Fiamma Nirenstein - Mer, 27/01/2016
Un dispositivo di totem e tabù
Giorno della memoria. Nella celebrazione, si corre il rischio di affrontare un tempo senza storia. Facile quindi travisare, rimanendo stretti tra banalizzazione (tutto è Auschwitz), sacralizzazione (Auschwitz è tutto) e negazione (Auschwitz è niente)
Claudio Vercelli Manifesto 27.1.2016, 0:03
È come se una sorta di consenso di massima, veicolato attraverso una rigida procedura istituzionale, quella che aveva portato una quindicina d’anni fa all’istituzione del Giorno della Memoria con un’apposita legge, si fosse progressivamente indebolito, fino a ripiegare su se stesso. Ad alcuni, allora, poteva sembrare il punto d’arrivo di un lungo percorso di sensibilizzazione storica e civile; oggi a non pochi pare che ci si trovi dinanzi ad una cristallizzazione.
Le iniziative in corso d’opera sono e rimangono molte, soprattutto sul piano didattico, ma la stanchezza e, a tratti, i timori non solo di un approccio retorico bensì anche potenzialmente demotivante, comunque in sé confuso e ambiguo, sono non meno diffusi. In alcuni casi sopravanza un malcelato fastidio, spesso motivato dal fatto che ricordare un genocidio, secondo certuni, potrebbe servire a relativizzarne altri. C’è quindi chi ne denuncia l’inflazione, ossia la sua saturazione discorsiva che, ancora lievitando, pare slegare sempre di più i contenuti delle comunicazioni pubbliche rispetto alle originarie intenzioni. Dalla sensibilizzazione e dalla condivisione si passerebbe quindi all’ossessione. Non un diritto alla comprensione ma un dovere basato su una sorta di colpa quasi metafisica, creando un totem e un tabù contro i quali, prima o poi, qualcuno potrebbe scagliarsi, in un atto falsamente liberatorio.
Omissioni ad arte
C’è invece chi più puntualmente invita a riflettere sul concreto rischio del travisamento, attraverso il combinato disposto tra banalizzazione (tutto è Auschwitz), sacralizzazione (Auschwitz è tutto) e negazione (Auschwitz è niente). Tre possibili esiti inscritti dentro un campo ai cui estremi si pongono un tempo senza storia (quello del dolore perenne, non risarcibile, schiacciato quindi su un presente eterno) e della commemorazione intesa come rituale autosufficiente, basato sulla ripetizione degli stessi cliché.
Così facendo, l’impressione che se ne ricava è quella non tanto di una consapevolezza in divenire bensì di una sottile strategia di omissione, dove il ritornare a ciò che è stato potrebbe servire per evitare di affrontare quello che sta avvenendo. Non di meno, ed è altra questione tanto imperativa quanto non elaborabile con i tradizionali strumenti della mediazione culturale, la pervasività mediatica del tema, e la sua fortuna nell’immaginario collettivo europeo e americano, hanno decretato che, a fianco della ricerca storica e della riflessione storiografica, si accompagnassero, per poi spesso sostituirsi all’una e all’altra, fenomeni di uso spettacolare e drammatizzante.
Lo stesso può dirsi del determinarsi di un universo di significati del tutto decontestualizzati. Sussiste infatti un vero e proprio circuito di raffigurazioni che sembra oramai alimentarsi a prescindere dai fatti storici, assumendo una sorta di esistenza sua propria, all’interno dei prodotti di una subcultura pop che mischia deliberatamente le cose, deformandone i significati e facendo volutamente a meno di codici di comprensione che non siano quelli dettati da interessi di circostanza.
In campo politico, ad esempio, le cose paiono spesso funzionare così. Si ha allora a che fare con la presenza di un paradigma globalizzante, una sorta «cosmopolitan memory», dove l’intreccio, spesso caotico, tra istanze affettive, morali e civili rischia non solo di non rendere conto dei trascorsi ma di affaticare ancora di più la comprensione e la condivisione della nostra contemporaneità. Se ci poniamo in tale ottica, il fuoco della riflessione, quindi, non è più una peculiare vicenda storica bensì l’attuale uso pubblico del suo ricordo.
Le molteplici ricadute di quella memoria nel corso del tempo sono state differenziate, semmai stratificandosi in un complesso di parole, idee, immagini ma anche suggestioni che sempre più spesso si sono incontrate, per poi avvilupparsi, con il nodo dell’identità individuale e collettiva nell’età corrente. Non quindi di quanti vissero concretamente tempi così tragici, sopravvivendo ad essi silenziosamente, bensì di coloro che oggi ne rielaborano i significati, conferendo a se stessi una ragione d’essere civile e politica soprattutto in rapporto alla rilevanza che attribuiscono a quel passato. Il quale sembra inglobare e metabolizzare tanti altri passati. In realtà, come bene sanno gli studiosi, ci troviamo dinanzi al prodotto di una stagione culturale che prende le sue mosse con la fine degli anni Settanta, quando la testimonianza diretta di chi aveva vissuto quelle vicende iniziò ad assumere uno statuto e una rilevanza che precedentemente non gli erano state accordate.
Una tragedia fondativa
Esiste peraltro un sistema di binari a doppio scorrimento, con un tracciato per più aspetti parallelo, che mette in relazione la crisi del «paradigma antifascista» con l’emergere della centralità della Shoah. Mentre le fortune del primo si fanno decrescenti, non rendendo più conto del suo valore di elemento primario nella coesione sociale e politica, la seconda ne ricava per più aspetti un ruolo di supplenza, finendo con il divenire parte imprescindibile del bagaglio della cittadinanza democratica. Alla rilevanza dei vincitori, coloro che avevano annientato il nazismo e i fascismi, ricostruendo l’Europa e dando forma ad una nuova società pluralista, si sostituisce infatti quella delle vittime.
La Shoah, per alcuni aspetti, si emancipa dal suo stesso essere una tragedia ebraica (intrecciata con le politiche oppressive e persecutorie di altri gruppi bersaglio, praticate sistematicamente dal regime hitleriano e dai fascismi europei) per essere rivestita di una valenza assoluta, quella di elemento fondativo del modo in cui costituiamo e condividiamo uno sguardo morale sul mondo. Quanto meno nel campo occidentale poiché ben diverse sono le sensibilità in altri contesti. Non si tratta di un transito di poco conto poiché si accorda alle trasformazioni che attraversano l’ambito culturale e politico dei nostri paesi, laddove al declino dell’azione collettiva sembra sostituirsi una sorta di memoria proiettiva, fondata sull’identificazione sentimentale con i «vinti dalla storia». Un fatto, quest’ultimo, che conferisce all’inazione e all’impotenza un significato simbolico molto pronunciato. L’arco di tempo strategico è, d’altro canto, quello in cui viene deperendo il modello riformista di stampo socialdemocratico, praticato nell’Europa atlantica, come anche la residua speranza di una trasformazione radicale affidata ai processi di rivoluzionamento delle società.
Latitanza della politica
Il dispositivo della legge istitutiva del Giorno della Memoria recepisce e registra a distanza di tempo, per più aspetti del tutto inconsapevolmente, il formarsi e poi il diffondersi di questo fenomeno di scambio. Il rischio reale è che la memoria esemplare e paradigmatica di cui si fa carico sancisca definitivamente l’improduttività di quella letterale, basata non solo sul riscontro oggettivo dei fatti ma anche sulla capacità di coglierne la reale dimensione all’interno di una dinamica che sappia comparare, senza parificarle, le tragedie del passato per intervenire sugli orientamenti del presente. Alle spalle di tutto ciò c’è senz’altro anche l’ombra velenosa del conflitto israelo-palestinese. Ancora di più vale, tuttavia, quella rincorsa alla quale da molto tempo stiamo assistendo un po’ ovunque per assumere la veste di vittime per eccellenza, a suggello di un’identità collettiva che surroga, in tale modo, l’assenza della politica come azione per la trasformazione.
La vittima, infatti, non chiede diritti, domandando semmai risarcimenti. Il paradosso è che una memoria di tale genere, tanto più se istituzionalizzata, non solo rischi di trasformarsi in una retorica pubblica incapace di andare oltre la sua stessa autocelebrazione ma, in una eterogenesi dei fini, incentivi quei processi di disinvestimento dalla partecipazione alla sfera pubblica che, invece, vorrebbe contribuire ad arrestare.
Giorno della Memoria Un nuovo modo per insegnare storia e ricordo
di David Bidussa Il Sole 28.1.16
Il
Giorno della Memoria continuerà, anche nei prossimi anni, ma i suoi
protagonisti sono cambiati. Il 27 gennaio del 2016 è finito un ciclo
generazionale, e con questo è finito un modo di discutere, riflettere,
parlare, comunicare i contenuti di una lezione di storia. Da quando è
nato, il Giorno della Memoria ha costituito immediatamente una pratica
emozionale fatta di tre elementi fondamentali: il testimone oculare di
un tempo storico, un mediatore professionale, che di solito è un docente
di storia, un gruppo di adolescenti che ascolta un racconto.
Il
Giorno della Memoria, in qualche modo, ha avuto la stessa struttura
narrativa di come i vecchi di una società raccontano (raccontavano) ai
più giovani la storia della propria famiglia. E di solito, stando a
questo schema, i giovani sono disposti ad ascoltare un racconto che
vogliono ereditare.
La «Generazione Doppio Zero», cioè i ragazzi
nati nei primi anni Duemila, entrati nella scuola circa dieci anni fa, e
che oggi ne stanno per uscire, non sono più quel tipo di persone. Sono
altre. Hanno strumenti propri, linguaggi propri e un senso del passato
prossimo che glielo fa percepire come se fosse già un tempo molto
lontano. Soprattutto ascoltano le parole e i racconti di chi ha 60 anni
più di loro senza immediatamente capire un mondo: o sono travolti
dall’emozione oppure ne hanno talmente paura che la rifiutano. Una
generazione che noi (e dicendo «noi» includo tutti quelli che hanno più
30 anni), dobbiamo prima di tutto ascoltare. E se non riusciamo ad
ascoltarla, non riusceremo certo a parlare con questi ragazzi. O magari
loro non avranno interesse ad ascoltare noi.
Quello che è accaduto
o sta per accadere è semplice. Dobbiamo invertire il modo di
trasmettere la conoscenza del passato. Dobbiamo partire dalle domande,
dobbiamo sentire le loro emozioni e poi dobbiamo ricostruire le
riflessioni di un giovane; e aiutarlo in questo processo. Dobbiamo
umilmente ascoltare le sue incertezze, accompagnare anche i suoi
rifiuti, insistere sulle sue perplessità, capire che lì, in quei
rifiuti, in quelle perplessità, c’è una resistenza che nasce forse anche
dall’incredulità.
Quell’incredulità nasce da una prassi che noi
abbiamo avuto in questi 15 anni, importantissimi, di Giorno della
Memoria. Ovvero, per 15 anni, abbiamo detto e fatto un’operazione di
questo tipo: abbiamo detto “voi non sapete, questa storia ve la racconto
e voi la dovete imparare e costruirci una memoria”. In questo modo la
memoria è stata in qualche modo “autoritaria”, non aveva nulla di ciò
che chiedevano i portatori primi di questa storia, coloro che si sono
presentati come eredi di una vicenda e che raccontavano una controstoria
rispetto a quella ufficiale e che per questo doveva essere creduta come
vera; per le sofferenze avute e per il rispetto dovuto a chi quelle
sofferenze aveva dovuto sopportare.
Quindici anni dopo, quelle
storie, riascoltate passivamente, non sono più delle storie percepite,
che diverranno successivamente proprie. Diceva Freud che se vuoi
imparare qualcosa devi ripercorre un’emozione, devi fare un percorso non
tuo e farlo tuo. La «Generazione Doppio Zero» è nella stessa
condizione: si deve partire dalle sue emozioni, dalle incertezze e anche
dalle domande imbarazzanti. Dobbiamo favorire i giovani, lavorando con
pazienza, includendo tante fonti (musica, narrativa, film), per far sì
che l’inquietudine di queste vicende – che è l’inquietudine del loro
vissuto quotidiano (e spesso non ha la parola per essere raccontata) –
sia “comunicata”. Paradossalmente il Giorno della Memoria ha oggi nuovi
protagonisti: quelli che hanno meno di 20 anni che chiedono che quella
storia che fino ad oggi hanno ascoltato diventi un’esperienza
emozionale, con la quale fare un percorso. Per tanti anni abbiamo
pensato che fosse sufficiente leggere una frase di Levi, un testo di
Brecht, una poesia. Oggi, per capire il percorso di disperazione e un
vissuto conflittuale dobbiamo fare ancora di più. Dobbiamo capire cosa
accade nella testa di un ragazzo quando vede «Bastardi senza gloria», o
farlo riflettere sui un film come «L’onda». Non raccontargli il
totalitarismo ma farlo confrontare con una storia come quella del film,
che lo mette davanti al fenomeno concreto. Quelle scene parleranno ad un
adolescente meglio di un qualsiasi testo teorico. E dopo, forse, gli
faranno venire voglia di scavare, di leggere, di saperne di più. La
Generazione Doppio Zero va a cercare le immagini sul web e, se trova
stimoli, allora arriverà al libro. Il compito della mia generazione è
quello di non farli sentire in colpa di questo percorso. E ricordarsi,
magari,di essere curiosa di farlo a sua volta.
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