lunedì 8 febbraio 2016
Carlo Rovelli nell'Africa che ha fame
Con una
Peugeot color sabbia nella sabbia dei villaggi dove i bambini e le
bambine sono felici di andare a scuola e in moschea può entrare un ateo
Viaggio dalla quiete di un istituto di matematica alla savana dove si pesta il miglio nei mortai
Senegal: un’umanità abituata ad aspettare sempre
La parola «ora» va tradotta con «prima o poi»
di Carlo Rovelli Corriere La Lettura 31.1.16
Oggi ho deciso di lasciare l’ambiente confortevole dell’Istituto di
matematica dove sto passando qualche settimana, e andare a vedere un po’
di Africa. Ho fermato un taxi collettivo lungo la strada, mi sono
schiacciato accanto a un paio di corpulente signore strette nei loro
vestiti sgargianti e sono arrivato nel centro di Mbour, in Senegal
(cento franchi africani: 15 centesimi di euro).
Prima di lasciare la costa e lanciarmi verso l’interno, ne approfitto
per vedere il mercato. È molto più vasto di quanto mi aspettassi. Una
distesa umana, formicolante, puzzolente, colorata e sudicia, che copre
un quartiere sterminato e continua sempre più densa fino sulla spiaggia,
dove decine di barche di pescatori riversano quintali di pesce che
finisce sparso ovunque. Un po’ a fatica mi sono tirato fuori da questa
marea umana dolente che non sembra mai sorridere e mi sono fatto portare
da un altro taxi fino all’unico incrocio stradale di Mbour: quello dove
la Route Nationale numero 1 si biforca dalla strada costiera e si avvia
verso il Mali. Prima meta il paese di Sandiara, una ventina di
chilometri all’interno.
Qualche contrattazione e trovo un’auto disposta a portarmi fino a
Sandiara per tremila franchi, due euro. Il paesaggio è una savana
squallida, costellata di baobab. Sandiara è un paesone. Un grosso
crocchio di persone si accalca attorno a qualcosa. Mi avvicino
discretamente e riesco a vedere anch’io. C’è un uomo seduto per terra.
Coperto di polvere e fango fino nei capelli. L’aria stralunata e
disperata. Le mani legate dietro la schiena e i piedi legati. Lo sguardo
a terra. La folla gli vocia intorno e lo guarda commentando. Un ragazzo
mi spiega che è matto. Poi si corregge: è un «assassino». Arrivano
altri particolari: ha pugnalato qualcuno. E adesso? Ora lo porteranno al
paese vicino.
«Ora» in Africa è un termine vago che si traduce più precisamente in
«prima o poi». Non c’è nessuno in divisa, solo la piccola folla che
guarda e commenta, non succede nulla. L’uomo mi fa pena. Ha un’aria più
che disperata. Piuttosto annientata. Come se avesse ceduto completamente
a questa folla e questi sguardi su di lui. Mi rendo conto che, come
unico bianco per almeno diverse decine di chilometri intorno, non c’è
molto di utile che io possa fare. Giro un po’ per le strade di sabbia
del paese, guardando i bambini che giocano, i fabbri, la piccola
moschea, la sporcizia che copre ogni cosa, e poi torno alla strada e
trovo un bus collettivo che mi porta al paese successivo, Tiadiay.
Compero un pane da una delle innumerevoli piccole venditrici che
brulicano in ogni strada d’Africa e mi avvio per una laterale che mi
dicono essere la direzione di Sao. Sao l’ho scelto per il nome. Mi
piaceva. L’ho visto sulla carta. È fuori dalle strade maggiori, non
esageratamente lontano, e l’ho preso come meta.
Mentre mi incammino verso l’uscita del paese, un uomo con una tunica
gialla e la faccia sudata mi chiede dove vado. In generale diffido da
chi mi abborda, e da chi ha la faccia sudata, ma non posso neanche fare
troppo il prezioso. Dico che vado a Sao. Mi guarda con l’aria perplessa e
mi chiede: «Sao?». «Sì, Sao». Mi offre di portarmi in auto per tremila
franchi. Gliene propongo due, e mi fa segno di seguirlo verso un’auto. È
una vecchissima Peugeot giallastra ancora più scassata delle scassate
auto di Mbour. La portiera non si chiude, e per metà del viaggio Barri
(scopro che si chiama Barri) la tiene ferma con un braccio. L’altra metà
del viaggio insiste nel cercare di chiuderla aprendola e poi
sbattendola forte. Sempre invano.
Dopo diversi chilometri rallenta, accosta, si ferma e dice che bisogna
prendere una pista poco visibile sulla sinistra. Non dico niente anche
se ho un attimo di preoccupazione. Barri comunica poco e questo non mi
piace. Risponde a monosillabi fuori luogo. Per tentare una conversazione
avevo indicato le nubi nel cielo, chiedendogli se non siano inusuali
nubi in Senegal in gennaio. Risposta: «Il cielo». Non sembra
terribilmente sveglio e questo mi rassicura.
E poi arriviamo a Sao. Che è del tutto diverso da quello che mi
aspettavo. Mi aspettavo un altro paesone brulicante e nero di sporcizia.
Invece è uno sparso villaggio semivuoto, per lo più di capanne, che
costellano la sabbia della savana fra i baobab. Appena scesi ovviamente
accorrono i bambini con gli occhi spalancati come fosse arrivato un
disco volante. Arriva un vecchio, alcune donne. Non capiscono cosa io
voglia. Cerco di spiegare che sono curioso, vorrei fare un giro per il
villaggio, se a loro non dispiace. La cosa sembra loro molto strana. Si
offrono in moltissimi di accompagnarmi, di guidarmi. Il vecchio manda a
chiamare una giovane donna molto bella e mi dice che lei mi può
accompagnare. Se non fosse per il puritanesimo musulmano, mi sembrerebbe
un’offerta ambigua. Alla fine più che di un accompagnatore avrei
bisogno di qualcuno che mi tenga lontana la gente. Arriva festante un
ometto con un tamburo su cui picchia come un forsennato e tutti ridono e
battono le mani. Una ragazza accenna a ballare.
Mi spiegano che stanno battendo il miglio (danno per scontato che io
sappia che il villaggio vive grazie al miglio, e che io conosca già
tutto sulla coltivazione del miglio, ovviamente). Mi portano a vedere le
donne che lo battono con enormi pestelli di legno dentro grossi
recipienti di legno. Sono gli stessi pestelli in tutta l’Africa, ma ogni
volta che li ho visti pestano qualcosa di diverso. Chiedo quanta gente
vive nel villaggio e mi dicono che bisogna chiederlo alla scuola. C’è
una scuola! Chiedo di andare alla scuola e Barri, insieme a un ragazzone
molto scuro, gentile, che ci segue, mi guida verso la scuola,
attraverso la sabbia, le caprette e i baobab.
Non è lontana. Qualche baracca e qualche muro colore della sabbia.
Andiamo dal direttore che subito si affanna a spolverare una sedia del
suo studio per farmi sedere. È un uomo intelligente, appassionato,
dedito alla scuola, vivace e simpatico. Mi racconta dei programmi che
gli cascano addosso dall’alto (gli ultimi vengono dal Canada),
dell’insegnamento dell’arabo e della religione, delle difficoltà ma
anche della voglia di studiare di tutti i bambini e, ci tiene molto a
sottolinearlo, di tutte le bambine. L’ambiente è buono, l’Africa — mi
dice sorridente — è così: un disastro sempre ma sempre euforica. Solo un
cenno di sfuggita ai bambini «che qualche volta non sono attenti perché
a casa non hanno abbastanza da mangiare». Parla con umiltà ma con
consapevolezza dell’importanza capitale di quello che lui e gli altri
quattro insegnanti della scuola fanno e cercano di fare per queste
centinaia di bambinelli. Vorrei chiedergli di più sull’insegnamento
religioso dell’islam nella scuola primaria ma ho paura che sia un
argomento difficile; mi mostra gli orari dell’insegnante di arabo e
religione, più o meno un’ora la settimana. E ci sono bambini cristiani?
Si qualcuno — è la risposta — durante le ore di islam escono dalla
classe. Esattamente come in Italia, al contrario. Ho una stretta al
cuore per la stupidità umana, ma preferisco non parlare di questo.
Lo saluto e lo ringrazio molto, lui è felice dell’incontro,
visibilmente. Mi congratulo con lui. Poi prima di andarmene, gli accenno
che vorrei lasciare qualcosa per il materiale della scuola, i quaderni,
le penne eccetera, e gli chiedo se posso dargli degli euro. Gli lascio
una cifra cospicua. Lui chiama subito il suo assistente perché il
passaggio di denaro sia ben pubblico. Ci salutiamo con molta cordialità:
mi sembra quasi con commozione. Anche se non so perché. Barri, più
previdente di me, non se n’è andato. Altrimenti non so come sarei
ripartito da un villaggio sperso in una savana, dove l’unico mezzo di
trasporto che ho visto è un vecchissimo asino. Gli propongo di portarmi
verso nord, fino alla Route Nationale numero 2, quella cha va verso la
Mauritania. Da lì dovrei poi poter ritornare con trasporti pubblici.
Contrattiamo il prezzo a lungo e troviamo un ragionevole accordo.
Ripartiamo, con Barri che tiene sempre la portiera con la mano. È un
tragitto lungo, su una strada sterrata polverosa e diseguale. L’auto
sembra fatta solo di sabbia incrostata, ruggine e brandelli di antica
plastica, eppure, fra distese aride e sparsi desolati villaggi, continua
a camminare. Altre auto non ce ne sono. Guardo scorrere dal finestrino
spalancato (il vetro non c’è più) questo tratto d’Africa. Penso che la
maggior parte di noi umani vive più o meno come questi uomini, queste
donne e questi bambini impolverati, non come vivo io. Quelli strani
siamo noi, asserragliati e ben difesi nel nostro giardino di ricchezze e
pulizia. Alcune ore dopo arriviamo a Khombole e ritrovo il lerciume
nero dei paesi lungo le strade africane di passaggio, che però in
Senegal raggiunge vette che non ho visto neppure in India. Forse è un
effetto di risonanza fra Africa e Francia, il paese che, come dicono
qui, «ci ha colonizzato». Mi manca il coraggio di cibarmi di cose
preparate e mi accontento di arance, banane e pane. Cerco una via
laterale solitaria per mangiare all’ombra e in solitudine ma dura poco, e
in breve una ressa di bambini mi è intorno. Gioco con loro, faccio foto
e le mostro nello schermo della macchina fotografica. Le bambine
sorridono piene di vezzi. I bambini ridono e fanno i gradassi. Faccio
l’errore di regalare dei biscotti e poi devo andare via perché si
accapigliano per averne altri... Vedo un bus sconquassato e stracarico
che parte nella direzione giusta e lo prendo. Arrivo a Thies che è già
tardi e capisco che devo affrettarmi per non tornare a notte troppo
fonda. Un vecchio gentile, con un lungo pastrano bianco mi accompagna
alla gare routière , dove chiedo se c’è un bus per Mbour. C’è. Basta
sedersi e aspettare che arrivino altre persone che vogliano andare a
Mbour.
I trasporti in Africa funzionano così. Si aspetta. Ore. Seduti sul bus
fermo o su una pietra, fra l’immondizia e le mosche della gare routière .
Un intero continente passa un numero strepitoso di ore aspettando. Io
sono europeo, e ne approfitto per leggere. Mi sono portato un piccolo
libro che ho trovato nell’unico negozio della regione in cui c’era del
cibo che non avesse l’aria sudicia: non lontano dalla zona più turistica
di Mbour. È la storia di un giovane senegalese educato in una scuola
coranica prima dell’arrivo dell’istruzione europea, che poi viene
mandato alla scuola francese, arriva a Parigi e studia filosofia alla
Sorbona. È una storia triste, sull’esitazione fra mondi diversi, sullo
straniamento di essere africano in una cultura mondiale occidentale o
forse sullo straniamento di essere umani.
Quando finalmente il bus parte, dopo ore di attesa, sono già avanti
nella lettura, e l’Africa si è colorata delle inquietudini del libro.
Guardo la savana scorrere dal finestrino aperto. Vicino, delle capanne;
in lontananza, la sagoma nella bruma di un’industria. Arriviamo a Mbour
che è buio. Mbour è la metropoli; dopo una giornata nella vastità
dell’interno fa un effetto dantesco. Traffico violento lungo l’unica
strada asfaltata. Nuvole di polvere illuminate dai fari. Rumori, buio e
luci, confusione, odori, occhi spiritati della gente. Sembra
l’anticamera dell’inferno. Il bus arriva nella grande gare routière .
Scendo, compero delle arance, mi accorgo che il prezzo è raddoppiato per
il colore della mia pelle ma tutto sommato non mi spiace. Poi mi rendo
conto che la gare routière è proprio dietro la grande moschea rosa
confettino che ho visto di passaggio un paio di volte. Aveva sempre
l’aria chiusa, inarrivabile, e quando avevo chiesto al ristorante dove
ogni tanto qui vado a mangiare, tenuto dall’unico bianco che ho
incontrato nel paese, se potevo visitarla, mi aveva borbottato un mezzo
no. Ma ora c’è la gente che ne sta uscendo per la preghiera della sera.
Decido di provare a entrare. Male che vada mi diranno che non posso.
C’è una catenella che isola l’area della moschea, e al di là della
catenella c’è più calma. Arrivo alla cancellata. Chi esce si rimette le
scarpe. Mi levo i sandali zozzi, li prendo in mano e mi incammino nel
parco. Per terra c’è un soffice tappeto di finta erba. I fedeli stanno
uscendo, a frotte rade, come succede dalle chiese europee. Ma sono tutti
uomini. Pressoché tutti di una certa età o anziani. Mi stupisco: hanno
un’aria pulita, dignitosa, serena, calma. Mi salutano incrociandomi. In
molti mi sorridono. In questo paese si sorride pochissimo ma qui mi
sorridono. Mi chiedo che aspetto io abbia. Sono evidentemente in
condizioni di pulizia miserevoli dopo una giornata di viaggio, ho le
braccia scoperte, tutti hanno maniche lunghe, ho uno zainetto a spalle,
ho un cappellaccio di paglia chiaramente fuori etichetta. E ovviamente
ho una pelle bianca, bianca da fare luce, da queste parti. Ma mi
sorridono, mi fanno un cenno gentile. È chiaro che sono contenti di
vedere che sto andando alla moschea. Io temevo di essere cacciato o
guardato con astio...
Arrivo alla porta. Cautamente, così a piedi nudi come sono, entro,
faccio qualche passo guardandomi intorno. Un giovane si affretta verso
di me con l’aria preoccupata. Mi dice qualcosa che non capisco. È chiaro
che ho fatto qualcosa di sbagliato. Mi mostra le scarpe che ho in mano e
capisco: la regola non è di non entrare nella mosche con le scarpe ai
piedi: è di non portare comunque scarpe dentro... Esco subito dalla
porta e appoggio le scarpe fuori, dove ce ne sono altre. Faccio per
rientrare ma un uomo anziano si avvicina, mi sorride e dice qualcosa al
ragazzo che mi ha ripreso. Prende le mie scarpe, le mette in un
sacchetto di plastica scuro e le porta lui stesso dentro la moschea,
ridandomele in mano sorridendo. Io imbarazzato cerco di dirgli di no,
non ho paura che me le rubino, mi va benissimo lasciarle fuori... ma lui
sorride e anche il giovane sorride. Allora prendo le scarpe, li
ringrazio con lo sguardo e mi riavvio all’interno della grande moschea.
Sono senza parole, esistono posti al mondo dove più che le regole è
importante la gentilezza.
Sono oramai usciti quasi tutti. C’è ancora qualcuno ma lo spazio è vasto
e dà l’impressione di un grande vuoto. Di una grande calma. Di un
grande silenzio. Mi siedo per terra, sui tappeti, e appoggio la schiena a
un muro. Il contrasto con l’esterno non potrebbe essere maggiore. Fuori
c’è l’inferno, qui c’è il paradiso. Tutto è pulito, impeccabilmente
lindo. Sui muri, sulle colonne, c’è uno smalto bianco rilucente, nitido.
I tappeti hanno un dignitoso arabesco verde scuro e nero, sono
lunghissimi, semplici, eleganti, accoglienti. Distesi paralleli in file
regolari. La luce è diffusa ma chiara. Gli archi e le colonne alzano lo
sguardo e il cuore verso l’alto. Le poche persone ancora all’interno non
parlano sottovoce, come si usa fare nelle chiese: parlano normalmente
ma il loro tono di voce è calmo, quasi direi nobile. Non ci sono arredi,
sfarzi, ostentazione di ricchezze, immagini di agonizzanti in croce,
candele, oscurità, vecchi dipinti di facce stralunate, ori. C’è solo un
grande spazio di serenità. Di accoglienza. Qualcosa di umano,
terribilmente umano, dove il cuore del fatto di essere umano pare essere
il lasciarsi andare all’essenziale, all’assoluto. E d’un tratto mi
sembra di intravedere per almeno un momento il cuore a me nascosto di
quest’Africa qui. Quest’Africa sporca, povera, affannata, svogliata,
rissosa, bellicosa, caotica, maldestra, inelegante, che nasconde dentro
di sé, nel luogo che per me sembra il più inaccessibile, la dignità
serena di questi uomini, la meraviglia di questo spazio perfetto offerto
all’uomo perché possa essere pienamente se stesso, la pace del cuore.
Una pace del cuore profonda. E per un momento, a me, ateo convinto e
senza esitazione alcuna, sembra di capire cosa possa significare per
tanta gente l’abbandonarsi all’onnipotenza totale di un Dio che non è
padre ma è vero e completo Assoluto.
Esco con una grande pace nel cuore. Forse sono solo semplici reazioni
fisiche a una giornata che fra il caldo, il viaggiare, la sete, gli
incontri e lo stress, è stata faticosa. Oppure forse ho imparato
qualcosa, una piccola cosa in più, di questa vasta complessità che è
l’umanità.
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