venerdì 18 dicembre 2015
Sinistra Inutile: professori o sottosegretari, gli ex consiglieri di Bertinotti non vanno mai in pensione
Sinistra Una casa comune, non una bad-company
di Marco Revelli il manifesto 18.12.15
Sergio Cofferati, da quel capitano di lungo corso che è, ha centrato
perfettamente il problema, nella sua intervista (il manifesto, 16
dicembre). Una riflessione sulla nascita di “un nuovo soggetto della
sinistra italiana”, frutto di un processo costituente che dovrà avere
per protagonisti, a sua volta, “soggetti nuovi”. Persone, aggregazioni,
esperienze – una generazione – non compromesse con ciò che è stato.
Se vorrà aspirare a muovere passioni e speranze oggi sopite e disilluse,
e soprattutto se si proporrà di allargare il campo della propria
capacità di attrazione e coinvolgimento a un “popolo” molto più ampio di
quello rimasto entro i vecchi recinti, non potrà essere “governato”, e
neppure prefigurato, dal personale politico e dai gruppi dirigenti delle
frammentate formazioni di una fase politica definitivamente chiusa.
Che questo sia il punto, lo dimostra d’altra parte la vicenda del
cosiddetto “tavolo” che a Roma si è riunito per mesi nel tentativo di
giungere a una soluzione condivisa. Il suo compito non era certo
cosmico-storico. E neppure quello di una “Costituente”: costituente ha
da essere, appunto, il processo aperto e collettivo che si sarebbe
dovuto inaugurare. Ai commensali di quel tavolo – tutto ciò che di
politicamente organizzato si muove a sinistra – si chiedeva solo di non
fare da ostacolo con le propria frammentazione e le proprie
conflittualità, all’apertura di una fase nuova e condivisa. Di
dichiarare, unanimemente, di sottomettersi a ciò che lungo il percorso,
il “corpo sociale” costituito da tutti coloro che ne condividono
l’attesa e il bisogno e scelgono di impegnarsi, democraticamente,
secondo il principio di “una testa un voto”, fosse venuto decidendo.
Né si può dire che esistessero seri ostacoli politici a un esito
positivo. Il documento “Noi ci siamo”, sottoscritto da tutti –
sottolineo tutti – i partecipanti al “tavolo” poneva punti fermi sulle
questioni qualificanti:
la fine del centro-sinistra, storicamente certificata, non solo perché
del tutto inadeguato a rispondere alle sfide del tempo ma perché
cancellato dalla stessa forza politica che ne aveva costituito il
baricentro;
la mutazione genetica, e nella sostanza irreversibile, del Partito
democratico, divenuto controparte di qualunque soggettività politica
definibile come “di sinistra”;
l’assunzione del contesto europeo come quadro entro il quale pensare e
agire i conflitti decisivi. E tracciava le linee di un percorso di
costruzione di un soggetto politico «innovativo, unitario, plurale,
inclusivo», aperto alla partecipazione «di tutte e di tutti» su base
individuale, e capace di esprimere le proprie decisioni sovrane
attraverso processi pienamente democratici e partecipati (ragion per cui
discutere ora di federazioni, di scioglimento, fare filosofia su come
si chiamerà, partito o soggetto politico o chissà che altro, non
dovrebbe avere alcun senso, serve solo a camuffare la realtà).
Se il meccanismo si è inceppato, e ha prevalso il non expedit, lo si
deve non a quelle che Gramsci avrebbe chiamato questioni di «Grande
Politica» (quelle che riguardano «la fondazione di nuovi Stati» oppure
«la lotta per la costruzione, la difesa, la conservazione di determinate
strutture organiche economico-sociali» cioè le classi), bensì –
continuo a citarlo – agli accidenti della «piccola politica», quella
«del giorno per giorno», «le lotte di preminenza tra le diverse fazioni
di una stessa classe politica».
Nel nostro caso il gioco incrociato tra il feticismo identitario degli
uni, le velleità egemoniche degli altri, il formalismo organizzativista
dei terzi, determinati i primi a proclamare una (sinceramente
incomprensibile) continuità inossidabile ab aeterno, i secondi a porre
conventiones ad excludendum preventive (altrettanto sinceramente
inaccettabili e difficilmente motivabili), gli ultimi a pretendere
d’imporre una propria idea di “partito” come condizione preliminare
anziché come esito finale, e qualcuno infine a farsi ex novo un
partitino a lato. Tutti in qualche modo accomunati da un atteggiamento
proprietario sul processo e sul soggetto, che porrebbe coloro che se ne
dovrebbero mettere al servizio come, invece, Legislatori dell’uno e
padroni dell’altro. E finirebbe per espropriare di fatto tutti coloro – e
continuo a pensare che siano tanti – che desiderano una casa comune e
intendono costruirsela senza dover subire progetti altrui.
L’intervista di Cofferati suona come un salutare invito al ripensamento.
Una sorta di time breack più che opportuno, che risponde alla spirito
di quanti, a quel tavolo, avevano lavorato perché un’altra logica
prevalesse (sicuramente noi dell’Altra Europa con Tsipras, ma anche i
giovani di ACT, e lo stesso Cofferati con Andrea Ranieri). Il suo invito
perché siano “le persone” a prendere nelle proprie mani il processo,
nel segno di una discontinuità non solo nei contenuti, ma anche nelle
forme, e nei soggetti protagonisti, con una nuova generazione alla guida
del processo, e volti, parole, stili diversi, non è solo un
suggerimento tattico, per superare un’impasse.
E’ un’esigenza strategica, senza la quale potrà nascere solo una bad
company, che i ribelli del futuro liquideranno insieme ai cattivi debiti
e alle “sofferenze” non solo bancarie del passato.
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