gadlerner martedì, 5 gennaio 2016
Simonetta Fiori la Repubblica, 5 gennaio 2016
L’autobiografia è un genere disseminato di trappole, che in pochi riescono a disinnescare. Certo non vi riesce Toni Negri nei fluviali mémoires in cui ripercorre la sua vita dall’infanzia in un Veneto molto povero fino all’arresto il 7 aprile del 1979 per «insurrezione contro i poteri dello Stato ». (Storia di un comunista, a cura di Girolamo De Michele, Ponte alle Grazie). Una storia lunga oltre seicento pagine che può essere letta come documento del narcisismo intellettuale di una generazione, quella dei cattivi maestri che oggi si volta a guardare le macerie lasciate alle spalle rimpiangendo la rivoluzione mancata. Mancata naturalmente non per oggettive responsabilità, ma per colpa del «troppo piombo rovesciato dallo Stato assassino».
Un’occasione mancata sembra l’ego-histoire di Negri, figura che continua a esercitare fascino in alcuni ambienti intellettuali nonostante le gravi responsabilità penali, politiche e morali accumulate nella stagione del terrorismo. Il ponderoso volume poteva essere un’occasione per ripercorrere (auto)criticamente la storia italiana, anche gli errori e le dissennatezze di quegli anni. Ma tra le pieghe della meticolosa ricostruzione è difficile imbattersi in un ripensamento autentico («i compagni delle Brigate Rosse», continua a scrivere quarant’anni dopo). E rari sono gli accenti di umana solidarietà per chi quella storia oggi non può raccontarla, per le vittime del terrorismo e per le loro famiglie spezzate, anche per i giovani perduti dietro un folle velleitarismo. Così come invano si cerca un accenno alle ricadute che la lotta armata ha prodotto nel nostro paese, negli assetti politici e nella capacità di cogliere i cambiamenti in atto nel mondo. L’autore è troppo preso dal raccontare il suo «assalto al cielo» per accorgersi di tutto il resto, pur nella ripetuta deprecazione dell’omicidio, principio ribadito in vari passaggi. E il libro restituisce minuziosamente il vortice del suo progetto intellettuale e pratico, tra toni autocelebrativi e un evidente compiacimento.
I primi capitoli raccontano l’infanzia e l’adolescenza segnate da un pervasivo sentimento di morte provocato anche dalla guerra. «Ogni percezione del mondo è affogata nel lutto», scrive Negri in pagine raggelate da un dolore profondo, alimentato dalla tragedia del fratello repubblichino morto suicida. In questo contesto spicca luminosa la figura dell’Aldina, la “mutter courage” che ne favorisce la fuga da una vita di stenti. Quello che segue, tra gli anni Cinquanta e Sessanta, è un percorso di tutto rispetto che lo mette in contatto con le energie migliori del paese – il cattolicesimo democratico, il movimento federalista europeo, la comunità olivettiana, la Normale di Pisa, le riviste operaiste, intellettuali della statura di Chabod, Bobbio e Garin. Un percorso di esperienze, studi e letture che lo conduce giovanissimo alla cattedra di Dottrina dello Stato – lui che lo Stato l’avrebbe voluto abbattere – e che forse rende ancora più inaccettabile l’approdo successivo al brivido del passamontagna esibito dal leader di Potere Operaio e poi di Autonomia. E anche l’accento commosso della rievocazione - «Perché un giovane che si presume intelligente, colto e più attivo che contemplativo si iscrive a Filosofia all’inizio degli anni Cinquanta? La risposta che mi do è: la ricerca della verità» - crea le premesse della biografia di un santo o di un profeta disarmato, non di un intellettuale condannato dal tribunale italiano per aver organizzato bande armate e per concorso morale a una rapina.
E nella ricostruzione degli anni Settanta colpisce che a distanza di quattro decenni il linguaggio resti inalterato - lo “Stato terrorista” e “i poliziotti assassini” – come una livida caricatura che invece di essere nascosta con vergogna viene impudicamente rivendicata. Però non manca l’inchino a Francesco Cossiga, ricordato come «uomo elegante, appassionato e critico» (una simpatia probabilmente favorita dal giudizio che Cossiga avrebbe espresso sulla sua condanna, «frutto di un «giustizialismo giacobino»).
L’autobiografia di Toni Negri è anche la storia di una vita intensa, di molti amori, di residenze confortevoli, di viaggi appassionanti, di incontri con il fior fiore dell’intellighenzia internazionale. Fu a casa di un aristocratico napoletano che imparò «l’esatta composizione delle bombe molotov ». «Una bellissima villa sulla costa sorrentina, piastrellata di Vietri e aperta a una vista straordinaria ». Perché un rivoluzionario, tiene anche a dircelo, non deve mai rinunciare a un buon stile di vita.
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