C’è una linea immaginaria eppure realissima, una ferita non chiusa, un luogo di tutti e di nessuno di cui ognuno, invisibilmente, è parte: è la frontiera che separa e insieme unisce il Nord del mondo, democratico, liberale e civilizzato, e il Sud, povero, morso dalla guerra, arretrato e antidemocratico. È sul margine di questa frontiera che si gioca il Grande gioco del mondo contemporaneo. Questa soglia è inafferrabile, indefinibile, non-materiale: la scrittura vi si avvicina per approssimazioni, tentativi, muovendosi nell’inesplorato, là dove si consumano le migrazioni e i respingimenti, là dove si combatte per vivere o per morire. Leogrande ci porta a bordo delle navi dell’operazione Mare Nostrum e pesca le parole dai fondali marini in cui stanno incastrate e nascoste. Ci porta a conoscere trafficanti e baby-scafisti, insieme alle storie dei sopravvissuti ai naufragi del Mediterraneo al largo di Lampedusa; ricostruisce la storia degli eritrei, popolo tra i popoli forzati alla migrazione da una feroce dittatura, causata anche dal colonialismo italiano; ci racconta l’altra frontiera, quella greca, quella di Alba Dorata e di Patrasso, e poi l’altra ancora, quella dei Balcani; ci introduce in una Libia esplosa e devastata, ci fa entrare dentro i Cie italiani e i loro soprusi, nella violenza della periferia romana e in quella nascosta nelle nostre anime: così si dà parola all’innominabile buco nero in cui ogni giorno sprofondano il diritto comunitario e le nostre coscienze. Quanta sofferenza. Quanto caos. Quanta indifferenza. Da qualche parte nel futuro, i nostri discendenti si chiederanno come abbiamo potuto lasciare che tutto ciò accadesse.Quella parola indica una linea lunga chilometri e spessa anni. Un solco che attraversa la materia e il tempo, le notti e i giorni, le generazioni e le stesse voci che ne parlano, si inseguono, si accavallano, si contraddicono, si comprimono, si dilatano.
giovedì 14 gennaio 2016
Frontiere oggi: un reportage
Risvolto
C’è una linea immaginaria eppure realissima, una ferita non chiusa, un luogo di tutti e di nessuno di cui ognuno, invisibilmente, è parte: è la frontiera che separa e insieme unisce il Nord del mondo, democratico, liberale e civilizzato, e il Sud, povero, morso dalla guerra, arretrato e antidemocratico. È sul margine di questa frontiera che si gioca il Grande gioco del mondo contemporaneo. Questa soglia è inafferrabile, indefinibile, non-materiale: la scrittura vi si avvicina per approssimazioni, tentativi, muovendosi nell’inesplorato, là dove si consumano le migrazioni e i respingimenti, là dove si combatte per vivere o per morire. Leogrande ci porta a bordo delle navi dell’operazione Mare Nostrum e pesca le parole dai fondali marini in cui stanno incastrate e nascoste. Ci porta a conoscere trafficanti e baby-scafisti, insieme alle storie dei sopravvissuti ai naufragi del Mediterraneo al largo di Lampedusa; ricostruisce la storia degli eritrei, popolo tra i popoli forzati alla migrazione da una feroce dittatura, causata anche dal colonialismo italiano; ci racconta l’altra frontiera, quella greca, quella di Alba Dorata e di Patrasso, e poi l’altra ancora, quella dei Balcani; ci introduce in una Libia esplosa e devastata, ci fa entrare dentro i Cie italiani e i loro soprusi, nella violenza della periferia romana e in quella nascosta nelle nostre anime: così si dà parola all’innominabile buco nero in cui ogni giorno sprofondano il diritto comunitario e le nostre coscienze. Quanta sofferenza. Quanto caos. Quanta indifferenza. Da qualche parte nel futuro, i nostri discendenti si chiederanno come abbiamo potuto lasciare che tutto ciò accadesse.Quella parola indica una linea lunga chilometri e spessa anni. Un solco che attraversa la materia e il tempo, le notti e i giorni, le generazioni e le stesse voci che ne parlano, si inseguono, si accavallano, si contraddicono, si comprimono, si dilatano.
C’è una linea immaginaria eppure realissima, una ferita non chiusa, un luogo di tutti e di nessuno di cui ognuno, invisibilmente, è parte: è la frontiera che separa e insieme unisce il Nord del mondo, democratico, liberale e civilizzato, e il Sud, povero, morso dalla guerra, arretrato e antidemocratico. È sul margine di questa frontiera che si gioca il Grande gioco del mondo contemporaneo. Questa soglia è inafferrabile, indefinibile, non-materiale: la scrittura vi si avvicina per approssimazioni, tentativi, muovendosi nell’inesplorato, là dove si consumano le migrazioni e i respingimenti, là dove si combatte per vivere o per morire. Leogrande ci porta a bordo delle navi dell’operazione Mare Nostrum e pesca le parole dai fondali marini in cui stanno incastrate e nascoste. Ci porta a conoscere trafficanti e baby-scafisti, insieme alle storie dei sopravvissuti ai naufragi del Mediterraneo al largo di Lampedusa; ricostruisce la storia degli eritrei, popolo tra i popoli forzati alla migrazione da una feroce dittatura, causata anche dal colonialismo italiano; ci racconta l’altra frontiera, quella greca, quella di Alba Dorata e di Patrasso, e poi l’altra ancora, quella dei Balcani; ci introduce in una Libia esplosa e devastata, ci fa entrare dentro i Cie italiani e i loro soprusi, nella violenza della periferia romana e in quella nascosta nelle nostre anime: così si dà parola all’innominabile buco nero in cui ogni giorno sprofondano il diritto comunitario e le nostre coscienze. Quanta sofferenza. Quanto caos. Quanta indifferenza. Da qualche parte nel futuro, i nostri discendenti si chiederanno come abbiamo potuto lasciare che tutto ciò accadesse.Quella parola indica una linea lunga chilometri e spessa anni. Un solco che attraversa la materia e il tempo, le notti e i giorni, le generazioni e le stesse voci che ne parlano, si inseguono, si accavallano, si contraddicono, si comprimono, si dilatano.
È la frontiera.
Saggi. Con un reportage narrativo Alessandro Leogrande, in «La frontiera», racconta il sogno rivoluzionario di conquistarsi una nuova vita altrove, che spesso diventa un incubo
Giuliano Battiston Manifesto 14.1.2016, 0:03
Con La frontiera, appena pubblicato dalla casa editrice Feltrinelli (pp. 320, euro 17), Alessandro Leogrande si conferma uno dei nostri migliori giornalisti. Il libro è l’ultimo tassello di un lungo e consapevole percorso di ricerca e carotaggio, nel solco della migliore inchiesta sociale italiana, quella di Danilo Dolci, Guido Montaldi, Camilla Cederna, Corrado Stajano, contaminata con i contributi dei numi tutelari della non fiction americana, da Truman Capote a William Langewiesche. Le ambizioni sono le stesse, ieri come oggi, in Italia come negli Stati Uniti: raccontare per capire meglio. La frontiera arriva dopo altri libri importanti dello stesso autore, tra cui Uomini e caporali (Mondadori 2008), un viaggio tra i nuovi schiavi nel tavoliere delle Puglie, e Il naufragio (Feltrinelli, 2011), sui profughi albanesi uccisi il 28 marzo 1997 in seguito allo speronamento della nave Kater i rades da parte di una corvette della marina italiana.
Ne La frontiera Leogrande affronta un tema già battuto dalla pubblicistica, le migrazioni verso l’Europa. Racconta le storie di chi, per necessità o per scappare «da una vita non vissuta», lascia il proprio paese e costruisce una nuova vita, altrove. Ciò che lo distingue dai volumi sullo stesso argomento, oltre alla capacità di tenere insieme ricerca documentaristica e narrazione, è il metodo. Leogrande narra e mette in ordine il «cosa» e il «come»: la mobilità delle frontiere, le risposte istituzionali, le strategie con cui i migranti sovvertono ed eludono gli apparati repressivi degli Stati-nazione, il razzismo di casa nostra e quello di Alba Dorata, gli esempi di resistenza virtuosa, le associazioni e i singoli che si battono per la dignità di tutti, le storie di chi ce l’ha fatta e le tante speranze letteralmente naufragate nel mar Mediterraneo. I sommersi e i salvati.
Ma l’obiettivo è un altro. Comprendere la motivazione. È la lezione dei migliori interpreti del giornalismo narrativo, quel genere al quale è stata finalmente riconosciuta dignità letteraria con l’assegnazione del premio Nobel alla scrittrice Svetlana Aleksievic. «Il giornalismo vero è quello intenzionale», ricordava spesso il reporter polacco Ryszard Kapuscinski. Il giornalismo che punta a qualche forma di cambiamento. E che per farlo parte da una domanda semplice e insieme complessa: perché?
Se «riduciamo il popolo del peschereccio affondato al rango di vittime», ci allontaniamo dal contesto. Senza contesto svaniscono i corpi, inghiottiti dalla retorica; evaporano le biografie, ridotte a statistica; sfuggono le cause e le responsabilità, trasformate in destino. Ma dietro ogni naufragio, dietro ogni viaggio finito male, ricorda Leogrande, non c’è nulla di fatale, di ineluttabile, di naturale.
Ci sono le storie individuali e c’è la grande storia. C’è un groviglio di ambizioni, ideali e illusioni, intrecciati con i grandi avvenimenti e le trasformazioni della politica, della società, dell’economia. Tenere insieme i piani, dare conto degli intrecci, del modo in cui ogni fattore condiziona e alimenta l’altro e ne viene a sua volta condizionato, non è facile. Per farlo, Leogrande sceglie di partire proprio dai naufragi, perché sono buchi neri che vanno illuminati, chiedendo «di essere sottratti all’oblio», ma soprattutto perché gli approdi via mare sono i «sismografi» dei cambiamenti in corso. Nel «sommovimento del mondo», nella mutevole mappa delle frontiere tra nord e sud del mondo, che ridisegnano incessantemente se stesse, i naufragi e gli approdi sono tra le poche coordinate di riferimento.
Così, l’attenzione riservata al naufragio del 3 ottobre del 2013, quando a pochi metri da Lampedusa è affondata una barca carica di migranti, serve a restituire voce alle 366 vittime accertate e ai pochi sopravvissuti, agli eroi ordinari e ai familiari che pretendono un corpo e una tomba su cui pregare, ma serve anche ad aprire una finestra sul contesto di provenienza di chi viaggiava su quella barca. Le pagine sull’Eritrea, filtrate attraverso le voci degli esuli e dei rifugiati, delle tracce inseguite e dei «giornali di Gabriel», in un andirivieni continuo tra il presente e il passato, tra il corno d’Africa e la Roma imperiale, sono le più belle del libro.
Leogrande racconta un sogno rivoluzionario che si fa incubo, le promesse tradite, la graduale trasformazione del Fronte popolare di liberazione nella dittatura di Afewerki. Ma rincorre anche i fantasmi coloniali, ricordando che molti campi di concentramento in cui oggi il regime di Afewerki rinchiude oppositori e dissidenti sorgono negli stessi luoghi dei campi di concentramento italiani. Quanto accade in quei campi rasenta il grado zero della violenza, come nel Sinai, dove i migranti vengono sequestrati e spesso torturati e «l’orrore si sprigiona assoluto, indifferente, banale sui nudi corpi, a migliaia di chilometri dai riflettori che possano illuminarlo».
La frontiera non è solo un libro sull’orrore. Ci sono storie di resistenza, come quella della «strana coppia», l’attivista eritrea Alganesh Fessaha e l’imam salafita Mohammed Abu Bilal, entrambi impegnati nella liberazione dei migranti sequestrati nel Sinai. Ci sono storie di partenze e di ritorni, come quella del kurdo iracheno Shorsh, che in Alto Adige/Sudtirolo impara la grande lezione di Alex Langer, sul «tradimento» della propria identità come strumento di libertà e condivisione.
Ma l’orrore c’è. Fa parte della storia. Anche di quella dei nostri giorni. È il prodotto di scelte politiche, sulla cui legittimità dobbiamo interrogarci. E di cui dovremmo assumerci la responsabilità, come cittadini di quella Fortezza Europa che militarizza i confini e criminalizza chi sceglie di migrare. E le responsabilità sono anche di scrive. In particolare quando viene raccontato il dolore degli altri. «Come maneggiare la memoria e il dolore?» si chiede Leogrande. «Fino a che punto è lecito scavare, porre e porsi domande, interrogare i superstiti?» «Come farsi testimone dell’unicità di ogni ferita?».
Il confine, un luogo eccentrico
Saggi. Nel libro «La frontiera» di Alessandro Leogrande per Feltrinelli si ripercorre la storia di una linea immaginaria fatta di infiniti punti e attraversamenti. Senza mai rimuovere le ragioni vere che spingono a viaggi disperati
Angelo Ferracuti Manifesto 14.1.2016, 0:03
Alessandro Leogrande concepisce il lavoro della scrittura come una lenta ricomposizione di frammenti sconnessi, quanti ne servono per ricostruire un forte effetto di realtà con una idea massimalista di una narrazione della moltitudine. La frontiera, che chiude una trilogia iniziata con Uomini e caporali e proseguita con Il naufragio, si muove sullo stesso campo dei libri precedenti, con una coerenza tematica e stilistica molto rari negli scrittori della sua generazione, più attratti da una fiction sfibrata, logorata persino da un narcisismo stilistico. Questo libro, invece, sta dentro il proprio tempo come pochi, sceglie una forma, una modalità di racconto, che è quella più democratica di tutte, il reportage narrativo.
Leogrande tesse, monta e rimonta, intreccia e ricuce le tante storie della Storia tragica di un mondo altro che l’Occidente per tanti anni non ha voluto vedere, e di cui si è accorto solo quando gli aerei selvaggi sfondavano le Torri Gemelle, o il grand guignol dell’Isis scatenava il suo terrore su Parigi. Il pretesto, o anche il prototipo degli uomini e delle donne che l’autore narratore incontra quando ragazzo s’affaccia negli ambienti della sinistra romana è Shorsh, un profugo kurdo sfuggito nel 1997 dal regime di Saddam Hussein, che ritroverà nella Bolzano di Alexander Langer (la città italiana che simbolicamente rappresenta più di tutte l’idea di vivere il confine), uno dei molti che attraverso la loro testimonianza compiono nel racconto un doppio viaggio. Doppio perché appunto «la frontiera», questo luogo geografico, geopolitico, che è anche un immaginario mobile, sta in mezzo a due opposte traiettorie di due mondi nettamente separati, l’Occidente opulento e consumistico del parossismo capitalistico, e un Sud del mondo povero, dilaniato dai conflitti bellici e senza democrazia.
Questo luogo eccentrico, che nel titolo evoca gli spazi sterminati della fuga e del west, i vagabondi raccontati da Jack London come la Grande depressione, in realtà altro non è, così la descrive l’autore, che «una linea fatta di infiniti punti, infiniti nodi, infiniti attraversamenti. Ogni punto una storia, ogni nodo un pugno di esistenze. Ogni attraversamento una crepa che si apre. È la frontiera». I raccontatori che incontra nei modi kapuscinskiani, perché non si limita a descrivere ma vuole spiegare, ognuno dei quali illumina una geografia e vive sulla «linea d’ombra» di Conrad, sono il giovane somalo Hamid, il camerunense Yvan Sagnet, l’enigmatico Don Mussie, l’eritreo in fuga Syoum, scampato al naufragio di Lampedusa. Sì, perché quel tragico fatto è anche l’ossessione etica ma anche l’immaginario cupo che percorrono tutto questo libro che racconta innanzitutto il nuovo «popolo degli abissi» e le sue tante avventure, il più crudelmente romanzesco che esista.
Da una parte un mondo e popoli sempre più tecnologici dell’artificiale, e dall’altro quelli corporali di un mondo naturale vissuto nelle terre arse, nei deserti e, naturalmente, nei tanti mari e barche ai quali hanno affidano i propri destini. Per capire il perché di questi viaggi della speranza, ciò che l’informazione manipolata non ci permette di vedere, di sapere, l’autore ricostruisce narrativamente e nel modo più empatico «il contesto», ristabilendo un rapporto con le antropologie e la Storia, l’oggetto vero della rimozione, quello che dà senso e ci fa capire la scelta, spesso disperata, del viaggio. Anche Leogrande compie un vero e proprio attraversamento narrativo, perché queste vite di confine per esistere avevano «bisogno di incontrare un altro viaggiatore. Perché solo un altro viaggiatore può capire il peso delle parole che pronunceranno», spiega in un capitolo di intenti. La scrittura che il migliore dei nostri reporter utilizza in questo libro sullo stato del mondo è oggettiva, volutamente ed eticamente dimessa, evita e scansa la narrazione compiaciuta, non cede alla trappola della spettacolarizzazione del dolore. Invece recupera la pietas, ne fa uno stile, ridà dignità a queste vite dei molti dannati della terra, li accompagna con tenerezza, si mette in ascolto con quella «responsabilità fraterna» di cui parlò con severo ammonimento Papa Bergoglio durante il primo viaggio del suo pontificato a Lampedusa.
Così il ritorno delle frontiere spezza il sogno dell’Europa
di Paolo Rumiz Repubblica 25.1.16
NE
so qualcosa di frontiere che si fanno e si disfano. Sono nato a
Trieste, a uno sputo dalla Jugoslavia, e non basta. Come I figli della
mezzanotte di Salman Rushdie, son venuto al mondo la stessa notte in cui
la frontiera veniva tracciata attorno alla città. Era il 20 dicembre
del 1947, e i militari angloamericani con le truppe di Tito, tra una
long size e una slivovica, piantavano allegramente i paletti di
demarcazione mentre mia madre perdeva le acque. La nonna materna ci
aveva fatto il callo, e me ne raccontava di storie. Aveva imparato a
convivere con la tragicommedia proprio lì, sul confine più mobile
d’Europa. Senza mai muoversi da Trieste aveva cambiato sei bandiere:
austriaca, italiana, germanica, jugoslava, del Governo militare alleato e
dell’Italia democratica.
Da adulto mi sono tenuto in allenamento.
Di confini ne ho conosciuti abbastanza, quelli veri intendo, con la
polizia che ti guarda in cagnesco e ti porta via per ore il passaporto.
Con la vecchia “Jugo” inizialmente fu un affar serio. Ti perquisivano da
capo a piedi, e le Drugarice, le donne in divisa, mi mettevano paura.
Nel 1985 presi il Lubiana-Mosca e al confine con l’Ucraina, sotto un
nubifragio, l’intero treno venne sollevato su martinetti per
l’adattamento dei carrelli allo scartamento sovietico. Fu un’attesa di
sei ore, in mezzo a un mare di binari, con cani lupo e fasci di
fotoelettriche tipo Auschwitz. In compenso, nel dicembre del 1989, vidi
spalancarsi uno dei confini più duri del mondo, quelle rumeno, con le
facce di bronzo dei poliziotti lì a sorridere dopo avermi brutalmente
respinto 24 ore prima.
Una notte di primavera del 1991, con la
Jugoslavia in agonia, mentre dormicchiavo sul wagonlit per Belgrado,
miliziani croati salirono a bordo e passarono al setaccio il mio
bagaglio, facendo scendere alcuni serbi sgraditi a suon di bestemmie.
Era l’inizio della guerra dei Balcani. Ma l’Europa intera non aveva
pace, sulle frontiere era tutto un balletto di apri e chiudi. Due anni
prima, in Ungheria, avevo visto cadere il primo pezzo di Cortina di
Ferro, e a tutto avrei pensato allora, tranne che l’Ungheria, nel 2015,
sarebbe stata la prima a rimettere fili spinati sul suo confine. Nel
2001, il mitico Kyber Pass fra Pakistan e Afghanistan, sbarrato per via
della guerra con i Taliban, si sciolse un mattino come neve al sole
davanti a un interminabile convoglio di allegri mujahiddin armati fino
ai denti provenienti da Peshawar, che mi aprirono la strada per
Jalalabad.
Ho combattuto tutta la vita perché il confine attorno a
Trieste cadesse e, quando nel 2007 è stato abolito, ho fatto festa
grande. Siccome s’era pensato bene di abbatterlo la notte del suo
60esimo anniversario, e siccome quella data coincideva col mio
compleanno tondo, si fece baldoria fino all’alba assieme agli sloveni in
un’osteria per l’appunto di frontiera. Era un appartato passaggio
pedonale, e la gloriosa transenna bianco-rosso-blu fu tagliata a fette
in mezzo ai brindisi e distribuita come souvenir. Con che gioia noi
italiani, e ancora di più gli sloveni, new entry dell’Unione,
pronunciammo la parola «Europa»!
Il mattino dopo andai in soffitta
a rivedere il pezzo di filo spinato sovietico che la polizia ungherese
mi aveva consentito di portarmi a casa 18 anni prima e pensai che era
finita un’epoca.
Ora che le transenne tornano di moda e la
macchina dei reticolati si rimette in moto nel cuore d’Europa tagliando
perfino — in Istria — sentieri che avevo sempre percorso in libertà, ora
che l’euroscetticismo dilaga, non posso evitare rabbia e malinconia. Ma
come? Ci siamo dimenticati dei timbri, dei visti, dei tignosi
cambiavalute, delle dogane e dei treni fermi in mezzo alla campagna? Io
quella memoria non l’ho persa, e ricordo come piansi di felicità una
sera a Berlino, quando — sbarcato dall’aereo per la prima volta senza
esibire i documenti — mi sentii chiedere dal tassista “ Vier und zwanzig
euro, bitte”, come niente fosse, lì nel Paese del marco onnipotente. E
ancora mi commuovo, quando metto le mani in tasca e trovo spiccioli di
euro coniati da Paesi che fino al 1945 si erano combattuti.
Ma
dopo la rabbia, vengono le domande. Perché quelle linee ostinatamente si
riformano? Può essere spiegato solo col populismo o l’ondata migratoria
degli Esiliati?
Forse c’è qualcosa che non abbiamo capito di
quelle tracce divisorie spesso ereditate dall’antichità o dal medio evo.
Ripenso al confine di casa mia e ricordo che quando cadde, poco più di
sette anni fa, dietro la gioia si fece strada un senso di perdita, che
tentai di ricacciare perché inammissibile, indegno di essere
manifestato. Solo più tardi capii: con quella frontiera “porosa”, non
certo paragonabile con quelle sovietiche, se ne andava un elemento di
ordine del mio mondo. Qualcosa che, cadendo, mi faceva sentire più
esposto al peggio del Globale, ai rovesci di borsa, alle pandemie e alla
scomparsa dei luoghi.
Non volevo ammettere a me stesso che a
quella linea mi ero un po’ affezionato. Nell’inconscio, essa era la
garanzia che “quelli dell’altra parte” restassero diversi da me, e io
come viaggiatore mi nutrivo di quella diversità. Non so che farmene di
un mondo-minestrone in cui tutti si somigliano e, specialmente oggi che
l’Europa scricchiola, mi rendo conto che ci manca una profonda
riflessione sui confini e sul loro valore anche simbolico, una
riflessione che vada oltre la retorica del Pianeta necessariamente privo
di asperità e di conflitti.
E qui, nel turbine dei pensieri, ce
n’è uno cui non posso sottrarmi. Se non ci sentiamo più protetti dai
muri esterni della casa comune, forse è anche perché una patria europea
non è mai nata. Né dentro né fuori di noi.
L’orlo stretto del mondo
TEMPI PRESENTI. Come può la scrittura restituire la complessità di una vita? Un’intervista con Alessandro Leogrande, scrittore e giornalista, a proposito del suo nuovo libro «La frontiera», edito da Feltrinelli, che giovedì verrà presentato al Maxxi di Roma
Alessandra Pigliaru Manifesto 20.9.2016, 0:05
«È la frontiera. Per molti è sinonimo di impazienza, per altri di terrore. Per altri ancora coincide con gli argini di un fortino che si vuole difendere. Tutti la mettono in cima alle altre parole, come se queste esistessero unicamente per sorreggere le frasi che delineano le sue fattezze». Linea immaginaria, concetto etico oltre che politico, bordo poroso, confine muto e più spesso intermittenza da cui si intravede la propria e altrui libertà, La frontiera (Feltrinelli, pp. 320, euro 17, recensito sulle pagine di questo giornale il 14 gennaio 2016, qui e qui) è anche il titolo di un volume tanto bello quanto terribile, composto con padronanza e grande sensibilità da Alessandro Leogrande.
Le storie raccolte sono diverse. Si può leggere di Hamid che ha 16 anni quando sopravvive al terribile naufragio davanti alle coste libiche che causa 650 morti. Nei tre anni precedenti quel 6 maggio del 2011, Hamid lavora a Tripoli, arrivato dalla Somalia per scampare alla miseria. La situazione politica cambia repentinamente ed è costretto ad andarsene. Le storie non sono una parentesi dell’esistenza ma la riconnotano interamente. Così la storia di Shorsh, curdo iracheno che intervalla tutto il libro e lega i vari capitoli con l’oscillazione tra visibile e invisibile. Oppure Aamir, che per primo e ancora ragazzino ha percorso la via balcanica. Tutte o quasi sono state raccolte alla scuola di italiano Asinitas di Roma. Non sono però interviste, sono invece conversazioni che si dipanano in carne viva.
Perché la frontiera?
Le ragioni sono molteplici. La parola «frontiera» domina la nostra comunicazione giornalistica, pubblica; eppure, se proviamo a spiegarla, ci rendiamo conto che non ha una definizione né una sua collocazione geografica precisa. Seguendo la cronaca degli ultimi anni vediamo che i punti di frontiera (se per frontiera intendiamo ciò che divide il mondo di qua dal mondo di là) sono stati costantemente ridefiniti, ridefinite le rotte e i punti di sutura. Penso che la frontiera nella sua fluidità, liquidità e difficile afferrabilità, sia davvero il paradigma del mondo contemporaneo. E di frontiere si ridiscute anche quando qualcuno pensa di arginare i flussi migratori alzando un muro. Al di là della sua immoralità, della poca efficacia, vi è qualcosa di straordinariamente vecchio nel muro, il fatto che si è convinti – per dire – che costruendolo a Calais o al confine tra Macedonia e Grecia, si possano azzerare i problemi. L’effetto più immediato è invece quello della costrizione e creazione di un assembramento – al di là del muro – che è l’esatto rovescio della nostra società. Nel concreto, per aggirare il muro, i viaggi diventano più pericolosi, costosi e complicati.
Lei ha deciso di scrivere il libro circa due anni fa, dopo il tragico naufragio di Lampedusa del 3 ottobre 2013…
Ciò che è confluito nel libro attraversa quindici anni di attivismo, volontariato, militanza politica sul fronte della migrazione. Per certi versi c’è anche un aspetto autobiografico che racconta una generazione, non nel senso anagrafico del termine ma di persone che qui in Italia, in Europa, hanno attraversato tutto questo, l’hanno interiorizzato e utilizzato per creare dei ponti e delle esperienze relazionali che negli anni si sono sedimentate. Il naufragio di Lampedusa ha costituito per me una spinta molto forte non solo nella decisione di raccontarnei i tratti, di incontrare i sopravissuti, di rimettere a posto gli eventi ma di un’analisi politica nel momento in cui mi sono accorto che su 368 morti, 360 erano eritrei.
Cosa ne ha evinto?
Mi risulta che la dimensione della questione eritrea, che è una questione politica, sia stata assolutamente eliminata dal dibattito pubblico o comunque molto ridimensionata, salvo dal «comitato 3 Ottobre». Mi è parso che in quel caso abbiano agito due rimozioni: quella del passato coloniale ma anche la profonda ignoranza del presente dell’Eritrea. Se non ne sappiamo niente non discutiamo di quella dittatura. Questo punto, a sinistra, ci dovrebbe riguardare perché quella dittatura è della generazione della guerra di liberazione nazionale. Il Fronte Popolare di Liberazione Nazionale che ha condotto una guerra eroica contro l’occupazione etiopica è stato laico, socialista, fondato sulla parità uomo/donna, pieno di ex studenti e di operai che avevano organizzato una guerriglia contro l’esercito etiopico, un esercito forte, il secondo esercito del continente, appoggiato dall’Unione Sovietica. Ebbene, quel fronte socialista nel momento in cui ottiene l’indipendenza del paese nel giro di pochissimi anni, seguendo la più classica delle logiche staliniane, cioè degenera e scivola verso una dittatura; si instaura il tribunale speciale, l’istituzione del servizio militare obbligatorio a vita, il ricorso al gulag, all’eliminazione di qualsiasi forma di opposizione politica, è questo che crea l’esodo eritreo ed è una questione politica. Invece ho rilevato come vi siano stati degli ostacoli nel caso di quel naufragio, per esempio la mancata riflessione sul fondamento della decolonizzazione e l’assenza di sguardo politico. A mio avviso è qualcosa che ha funzionato riguardo la vicenda eritrea ma può essere esteso all’immigrazione in generale.
Quali sono le narrazioni che si mettono in atto?
Vi è la narrazione da addetti ai lavori quindi se c’è una questione di immigrazione e arrivano delle persone, dobbiamo discutere su come sono i centri d’accoglienza, quella giusta, la mediazione. Sono tutte cose sacrosante, sia chiaro, ma non è il punto. Altrimenti si fornisce una narrazione che poggia su un discorso vagamente umanitario; allora arrivano dei poveri cristi e vanno protetti come se fossero degli infanti che non hanno voce. Entrambe queste descrizioni eliminano l’elemento politico che è quello delle cause della partenza, del perché scappano, perché arrivano in un barcone rischiando di morire dopo aver attraversato il deserto. Domandarselo è essenziale. Infine vi è l’avversione nei confronti delle cause. Analizzare quelle cause in relazione sempre all’Eritrea, alla Siria, alla Somalia è fondamentale ma generalmente non viene fatto. Questa cecità ci impedisce di cogliere l’esodo per quello che è, ovviamente nelle cause che sono diverse da paese a paese e che sono molto complicate. Se quindi è vero che vi sono responsabilità occidentali attinenti al colonialismo e al neocolonialismo, ci sono anche a volte delle storie andate a male in Africa, nel Medio Oriente anche con delle responsabilità evidenti delle elite locali, dell’avvitamento dei gruppi dirigenti, dei governi. Insomma i viaggi sono il termometro del mondo, è come se fossero la punta dell’iceberg di quella che è la trasformazione in atto del gruppo di forze che si determina intorno alla frontiera, o anche intorno alle frontiere intese nel senso più dilatato possibile.
Raccogliere le storie può contribuire a ribaltare il punto di avvistamento?
Le vite sono complicate e allora dopo aver passato del tempo con delle persone che hanno deciso di raccontare la loro storia, l’hanno messa al centro della narrazione, consente di elaborare un intreccio che tenga presente come i viaggi partano da molto prima di Lampedusa. Durano molto, nello spazio e nel tempo, e questo rilievo spesso viene omesso o schiacciato: quanto lunga sia la vita, la parte del viaggio di chi si mette in cammino prima di arrivare a Lampedusa. Del resto, con l’immagine del barcone neghiamo la sua dimensione umana. E questo tratto profondamente deumanizzante arriva direttamente nel nostro sguardo. Ciò detto, dobbiamo avvicinarci il più possibile alla condizione di chi guarda la nostra costa dal barcone ma non credo di poter entrare nel corpo di un eritreo, tanto giornalismo si fonda sul travestitismo, qua c’è una procedura neocoloniale nel voler dire e descrivere il colonizzato. Lo sguardo su di lui non è mai innocente. C’è un procedimento empatico che ci permette di avvicinarci, una strategia dell’incontro che diventa strategia narrativa. Per esempio, il momento giusto per raccogliere una storia è distante dal dramma del naufragio. Le storie che sono presenti nel libro le ho raccolte all’interno della scuola di italiano Asinitas a Roma dove peraltro avevo collaborato, in un contesto quindi di mutuo riconoscimento in cui possono nascere relazioni che solo poi producono confronti e racconti
A proposito di sguardo, il libro si conclude con un capitolo in cui riflette sul martirio di San Matteo di Caravaggio nella chiesa di San Luigi dei Francesi…
In quel quadro viene dipinta una mattanza, un carnefice, un sicario che arriva per uccidere Matteo, questo vecchio che sta a terra mentre prova a parare il colpo e l’altro con la spada lo uccide. Intorno si respira ciò che accadrebbe se ammazzassero uno qui all’improvviso, tutti scapperebbero, si ritrarrebbero impauriti. Da questo movimento verso l’esterno alle spalle del sicario c’è un uomo fermo che osserva quella scena ed è lo stesso Caravaggio. Quest’uomo ha uno sguardo empatico con la vittima, è dalla parte della vittima eppure non riesce ad arrestare tutto ciò che vede. Credo che l’impasse dello sguardo, straordinario per il modo in cui lo riprende Caravaggio nella sulla debolezza, ci restituisca anche la nostra fragilità e sia un po’ il paradigma di ciò che è il nostro sguardo nei confronti della mattanza del mondo. Anche quando è sinceramente simpatetico si dimostra e si scopre impotente. Ovviamente credo che sia proprio questa l’impotenza che va tematizzata e va combattuta. Anche in questo caso è una faccenda politica.
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