Lo smarrimento della République
Tempi presenti. La deriva securitaria e la sterzata a destra della Francia: un percorso di letture, fra scrittori, antropologi e storici per interrogarsi sulla crisi di senso dell'occidente
Guido Caldiron Manifesto 17.12.2015, 0:03
Si potrebbe dire che il segno dei tempi l’hanno indicato proprio le sue parole. Per commentare l’esito delle elezioni regionali francesi, Jean-Marie Le Pen non è ricorso a nessun odioso gioco di parole antisemita, bensì a una citazione tratta da un bestseller. Spiegando la sconfitta del Front National attraverso la retorica complottista che gli è propria, il vecchio parà ha evocato il sorprendente afflusso ai seggi di certe banlieue piene immigrati dove regna d’abitudine l’astensionismo, prima di concludere: «Non vorrei che nel 2017 si verificasse l’ipotesi avanzata da Houellebecq, vale a dire il debutto del governo del presidente Mustapha».
Un riferimento esplicito a Sottomissione (Bompiani), romanzo-evento di quest’anno, in cui è descritta la sfida per l’Eliseo nel 2022 tra Marine Le Pen e il candidato di un partito islamista vicino ai Fratelli musulmani. Competizione che condurrà alla nomina del primo presidente musulmano del paese anche grazie ai voti del «fronte repubblicano» costituito dal centrodestra e dai socialisti. In altre parole, è alla fantapolitica di un romanzo di grande successo che si è affidato il fondatore del Front National per analizzare la situazione del suo paese. Forse perché, indipendentemente da ciò che si può pensare del talento letterario di Michel Houellebecq, Sottomissione è prima di tutto un’illustrazione del modo in cui una parte dei francesi guarda oggi al proprio paese.
La «resa» sociale
Accusato di islamofobia, sospetto che più passaggi del libro non aiutano certo a dissipare, ma in realtà più interessato a criticare i vizi e la propensione al servilismo verso il potere dell’ambiente accademico e intellettuale parigino, il pamphlet dell’autore di Le particelle elementari tratteggia con le tinte della decadenza, della cialtroneria e della miseria umana l’élite culturale e politica d’oltralpe. François, il protagonista del libro, è pronto a convertirsi alla fede dei nuovi padroni pur di non rinunciare alla sua carriera universitaria. Se il vecchio mondo in cui è cresciuto comincia a crollare, lui cerca una nuova sistemazione: «L’idea sconvolgente e semplice, mai espressa con tanta forza prima di allora, che il culmine della felicità umana consista nella sottomissione più assoluta».
L’idea che il problema non sia tanto «la forza dell’altro», quanto la propria intrinseca debolezza, la crescente fragilità di un sistema sociale, culturale, di valori alimenta così anche nelle pagine di Houellebecq quel tema del declino dell’Occidente con cui autori ben più impegnati su questo fronte, su tutti Oriana Fallaci di La rabbia e l’orgoglio, hanno inteso definire la cifra di una presunta «resa» del Vecchio continente di fronte al mondo.
Anche in Francia, Houellebecq è del resto tutt’altro che isolato, al punto che il suo nome è stato spesso affiancato a quello di altri scrittori, intellettuali, polemisti e commentatori radiofonici o televisivi che con le loro posizioni hanno dato corpo alla progressiva e apparentemente inarrestabile droitisation del paese. Un fenomeno che si è espresso nei consensi andati al Front National come nella lunga egemonia politica della destra muscolare di Nicolas Sarkozy: non solo una crisi sociale perciò, ma anche una più generale «crisi di senso» che riguarda settori sempre più vasti del paese.
Così, secondo lo storico Pierre Rosanvallon, è dalla fine degli anni Novanta che si è assistito in Francia all’apparizione di «una nuova forma di pensiero illiberale». Non solo una svolta politica a destra, ma qualcosa di più profondo. «La democrazia implica una capacità permanente di fare autocritica, ha spiegato lo studioso, ma ciò che sta emergendo ora oltrepassa questo quadro: si tratta di sentimenti molto più negativi che costruiscono un’idea di declino, se non di vera e propria decadenza. Il pensiero critico e la riflessione sulla modernità sembrano bloccati e la loro crisi alimenta ora questo ripiegamento su una cultura ’di reazione’».
Proprio all’inizio di questa nuova fase, un giovane storico parigino, Daniel Lindenberg aveva fissato una prima istantanea della vicenda in Le rappel à l’ordre. Enquete sur les nouveaux réactionnaires (Seuil, 2002), un libro le cui analisi di fondo restano valide ancora oggi. Lindenberg descriveva, infatti, la svolta «reazionaria» di un certo numero di intellettuali provenienti dalla sinistra. Il tono e i contenuti delle critiche avanzate da costoro nei confronti dell’eredità del ’68, della cultura dei diritti dell’uomo, del modello di integrazione repubblicana, dell’antirazzismo, dell’Islam, del femminismo rappresentavano agli occhi dello studioso «un superamento dell’orizzonte democratico, fino a sprofondare in una deriva neoconservatrice se non apertamente reazionaria».
Il suicidio francese
Tra i nomi citati in quell’opera compariva già Houellebecq, al pari dello scrittore Maurice Dantec ma anche sociologi come Pierre André Taguieff, filosofi come Marcel Gauchet o Alain Finkielkraut, studiosi come Pierre Manent e una ex icona della cultura progressista come Régis Debray. Al di là del loro percorso iniziale, questi intellettuali hanno finito per esprimere la «nostalgia di una democrazia forte, dagli accenti eroici», se non ad auspicare un vero e proprio «neo-populismo». Ma se la deriva di una parte dell’intelligentsia sessantottina, passata per l’esperienza dei nouveaux philosophes, e approdata da una sana critica del totalitarismo sovietico ad un incauto abbraccio con la «difesa dell’Occidente», è simile a quella dei neoconservatori statunitensi, il tema delle nuove sintesi tra destra e sinistra è rimasto una costante del contesto francese come ha ribadito di recente l’antropologo Jean-Loup Amselle in Les nouveaux rouges-bruns (Lignes, 2014) riflettendo sulle traiettorie di personaggi come Alain Soral e Dieudonné, ma analizzando in seguito anche il posizionamento ambiguo del filosofo pop Michel Onfray.
La stessa vigilia del recente voto regionale è stata caratterizzata da un aspro dibattito sulle pagine di Libération e Le Monde su quelle figure del mainstream intellettuale e mediatico considerate responsabili di una piena legittimazione degli argomenti del Front National. Personaggi ancora una volta diversi e apparentemente incompatibili, come il filosofo ex gauchiste Alain Finkielkraut o il giornalista del quotidiano conservatore Le Figaro, Eric Zemmour, autori rispettivamente di L’identità infelice (Guanda, 2013) e Le suicide français (Albin Michel, 2014), libri, specie il secondo, divenuti dei veri casi editoriali, che denunciano seppur con sfumature diverse l’annichilimento dell’identità della République sotto i colpi del «politicamente corretto» e del relativismo culturale. Ancora una volta, la crisi del paese è letta in termini di declino, di smarrimento identitario, di impoverimento dei punti di riferimento tradizionali.
Una sorta di sinistra eco di quella rivolta intellettuale reazionaria descritta dallo storico israeliano Zeev Sternhell in Contro l’Illuminismo (Baldini, 2007) che ha fatto coincidere da sempre il trionfo della ragione con le fasi di decadenza di una civiltà: non una rivolta contro la modernità, ma per un’altra idea di modernità, esente da «pericoli» come la democrazia, la libertà, l’uguaglianza.
In una simile prospettiva, i voti per Marine Le Pen rischiano di rappresentare il classico albero che cela una vasta foresta.
La letteratura del controllo
Intervista . Parla la scrittrice francese Cécile Coulon che, con il suo libro «La casa delle parole», uscito per Keller, ha evocato Orwell. «L'orizzonte in cui ci muoviamo oggi somiglia tanto a quello del mio romanzo» Guido Caldiron Manifesto 17.12.2015
«Le parole del Lettore riecheggiavano, scavavano solchi nelle memorie, attaccavano timpani, nuche, braccia e gambe. Bocche e palpebre tremavano. Le bruciature interiori di ventimila persone si risvegliavano». Nel Paese senza nome descritto da Cécile Coulon è al potere evocativo dei libri che è affidato il compito di garantire l’ordine sociale attraverso letture pubbliche in cui toccanti pagine letterarie catalizzano le emozioni più inconfessabili di una popolazione altrimenti docile e sottomessa.
In La casa delle parole (pp. 160, euro 14), appena pubblicato, come il precedente Il re non ha sonno, da Keller, Coulon conferma di essere non solo una delle più giovani, è nata nel 1990 a Clermont-Ferrand, ma anche delle più interessanti voci della nuova narrativa francese. Una mezza dozzina di opere all’attivo che spaziano dagli ambienti della provincia americana, mescolando i riferimenti a Steinbeck o al rock’n’roll di Jerry Lee Lewis, alla science-fiction e all’indagine sociale, ama citare Stephen King come Pasolini, la scrittrice indaga con grazia e determinazione i confini del romanzo, grazie ad una lingua mai banale e a uno stile dal forte impatto evocativo. Nel 2013 ha lanciato il «Manifeste des enfants sauvages», appello a un risveglio generazionale sia politico che culturale.
Il suo romanzo è, a un tempo, un atto d’amore per i libri e la letteratura e una riflessione sul potere che possono avere questi stessi nelle nostre vite. Quale aspetto prevale?
Credo siano entrambi centrali in La casa delle parole. Sono cresciuta in mezzo ai libri, li ho amati fin da piccola visto che a casa mia si leggeva molto. Crescendo ho scoperto che non tutti condividevano quella passione; anzi, c’erano tante persone che non leggevano neppure il giornale. Così, ho cominciato a pensare spesso a questa «abitudine», concentrandomi però su un aspetto particolare della questione. Mi sono chiesta se paradossalmente non ci fosse qualcosa che mi faceva ancora più paura di un mondo in cui i libri rischiavano di scomparire, vale a dire la possibilità che si possa finire tutti per leggere solo e soltanto le medesime cose. Ho immaginato allora una società in cui tutti gli individui sono obbligati dal potere a leggere gli stessi libri e unicamente quelli.
Nel romanzo «1984» si legge che «l’Ortodossia consiste nel non aver bisogno di pensare», mentre in «Fahrenheit 451» si bruciano i libri e i cittadini sono obbligati a guardare la tv. Non la spaventa aver toccato, nelle sue pagine, identici temi di scrittori del calibro di Orwell e Bradbury?
A dire il vero, questo timore è stato il mio primo pensiero da quando ho cominciato a scrivere il romanzo: temevo di essermi spinta troppo in là, verso la «letteratura d’anticipazione». In realtà non ho cercato di copiare Orwell o Bradbury, ma di proseguire, con i miei strumenti, quanto avevano fatto loro. Questi due scrittori hanno aperto la strada alla riflessione sul ruolo esercitato dai libri e dalla cultura nella costruzione del controllo ideologico di una società. Un tema che mi sembra molto attuale. Così, ho cercato di concentrarmi sul fatto che i libri sono degli oggetti bellissimi, ma se finiscono nelle mani sbagliate possono trasformarsi in qualcosa di molto pericoloso.
Nell’universo totalitario descritto nel suo romanzo si cerca di manipolare le anime dei cittadini attraverso testi chiamati Libro Odio, Libro Tenerezza, Libro Tristezza. La letteratura come strumento di controllo?
L’idea di partenza era che la maggior parte delle persone non si conosce davvero e ha paura delle proprie emozioni, si tratti della collera e della rabbia come dell’amore. C’è sempre qualcosa di noi stessi che ci sfugge, elementi che sembrano traboccare dalla nostra anima senza che noi ne siamo del tutto consapevoli. Perciò, nel romanzo, sono le autorità a sovraintendere alle manifestazioni esteriori di queste emozioni. Visto che si tratta di una società iper-controllata, quando le persone sentono il bisogno di provare qualcosa prendono il libro che corrisponde a ciò che hanno voglia di sentire e partecipano a queste adunate collettive che sono poi l’unico luogo in cui i loro sentimenti possono esprimersi sotto l’occhio vigile dei guardiani. «Consumano» le loro emozioni in questi luoghi, quasi si trattasse di una droga, per poi tornare ad essere dei cittadini ubbidienti.
Facile intravedere un parallelo con la politica. Marine Le Pen ha puntato tutto sul dare voce a sentimenti come la paura e l’inquietudine. Chi interpreta le emozioni dei cittadini può controllare un paese?
C’è questo rischio ed è anche grande. In effetti, penso che chi ha votato per il Front National lo abbia fatto prima di tutto perché è intimorito, non sa bene cosa gli possa capitare sia sul piano del lavoro, su quelo delle sue condizioni di vita o anche riguardo i rischi che si possono correre in modo del tutto inaspettato — mi riferisco agli attentati del 13 novembre. Credo però che in questo voto, in cui trovano certo espressione paura e collera, si esprima anche il sentimento di voler controllare queste stesse emozioni, le proprie come quelle degli altri, attraverso un sistema duro, repressivo, sempre più militarizzato come quello che promette Le Pen.
Oggi c’è un’ossessione pressoché generalizzata per la «sicurezza», e questo anche a scapito della libertà, della cultura, di qualunque altro aspetto della vita sociale. Per farsi ascoltare basta dire che si chiuderanno le frontiere, si censurerà la stampa, si metteranno poliziotti dappertutto: un orizzonte che assomiglia tanto a quello del mio romanzo.
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