
sugli islamisti violenti: movimenti che competono per il diritto alla
tirannia e al massacro».
La Francia oggi sembra più «morbida» su Assad. La priorità è distruggere l’Isis .
«Assad non intende eliminare lo Stato Islamico, per lo meno nel breve
periodo. Compra il petrolio da loro, vuole annientare l’opposizione più
moderata in modo da far credere al mondo che solo lui può combattere lo
Stato Islamico. Putin fece lo stesso in Cecenia. Sarebbe un errore
cascarci».
L’America può affidarsi agli alleati regionali?
«Temo che non succederà molto finché l’America non mostrerà leadership. O
piuttosto, sarà Putin a fare il leader. Ma Putin non ha un singolo
pensiero umanitario in testa ».
L’America e i musulmani L’incubo di scoprirsi vulnerabili
di Massimo Gaggi Corriere 4.12.15
NEW YORK Nella notte le reti televisive inseguono, angosciate, la caccia agli assassini di San Bernardino. I commentatori conservatori della Fox propendono per il terrorismo e gli esperti da loro intervistati accusano Barack Obama: basta fingere di non vedere, ignorare il problema per paura di irritare i musulmani, paghiamo le sue incertezze nella lotta contro l’Islam radicale. Sugli altri «network» i giudizi sono più cauti: forse la follia omicida di Syed Farouk nasce da conflitti di lavoro, non da motivazioni politiche o religiose. Man mano che arrivano le notizie sulle armi da guerra e gli ordigni esplosivi accumulate dagli attentatori, un vero arsenale per compiere più di una strage, la pista di una violenza legata a dispute in ufficio perde quota. Davanti all’America si aprono le porte dell’inferno: l’infiltrazione di un terrorismo islamico radicale dal quale il Paese sembrava immune grazie alla natura, apparsa fin qui pacifica e pragmatica, delle comunità musulmane degli Stati Uniti. Cittadini molto più integrati nella società rispetto agli islamici che vivono in Europa, che spesso arrivano a ostentare un patriottismo «yankee». Fin dalla strage di Charlie Hebdo , 11 mesi fa, Obama aveva sottolineato le differenze: «Da noi i musulmani hanno combattuto anche durante la Guerra civile» di metà Ottocento dalla quale è nato l’attuale assetto degli Stati Uniti. Comunità islamiche laboriose e pacifiche sparse in tutto il Paese: «La prima moschea, nel 1929, è sorta in North Dakota». Nonostante i timori legati al terrorismo, i musulmani d’America (2,6 milioni secondo il censimento del 2010 ma il dato è quasi certamente sottostimato: probabilmente negli Usa vivono da 3 a 6 milioni di persone di fede islamica, pari all’1-2 per cento della popolazione), fino a qualche giorno fa non erano visti come un vero pericolo. Le preoccupazioni erano soprattutto di convivenza sociale, di conflitti culturali. Come a Hamtramck, in Michigan, prima cittadina nella quale l’immigrazione da Yemen, Bangladesh e Bosnia ha reso i musulmani maggioranza in appena 10 anni: quattro moschee in centro e divieto di vendita di alcolici nelle strade vicine ai luoghi di culto, con conseguente crollo del turismo e proteste.
Da ieri i problemi sono ben altri. «Forse le cause della strage vanno trovate in conflitti sul posto di lavoro, forse è terrorismo o forse una combinazione delle due cose» ha detto cupo e a voce bassa Obama, ricalcando i giudizi appena formulati dal Fbi e ammettendo che le motivazioni degli attentatori sono ancora sconosciute. È quella «combinazione delle due cose» che spaventa di più l’America: significa che tra l’area chiara di una convivenza magari problematica ma comunque pacifica con una comunità musulmana moderna, aperta ai valori occidentali, e quella nera della minaccia di un’esplosione di terrorismo jihadista esportato dall’Isis anche al di là dell’Atlantico, si sta ora sviluppando una temibile area grigia: musulmani inquieti o scontenti come i fratelli Tsarnaev, quelli delle bombe della maratona di Boston, o i coniugi Farouk, che solo apparentemente continuano a vivere da cittadini assimilati, immersi serenamente nel «sogno americano», mentre in realtà covano odio e propositi omicidi, senza far trapelare alcun indizio delle loro reali intenzioni.
In un documentario i tormenti della Cia
di Massimo Gaggi Corriere 4.12.15
U n uomo anziano dai tratti latini entra in una chiesa deserta. Si inginocchia con un rosario tra le mani. Ha l’aria sofferta. Sta prendendo decisioni difficili, avverte una voce fuori campo. Sembra una scena del «Padrino» ma non lo è. L’uomo inquadrato dalla telecamera è Leon Panetta, l’italoamericano che è stato capo di gabinetto di Bill Clinton alla Casa Bianca, capo del Pentagono con Obama e anche capo della Cia. Ed è per quest’ultimo ruolo che gli autori di «The Spymaster», un eccezionale documentario sulle decisioni di vita e di morte e i dubbi morali dei capi dell’ intelligence appena trasmesso negli Usa dalla rete Showtime, hanno scelto lui per le scene iniziali: Panetta confessa i suoi tormenti, soprattutto quelli del 2009 quando venne individuata la mente di un attacco di terroristi suicidi in una base dell’Afghanistan che costò la vita a sette agenti della Cia, l’episodio narrato nel film di Kathryn Bigelow «Zero Dark Thirty». Il terrorista è in un compound in Pakistan, ma con lui ci sono anche moglie e figlio. Il politico democratico riflette, temporeggia, ma alla fine autorizza la distruzione del compound coi missili lanciati da un drone: «Questa è una guerra, eliminarlo era un’assoluta priorità: ho deciso secondo coscienza».
Dubbi che hanno scosso anche altri capi dell’ intelligence chiamati a decidere uccisioni o l’uso di metodi violenti, ai limiti della tortura, negli interrogatori di terroristi catturati. Un affresco drammatico, agghiacciante e umano al tempo stesso, quello che viene fuori dal lungometraggio nel quale Gideon e Jules Naudet sono riusciti a intervistare tutti i 12 capi della Central Intelligence Agency ancora in vita, compresi l’ex presidente George Bush (padre) e George Tennet, al vertice dal 1997 al 2004, che non aveva mai parlato. Tennet ammette gli errori di analisi sulle armi proibite di Saddam Hussein (informazioni errate alla base dell’invasione dell’ Iraq) mentre per gli attacchi dell’11 settembre 2001 se la prende con le distrazioni della Casa Bianca. Uomini tormentati, ma anche divisi tra loro. Nel documentario sono divisi in due fazioni: quelli che come il direttore attuale, John Brennan, considerano la tortura una pagina nera e preferiscono colpire coi droni. Mentre altri come Michael Hayden e lo stesso Tennet negano il ricorso a vere torture, sostengono che le confessioni così ottenute hanno evitato molte stragi, mentre i terroristi uccisi coi droni non possono più parlare e fornire informazioni utili all’ intelligence .
L’America e i musulmani L’incubo di scoprirsi vulnerabili
di Massimo Gaggi Corriere 4.12.15
NEW YORK Nella notte le reti televisive inseguono, angosciate, la caccia agli assassini di San Bernardino. I commentatori conservatori della Fox propendono per il terrorismo e gli esperti da loro intervistati accusano Barack Obama: basta fingere di non vedere, ignorare il problema per paura di irritare i musulmani, paghiamo le sue incertezze nella lotta contro l’Islam radicale. Sugli altri «network» i giudizi sono più cauti: forse la follia omicida di Syed Farouk nasce da conflitti di lavoro, non da motivazioni politiche o religiose. Man mano che arrivano le notizie sulle armi da guerra e gli ordigni esplosivi accumulate dagli attentatori, un vero arsenale per compiere più di una strage, la pista di una violenza legata a dispute in ufficio perde quota. Davanti all’America si aprono le porte dell’inferno: l’infiltrazione di un terrorismo islamico radicale dal quale il Paese sembrava immune grazie alla natura, apparsa fin qui pacifica e pragmatica, delle comunità musulmane degli Stati Uniti. Cittadini molto più integrati nella società rispetto agli islamici che vivono in Europa, che spesso arrivano a ostentare un patriottismo «yankee». Fin dalla strage di Charlie Hebdo , 11 mesi fa, Obama aveva sottolineato le differenze: «Da noi i musulmani hanno combattuto anche durante la Guerra civile» di metà Ottocento dalla quale è nato l’attuale assetto degli Stati Uniti. Comunità islamiche laboriose e pacifiche sparse in tutto il Paese: «La prima moschea, nel 1929, è sorta in North Dakota». Nonostante i timori legati al terrorismo, i musulmani d’America (2,6 milioni secondo il censimento del 2010 ma il dato è quasi certamente sottostimato: probabilmente negli Usa vivono da 3 a 6 milioni di persone di fede islamica, pari all’1-2 per cento della popolazione), fino a qualche giorno fa non erano visti come un vero pericolo. Le preoccupazioni erano soprattutto di convivenza sociale, di conflitti culturali. Come a Hamtramck, in Michigan, prima cittadina nella quale l’immigrazione da Yemen, Bangladesh e Bosnia ha reso i musulmani maggioranza in appena 10 anni: quattro moschee in centro e divieto di vendita di alcolici nelle strade vicine ai luoghi di culto, con conseguente crollo del turismo e proteste.
Da ieri i problemi sono ben altri. «Forse le cause della strage vanno trovate in conflitti sul posto di lavoro, forse è terrorismo o forse una combinazione delle due cose» ha detto cupo e a voce bassa Obama, ricalcando i giudizi appena formulati dal Fbi e ammettendo che le motivazioni degli attentatori sono ancora sconosciute. È quella «combinazione delle due cose» che spaventa di più l’America: significa che tra l’area chiara di una convivenza magari problematica ma comunque pacifica con una comunità musulmana moderna, aperta ai valori occidentali, e quella nera della minaccia di un’esplosione di terrorismo jihadista esportato dall’Isis anche al di là dell’Atlantico, si sta ora sviluppando una temibile area grigia: musulmani inquieti o scontenti come i fratelli Tsarnaev, quelli delle bombe della maratona di Boston, o i coniugi Farouk, che solo apparentemente continuano a vivere da cittadini assimilati, immersi serenamente nel «sogno americano», mentre in realtà covano odio e propositi omicidi, senza far trapelare alcun indizio delle loro reali intenzioni.
In un documentario i tormenti della Cia
di Massimo Gaggi Corriere 4.12.15
U n uomo anziano dai tratti latini entra in una chiesa deserta. Si inginocchia con un rosario tra le mani. Ha l’aria sofferta. Sta prendendo decisioni difficili, avverte una voce fuori campo. Sembra una scena del «Padrino» ma non lo è. L’uomo inquadrato dalla telecamera è Leon Panetta, l’italoamericano che è stato capo di gabinetto di Bill Clinton alla Casa Bianca, capo del Pentagono con Obama e anche capo della Cia. Ed è per quest’ultimo ruolo che gli autori di «The Spymaster», un eccezionale documentario sulle decisioni di vita e di morte e i dubbi morali dei capi dell’ intelligence appena trasmesso negli Usa dalla rete Showtime, hanno scelto lui per le scene iniziali: Panetta confessa i suoi tormenti, soprattutto quelli del 2009 quando venne individuata la mente di un attacco di terroristi suicidi in una base dell’Afghanistan che costò la vita a sette agenti della Cia, l’episodio narrato nel film di Kathryn Bigelow «Zero Dark Thirty». Il terrorista è in un compound in Pakistan, ma con lui ci sono anche moglie e figlio. Il politico democratico riflette, temporeggia, ma alla fine autorizza la distruzione del compound coi missili lanciati da un drone: «Questa è una guerra, eliminarlo era un’assoluta priorità: ho deciso secondo coscienza».
Dubbi che hanno scosso anche altri capi dell’ intelligence chiamati a decidere uccisioni o l’uso di metodi violenti, ai limiti della tortura, negli interrogatori di terroristi catturati. Un affresco drammatico, agghiacciante e umano al tempo stesso, quello che viene fuori dal lungometraggio nel quale Gideon e Jules Naudet sono riusciti a intervistare tutti i 12 capi della Central Intelligence Agency ancora in vita, compresi l’ex presidente George Bush (padre) e George Tennet, al vertice dal 1997 al 2004, che non aveva mai parlato. Tennet ammette gli errori di analisi sulle armi proibite di Saddam Hussein (informazioni errate alla base dell’invasione dell’ Iraq) mentre per gli attacchi dell’11 settembre 2001 se la prende con le distrazioni della Casa Bianca. Uomini tormentati, ma anche divisi tra loro. Nel documentario sono divisi in due fazioni: quelli che come il direttore attuale, John Brennan, considerano la tortura una pagina nera e preferiscono colpire coi droni. Mentre altri come Michael Hayden e lo stesso Tennet negano il ricorso a vere torture, sostengono che le confessioni così ottenute hanno evitato molte stragi, mentre i terroristi uccisi coi droni non possono più parlare e fornire informazioni utili all’ intelligence .
Nessun commento:
Posta un commento