sabato 9 gennaio 2016

Alberoni postmoderni. La posta del cuore dello sciamano bonazzo

I tabù del mondo un lungo viaggio alla scoperta di ciò che siamo 

Da domani la nostra nuova iniziativa domenicale: tra miti e simboli Massimo Recalcati ci svela pulsioni, divieti, paure ancestrali dell’umanità

MASSIMO RECALCATI Repubblica 2 1 2016
Il nostro tempo non sembra conoscere più l’ombra tetra del tabù. L’enfasi della libertà da ogni vincolo sembra aver demolito ogni rispetto nei confronti del senso del limite che l’esistenza del tabù indicava. In primo piano è una volontà di autoaffermazione che giudica oscurantiste tutte quelle ragioni che vorrebbero imporle degli ostacoli. Al nostro tempo sfugge il nesso che lega l’esperienza del limite a quella del desiderio. Nella lettera ai Romani Paolo di Tarso mostra, infatti, come sia proprio l’esistenza
stessa della Legge a fare esistere il peccato. Senza la Legge non vi sarebbe né senso della trasgressione, né senso di colpa. È quello che accade nel mito biblico di Adamo e Eva di fronte all’albero della conoscenza: il sonno pacifico della loro innocenza viene interrotto dall’introduzione di un divieto che impone la definizione di una soglia che non si deve valicare. Ma l’effetto di questo divieto non è quello di spegnere il desiderio trasgressivo, ma di alimentarlo insieme all’angoscia che comporta il dramma inedito della scelta: mangiare o non mangiare il frutto proibito? Lo sanno bene anche i bambini: l’oggetto interdetto — l’oggetto sul quale cade la proibizione — è il più desiderato. Il che significa che la Legge non è semplicemente un antagonista repressivo del desiderio, ma lo alimenta continuamente. Un esempio istruttivo e simpatico, se non fosse stato per me assai spiacevole, è accaduto diversi anni fa nel mio studio.
Una paziente cleptomane oltre a raccontarmi in seduta della sua attitudine irresistibile al furto, si appropriava regolarmente dei miei libri in sala d’attesa… Non potevo ovviamente avere la certezza che fosse lei la ladra dei miei libri e ogni mio tentativo di immaginare una replica veniva subito frustrato dall’esigenza di non alterare la neutralità del setting analitico. La mia segretaria, essendo una donna dotata di grande senso pratico, si offrì, vincendo le mie perplessità, per risolvere la situazione: scrisse perentoriamente su dei cartelli appositamente situati sulla libreria: «Questi libri non sono in consultazione ». In sostanza dichiarava — come fece il Dio della scena biblica — i libri presenti nello studio oggetti interdetti, impossibili da prelevare. Ma la sua strategia non tenne in giusta considerazione la lezione di quel mito, ovvero il nesso paradossale che unisce il desiderio alla sua interdizione. Un’epidemia di furti di libri si innescò, con mia grande afflizione.
Questa scenetta mostra molto meglio di saggi paludati il nesso che unisce il desiderio trasgressivo alla Legge. Avviene in ogni regime proibizionista: il divieto di usare determinate sostanze, anziché scoraggiare la loro attrattività, la potenzia. Il punto è che non esisterebbe crimine, violazione, profanazione, furto, senza l’esistenza della Legge. Il che non significa che la Legge sia il Male o lo alimenti, come crede invece il marchese De Sade. Piuttosto è solo l’esistenza della Legge e i tabù che essa genera che rendono la vita umana.
Prendiamo le cose da loro inizio: quale è la parola decisiva di Freud sul desiderio? È quella di mostrare la sua natura incestuosa. Nessuno come lui ha mai insistito tanto su questo punto. Ma affermare che il desiderio umano sia strutturalmente incestuoso non significa sostenere che il desiderio del figlio tenderebbe semplicemente a possedere sessualmente la madre.
Se Freud insiste sul carattere incestuoso del desiderio è per metterne in rilievo una portata assai più ampia. Il desiderio incestuoso è l’immagine di un desiderio illimitato, che non conosce argini, soglie, tabù e che, di conseguenza, sospinge con forza verso il possesso assoluto, non solo e non tanto della madre, ma di “tutto”: avere, sapere, godere, essere tutto.
Il desiderio incestuoso è la rappresentazione della spinta cieca della vita alla propria autoaffermazione che però sconfina nella sua distruzione. Di fronte a questo desiderio la Legge agisce pri- mariamente come ciò che proibendo l’accesso al godimento immediato del corpo della madre trasforma quel corpo in un tabù rendendo però possibile al desiderio umano di dirigersi verso altre mete, allargare e non restringere alla madre l’orizzonte del mondo. Non a caso la Legge dell’interdizione dell’incesto si trova a fondamento di tutte le civiltà umane. Essa inscrive nel cuore dell’uomo l’esperienza dell’impossibile: non si può avere, sapere, godere, essere tutto. Gli esseri umani però non sopportano l’impossibile: l’hybris del loro desiderio (incestuoso) vorrebbe negare ogni limite trasfor-mando l’impossibile in possibile. Si pensi, per fare solo due esempi, al fantasma del collezionista o a quello del feticista che elevano un oggetto (l’ultimo pezzo della collezione, una semplice scarpa col tacco) alla stregua di un idolo che ci dovrebbe proteggere dall’esperienza dell’incompiutezza e della mancanza.
Nelle 52 puntate che saranno pubblicate ogni domenica su Repubblica, dedicate al mondo dei tabù, proverò a raccontare le forme e gli esiti diversissimi che può assumere la tensione, sempre irrisolta, tra il desiderio e la Legge. Non dimenticando di ricordare anche alcune figure mitologiche e letterarie esemplari che la psicoanalisi ha eletto come protagoniste dei suoi cosiddetti “complessi” come il Padre dell’Orda, Edipo, Elettra, Medea, Amleto, Eros, Thanatos e altre, che, in modi differenti, incarnano il potere del tabù e la sfida della sua violazione.

I tabà del mondo /1 Se dopo il Padre viene uccisa anche la Legge
All’inizio il capofamiglia sedeva sul trono e governava per il suo godimento. Poi i figli presero il potere e il loro rimorso creò le regole-totem del nuovo ordine. Nacque così il patto sociale con il suo tabù: nessuno occuperà in modo arbitrario il trono vuoto. Ora quel vuoto non solo non è riempito ma ha perso ogni significatodi Massimo Recalcati Repubblica 3.1.16
Il nostro tempo sembra cancellare ogni forma di tabù. La disinibizione e l’assenza di vergogna e di senso di colpa trionfano alla faccia del vecchio uomo del Novecento ancora preso dai grandi dissidi morali tra il bene ed il male, le ragioni individuali e quelle della Storia, il progresso e la tradizione, gli Ideali e la pulsione.
Le lacerazioni tragiche del Novecento hanno lasciato il posto ad un disincanto generalizzato che sembra aver annullato l’esperienza angosciata del tabù. Una vignetta clinica può darci il senso di quello che sta accadendo. È il caso di un giovane che, insieme a dei suoi compagni, nel corso di una rapina, ha ucciso brutalmente un anziano. Nel colloquio in carcere con lo psicologo dichiara che dopo aver commesso il crimine non ha avvertito alcun senso di colpa. La sua giornata è scivolata via come se niente fosse. Ha dormito profondamente, la mattina ha fatto colazione e si è recato normalmente a scuola. Tutto era come prima. Non siamo di fronte alla lacerazione dostoevskijana tra il senso della Legge e la sua trasgressione colpevole. Il delitto non sembra più in rapporto all’esigenza morale del castigo; la colpa non divora il criminale, non lo costringe all’insonnia, non lo tormenta.
Mentre l’uomo dostoevskijano vive il dramma dell’infrazione della Legge, il giovane criminale, dopo aver compiuto il delitto, si reca tranquillamente a scuola ridendo e scherzando con i suoi amici. Egli vive un altro genere di angoscia. Quale? La confida allo psicologo: la vertigine che lo ha assalito il giorno successivo al crimine — dopo essere stato arrestato — scaturisce dalla sensazione della inesistenza della Legge; ovvero, dalla percezione che tutto, senza la Legge, è diventato possibile; anche l’uccisione spietata di un uomo per qualche euro. Diversamente dall’uomo dostoevskijano che sprofonda nell’abisso del senso di colpa di fronte al volto severo e inflessibile della Legge, per questo giovane assassino l’angoscia scaturisce dalla dimensione totalmente inconsistente della Legge.
Siamo di fronte a un’esperienza che rovescia la genesi del tabù così come Freud l’aveva concepita nel 1913 in uno dei suoi testi più visionari qual è Totem e Tabù. In quel libro, sulle orme di Darwin, il padre della psicoanalisi aveva immaginato che la prima forma organizzata di vita umana avesse come protagonista un padre titanico, geloso e crudele, possessore di tutte le donne (il Padre dell’orda), che confondeva arbitrariamente la Legge col proprio godimento. Di fronte a questa tirannia permanente i figli-fratelli, ai quali era proibito l’accesso alle donne, decidono di allearsi uccidendo il padre e divorando il suo corpo in un pasto tribale. Il fatto che i fratelli si cibino delle carni del padre manifesta tutta l’ambivalenza del loro legame al padre: ucciso in quanto oggetto d’odio, ma sbranato in quanto oggetto d’amore affinché la sua potenza illimitata possa essere incorporata dai suoi figli. Il termine “rimorso” trova qui il suo significato più profondo: divorando il corpo del padre temuto ma amato, i figli si sentono morsi dalla colpa. L’esito del rimorso è l’instaurazione del totem: il padre morto continua a vivere sebbene non più nella forma della tirannia capricciosa, ma in quella dell’autorità simbolica incarnata nel totem. La sua morte è, dunque, all’origine del senso stesso della Legge; il totem diviene, al tempo stesso, oggetto di venerazione e di angoscia, commemorando l’assassinio del padre e il rimorso che esso ha suscitato. Da quel momento in poi, si instaura il divieto dell’incesto che obbliga tutti i figli all’esogamia. Il senso della Legge sorge come effetto retroattivo dell’atto parricida: mentre in Edipo il parricidio infrange la Legge conducendo il figlio verso l’abisso dell’incesto e della distruzione, in Totem e Tabù esso genera la Legge. La vita democratica della Comunità si rende possibile solo attraverso il tabù che sorge in seguito all’uccisione del padre. È solo la morte del padre che pretende di essere la Legge, di fare coincidere la Legge con la sua volontà di godimento, a costituire la condizione della nascita di una Legge più umana e della Cultura stessa. Il patto sociale sostituisce il caos della violenza; la pulsione deve sublimarsi nel riconoscimento di una Legge che, trovando il suo fondamento nel padre morto, vale per tutti, non è più Legge ad personam. Nessuno può occupare il posto del padre morto perché si tratta di un posto destinato a rimanere vuoto. I totalitarismi del Novecento e i fondamentalismi di ogni genere mostrano, a rovescio, l’inferno che può generarsi dal suo riempimento fanatico.
Nel nostro tempo il rischio però non è quello di riempire il vuoto lasciato dal padre morto, ma, nella dissoluzione neo-libertina di ogni tabù, di fare venire meno il rispetto verso la Legge. È la vertigine che assale il giovane assassino: non esiste un argine, un limite, una barriera che possa contenere il suo atto. In questo modo l’assenza della Legge sembra diventare l’unica forma della Legge; se tutto diventa possibile, se dopo aver compiuto un crimine efferato tutto resta come prima — senza senso di colpa e senza rimorsi — non sarebbe forse necessario rivalorizzare il tabù come effetto della Legge?

I tabù del mondo La follia di Narciso divenuta trappola del nostro tempo
L’epoca in cui viviamo ha esaltato la figura raccontata da Ovidio come emblema di un soggetto che basta a se stesso e che vorrebbe annullare la dipendenza dall’Altro. L’Io è diventato il nuovo idolo pagano altrettanto superstizioso di quelli che la ragione critica dell’illuminismo è riuscito a smascherare Lacan lo diceva a suo modo: il problema non è più quello di distinguere la preda dall’ombra, ma di essere tutti noi prede della nostra stessa ombra di Massimo Recalcati Repubblica 17.1.16
Caravaggio, seguendo il mito raccontato da Ovidio, ci presenta il giovane Narciso affacciato sulle acque che gli restituiscono — in una perfetta simmetria avvolta dal buio — la sua immagine adorata. La bellezza di Narciso contiene, si capisce, una trappola mortale: la fascinazione per se stessi può essere fatale. È quello che accade anche nel mito: nel tentativo di afferrare la propria immagine riflessa il giovane Narciso sprofonda nell’abisso delle acque perdendo la propria vita. Freud aveva coniato da questo mito una figura fondamentale della clinica psicoanalitica: il narcisista è colui che perde la propria vita restando alienato nell’infatuazione esaltata ma sterile per la propria immagine. Nel mito di Ovidio Narciso è, infatti, colui che suscita ammirazione e amore, ma che non può, a sua volta, né provare, né ricambiare in nessuna forma. L’anestesia affettiva è un tratto anche clinico della personalità narcisistica che segnala la sua impossibilità di entrare in una forma di legame con l’altro in quanto tutta la sua libido appare sequestrata dal proprio Io. Non a caso per Freud l’Io è il primo oggetto di investimento libidico, il suo “serbatoio” originario. Il che significa che l’essere umano non nasce predisposto all’altruismo, ma, casomai, al culto di se stesso. Il narcisismo definisce la tendenza egocentrica dell’uomo che contrasta radicalmente con la tesi aristotelica dell’uomo come animale sociale: il nostro Io è il primo grande e insidioso idolo alla cui potenza immaginaria la nostra vita si consacra.
L’illusione narcisistica vorrebbe cancellare il tabù della dipendenza dell’uomo dall’Altro. Il suo fantasma è partenogenetico, esclude ogni fecondazione dell’Altro. Il suo disegno è quello dell’auto-costituzione, dell’auto-fondazione, dell’auto-realizzazione. Mai nessun tempo come il nostro ha esaltato a dismisura la figura di Narciso come emblema di un soggetto che basta a se stesso, indipendente, autonomo. È una patologia non solo individuale. Narciso può, come nel mito di Ovidio, innamorarsi solo di ciò che gli assomiglia, solo della propria immagine ideale; egli non conosce l’alterità, non conosce l’amore come esposizione assoluta verso il dissimile. Il fantasma di autoconsistenza che governa la vita di Narciso ispira da capo a piedi il mito neo-liberale del “farsi un nome da sé”. Esso domina le nostre vite come una vera e propria forma pagana di idolatria. L’ideale seduttivo dell’auto-generazione vorrebbe negare ogni debito, ogni provenienza dall’Altro nutrendo la credenza folle dell’Io che basta a se stesso.
Tuttavia, il mito di Narciso non si limita a mostrare la potenza seduttiva dell’illusione di farsi un nome da sé, ma ne evidenzia anche il rischio mortale. Narciso vorrebbe cancellare la distanza che lo separa da se stesso, reintegrare il suo doppio che vede riflesso, negare quella divisione che attraversa tutti noi impedendoci di credere troppo al nostro Io. Nessuno di noi, infatti — salvo i grandi paranoici — può pensare di coincidere perfettamente con l’Io che crede di essere. Nel tentativo di realizzare questa coincidenza, Narciso perde la sua vita. Per questa ragione Lacan ha messo in evidenza il carattere profondamente suicidario del narcisismo umano: idolatrando la propria immagine, perseguendo il sogno onnipotente di cancellare l’alterità, il sogno di Narciso naufraga nell’abisso oscuro delle acque. Credere di essere un Io è, infatti, la malattia umana per eccellenza, la follia più grande, la forma più subdola e pericolosa di idolatria. Se la modernità ha segnato il tempo della giusta emancipazione dell’Io dagli oscurantismi irrazionali della superstizione, se la voce di Kant ha definito la stagione dei lumi come l’uscita necessaria dell’uomo dal suo stato di minorità, l’epoca ipermoderna, quella in cui viviamo, non ha forse trasformato l’Io stesso in un nuovo idolo pagano, altrettanto superstizioso di quelli che la ragione critica dell’illuminismo ha smascherato nella loro impostura? Bisognerebbe forse rileggere in questa luce un testo di immutata attualità com’è la Dialettica dell’illuminismo di Adorno e Horkheimer per cogliere sino in fondo la portata di questo ribaltamento epocale: l’Io si emancipa dalle ombre della superstizione religiosa per trasformarsi esso stesso in un’ombra altrettanto inquietante. Lacan lo diceva a suo modo: il problema non è più quello di distinguere la preda dall’ombra, di emanciparsi dall’ombra, ma di essere tutti noi prede della nostra stessa ombra. Narciso è l’ombra spessa di cui l’uomo ipermoderno è preda. La sua passione furiosa, la sua superbia capricciosa, vorrebbe annullare lo scarto che lo separa da se stesso negando ogni forma di dipendenza dall’Altro. Questa è la sua follia mortale che il nostro tempo ha elevato ad una sorta di nuovo comandamento sociale. Senza dimenticare però che le forme forse più nocive del narcisismo sono quelle passive, della falsa umiltà, del rigetto dell’ambizione, della vita schiva, ma avvelenata. Si tratta, in realtà, solo del retro di una stessa medaglia: lo sguardo torvo del risentito — scolpito magistralmente da Nietzsche ne La genealogia della morale — odia la vita capace di realizzarsi invocando l’umiltà e il nascondimento solo come segni grigi della sua impotenza rabbiosa. In essa dimora più che mai lo spettro narcisistico che anima, al suo fondo, ogni forma di invidia umana. 

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