sabato 9 gennaio 2016
500 anni dall'Utopia di Thomas More
La grande opera di Thomas More compie 500 anni Non una fuga nel sogno: un modello a cui ispirarsi
di Nadia Urbinati Repubblica 8.1.16
Thomas More creò “Utopia” cinquecento anni fa, nel 1516, in età matura e mentre si stava avviando a una brillante carriera politica che lo avrebbe portato a essere cancelliere di Enrico VIII. Il divorzio del re segnò la rottura dell’Inghilterra con la Chiesa di Roma e la fine della carriera e della vita del cardinale cattolico More, giustiziato il 6 luglio del 1535 (santificato da Pio XI nel 1935 e proclamato da Giovanni Paolo II protettore dei politici). “Utopia” é il capolavoro
di questo grande umanista cristiano che Erasmo da Rotterdam descrisse come un credente ansioso di una fede verace e nemica di ogni superstizione, e che i bolscevichi immortalarono in un monumento posto davanti al Cremlino accanto a quello di Tommaso Campanella. Prima opera che porta questo nome, Utopia non é un libro semplice e sulle intenzioni del suo autore (che riconobbe la schiavitù e la subordinazione delle donne) gli studiosi non si trovano ancora d’accordo. Certamente, si trattò di un progetto che rifletteva le condizioni storiche dell’Inghilterra del tempo, afflitta dall’intolleranza religiosa (alle soglie della Riforma protestante) ma prima ancora dalla miseria delle classi povere e dall’opulenza di un’oligarchia abituata al privilegio di rapina.
Utopia non disegna però un sogno d’evasione nella terra dell’abbondanza. Racconta una società in sintonia con l’etica dei moderni, dove il lavoro è onorato, anche se nessuno è costretto alla stessa mansione per tutta la vita; dove si rispetta un tempo lavorativo di sei ore giornaliere affinché ognuno abbia il tempo dello svago e possa coltivare rapporti affettivi e sociali, l’arte e la scienza. In
Utopia, la legge è uguale per tutti; la giustizia segue un dosaggio di oneri e di onori misurato secondo il servizio reso alla società, non l’appartenenza a un ceto o una classe; la vita pubblica aborre la retorica perchè menzognera; e infine, il popolo non è una platea addomesticata da retori e da legulei. Nelle città federate di
Utopia si promuovono la cultura, la letteratura e l’arte; sono abolite le sofisticherie teologiche e metafisiche, si educano i giovani secondo i principi del metodo sperimentale, il più adatto a un popolo che si autogoverna e ha il potere ultimo delle decisioni; i cittadini delegano l’amministrazione a magistrati che sono scrupolosamente controllati; le amicizie e le parentele sono bandite da ogni relazione pubblica.
L’utopia non è propriamente un luogo di evasione dal presente, ma un esercizio di immaginazione che denuncia il disordine della società esistente e mostra i principi a partire dai quali è possibile correggerlo. L’isola che non c’è di More illustra le norme del ben vivere collettivo e privato secondo un ideale che appartiene alla natura umana come un dover essere che la ragione indica – non un assurdo, non un disegno che sta fuori della nostra portata. L’utopia è, in questo senso, la matrice delle costituzioni moderne, delle leggi che i popoli scrivono nella loro fase creatrice, quando emergono da grandi sofferenze e sanno ragionare per grandi visioni, pensando non a quel che conviene a loro in quel momento e alla loro generazione, ma a quel che farà dignitoso il paese per le generazioni a venire. Insieme al cinquecentesimo anniversario dell’Utopia di More, nel 2016 si celebrerà anche il settantesimo anniversario della nostra Repubblica, la matrice utopica della nostra società. L’Assemblea che si insediò dopo il 2 giugno 1946 segnò il carattere della nostra Costituzione, nata dalla lotta partigiana e guidata da partiti politici, da cittadini, cioè, con diverse idee politiche e capaci di convenire pur dissentendo. La capacità di immaginare il futuro è innervata nel presente, come un punto di riferimento senza il quale non ci è possibile fare scelte. L’utopia è una creazione esemplare di questa capacità. Un luogo che non c’è del quale non si può fare a meno.
Una spinta all’emancipazione sempre a rischio totalitarismo
di Roberto Esposito Repubblica 8.1.16
Fin nel suo stesso nome — che rimanda a un luogo perfetto, ma
inesistente — l’utopia presenta un’ambivalenza costitutiva, che percorre
la sua intera storia. Sempre oscillante tra realtà e immaginazione,
letteratura e politica, dogmatismo e critica, essa è stata
alternativamente vista come prodromo del totalitarismo e come annuncio
di libertà. Ricondotta da alcuni alla Repubblica di Platone, essa è in
realtà un genere essenzialmente moderno, risalente al sedicesimo secolo.
Diversamente dai racconti utopici di matrice ellenistica — come quelli
di Evemero, Ecateo, Giambulo -, che guardano a una mitica età dell’oro
situata nel più remoto passato, l’utopia rinascimentale si rivolge
piuttosto al futuro. La stessa idea di “isola”, in cui è collocata da
Moro, simboleggia lo strappo dalla terraferma della tradizione classica e
cristiana. Certo, essa intende ricostruire una condizione di
uguaglianza naturale, ma attraverso strumenti artificiali e una
pianificazione di tipo tecnico. Non per nulla, soprattutto nella Nuova
Atlantide di Francesco Bacone, la scienza ha un posto di rilievo. Lo
stato perfetto non è dato in natura, ma è il prodotto di una determinata
progettazione umana. Proprio questo elemento di pianificazione
integrale, volto alla produzione di una società perfetta, espone però
l’utopia al rischio della degenerazione. Ben visibile nella Città del
sole di Campanella, tale carattere ingegneristico percorre le utopie
settecentesche e ottocentesche. Neanche la critica di Marx al socialismo
utopistico di Saint-Simon e Fourier, in nome di un socialismo
scientifico, risulta immune da una tendenza totalizzante. Ciò spiega il
ribaltamento del racconto utopico nella sua versione distopica operato,
nel Novecento, nel Mondo nuovo di Huxley e in 1984 di Orwell. Eppure
questa condanna non chiude la storia dell’utopia, come dimostra il suo
rilancio nello Spirito dell’utopia e nel Principio speranza di Ernst
Bloch. Una volta caduta la pretesa prometeica della perfettibilità del
genere umano, l’utopia conserva intatta la propria carica emancipativa
nei confronti dei poteri esistenti. Si direbbe che essa resti valida a
patto di non immaginarsi integralmente realizzabile — di restare un
disegno aperto, incompiuto. Come insegna Kant, le idee della ragione non
sono destinate a concretizzarsi nella realtà, ma, se assunte come
ideali regolativi, la possono spingere verso esiti apparentemente
irraggiungibili.
L’idealismo ormai lontano dal mondo del lavoro
di Giancarlo Bosetti Repubblica 8.1.16
Nonostante l’incandescente fantasia di Thomas More (o di Tommaso
Campanella) la distanza tra l’utopia e una realistica riforma è esposta
al tira e molla della retorica e all’interesse di chi deve pagarne il
prezzo. Nell’isola inventata dall’inglese si lavorava sei ore al giorno,
nella Città del Sole del calabrese solo quattro. Erano davvero utopie e
lo sono rimaste. Ma per molti è rimasta utopia la limitazione a otto
ore, anche dopo che una convenzione internazionale l’ha sancita come un
diritto nel 1919. Ancora più utopia oggi la piena occupazione. Il fatto è
che a meritarsi cattiva fama non sono stati gli ideali, ma alcuni vizi
che si accompagnano spesso all’utopia e fanno sì che venga regolarmente
trasformata in incubo. Il vizio non è l’altitudine del desiderio, ma
quello che i grandi critici dell’utopismo — due per tutti: Karl Popper e
Isaiah Berlin — hanno identificato come il suo aspetto più pericoloso:
la convinzione che si possa realizzare una società perfetta, esente dai
comuni difetti — egoismo, avidità, opportunismo, eccetera. Il
perfezionismo è dunque parente stretto del costruttivismo
rivoluzionario, il quale ritiene, attraverso una élite che si
auto-investe del mandato di conoscere la direzione della storia.
Che alcuni sappiano dove va quel fiume fa sì che i prezzi di sofferenza
da pagare siano soltanto un inevitabile pedaggio per liberare il suo
corso dagli impacci (Popper), mentre gli eletti che cucinano la storia
continuano a rompere una quantità crescente di uova giustificandosi,
come faceva Stalin, con il bisogno di fare una omelette, che però non
arriva mai in tavola (Berlin). La cura di questo vizio che tende sempre a
ripresentarsi, incontenibile — il desiderio di purificare l’umanità
accompagna anche le pulizie etniche — sta sia nel coltivare moderazione e
gradualità delle riforme sia nell’accettare quella varietà e
imprevedibilità di comportamenti che ripropongono l’evidenza del nostro
essere fallibili. E diversi. È il dato inoppugnabile su cui Voltaire
costruiva l’edificio della tolleranza. La grandezza degli ideali non è
dunque da reprimere. Non era, non è gigantesco l’ideale della
cittadinanza cosmopolitica? O quello della pace perpetua in un mondo
tutto democratico? Eppure proprio in quelle stesse pagine in cui ne
parlava, Emmanuel Kant, che perfezionista non era, collocava la celebre
riflessione sul «legno storto», come quello di cui è fatto l’uomo, da
cui non si ricaverà nulla di interamente diritto. «Solo
l’approssimazione a questa idea ci è imposta dalla natura».
Il “principio speranza” oltre i calcoli della ragione
di Vito Mancuso Repubblica 8.1.16
A proposito di utopia occorre sempre ricordare quanto scriveva Oscar
Wilde nel 1891: «Una carta geografica che non comprenda l’isola di
Utopia non merita nemmeno uno sguardo, perché escluderebbe l’unico paese
al quale l’Umanità approda in continuazione» ( L’anima dell’uomo sotto
il socialismo). La capacità di utopia però, chiamata da Ernst Bloch «il
principio speranza», è imparentata con un superamento della ragione
calcolante e per questo all’uomo coi piedi per terra appare spesso
irrazionalità e follia. Non è quindi un caso che, qualche anno prima del
capolavoro di More, Erasmo da Rotterdam avesse dedicato a lui l’Elogio
della follia (1509), composto proprio nella casa londinese di More.
Ma cosa permette di distinguere l’utopia dall’immaginazione fantastica e
dall’illusione? È il fatto che l’utopia rimanda sempre a un luogo, a un
topos; di esso, di cui si dichiara consapevolmente l’inesistenza qui e
ora, si avverte il bisogno per mostrare quale potrebbe e dovrebbe essere
il volto più vero dell’esistenza. L’utopia perciò non è fuga dal reale,
ma penetrazione nella sua essenza più autentica grazie a una più acuta
capacità di visione. Prendiamo l’essere umano: limitandosi a ciò che
appare, può essere considerato solo un grumo di istinti e di voglie, ma
nella luce del pensiero utopico diviene soggetto di armonia, creatore di
bellezza, promotore di giustizia e apparire come il fenomeno più nobile
prodotto dall’universo. Qual è la prospettiva più realistica? La prima.
Qual è quella più produttiva? La seconda. Lo statuto epistemologico del
pensiero utopico appare quindi paradossale: si fugge con la mente in un
luogo inesistente ma, ben lungi dall’alienarsi nelle illusioni, si
diviene più capaci di incidere sulla realtà. Non ci si lascia
scoraggiare dalla pesantezza del quotidiano, ma lo si trasforma. Si
impone però la domanda decisiva: qual è la sorgente del pensiero
utopico? Come nominare cioè quella dimensione dell’essere più alta
rispetto alla piana del reale e per questo capace di illuminarla e di
riformarla? Un tempo si chiamava Dio e l’utopia era religiosamente
connotata. Poi la si chiamò società socialista e l’utopia divenne
politicamente connotata. Il libro di Thomas More, come già la Repubblica
di Platone, rappresenta una felice sintesi delle due prospettive,
all’insegna di un’ideale teologia politica e di una politica
spiritualmente connotata. Stiamo ancora aspettando di vedere la
realizzazione di qualcosa di simile ma credo che coltivarne la
prospettiva sia una forma di felice utopia.
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