mercoledì 13 gennaio 2016
Il ritorno dell'aristocrazia (capitalistica) e della discriminazione censitaria alla fine della democrazia moderna
Trasmesso di padre in figlio, tra marito e moglie, tra fratelli Le nuove dinastie, un fenomeno mondiale tutto da studiare
Fabio Martini Stampa 13 1 2016
Fenomeno arcaico come il mondo, la trasmissione ereditaria del potere sembrava potesse diradarsi col tramonto delle casate e delle monarchie, e invece la tendenza alla familiarizzazione è riaffiorato e si sta approfondendo anche nei regimi dell’eguaglianza formale: le democrazie contemporanee. La trasformazione dei ruoli di comando come un «affare di famiglia» è fenomeno che oramai sta dilagando ovunque: padri, figli, sorelle, mogli e cugini di una unica «dinastia» si contendono il potere in Paesi di consolidata democrazia ma anche di più recente sviluppo. Quindi negli Stati Uniti ma anche nelle Filippine, in Canada e in Libano, in Francia e a Gibuti, in Iraq e in Giappone, con un proliferare ininterrotto di casi sempre nuovi.
Una tendenza che sta assumendo un carattere globale, qualcosa che somiglia a un capovolgimento valoriale: nel complesso un fenomeno finora analizzato in modo episodico - famiglia per famiglia - e che ora è invece sottoposto a uno studio più sistematico in una serie di saggi pubblicati sulla Rivista di Politica (Rubbettino editore): «Il potere del sangue». Studi preceduti da un saggio di Alessandro Campi, del quale uscirà in primavera un libro per Laterza, Democrazie dinastiche. La politica come affare di famiglia.
La trasmissione del potere per vie di sangue è ovviamente antichissima, ha origine con le prime forme di «governo», guidate dal
pater familias, o dal capo tribù; si «stabilizza» con le satrapie, i sultanati, le monarchie europee, esperienze nelle quali la creazione di dinastie diventa una necessità per le famiglie più potenti. E come ogni regime, anche l’autocrazia ha la sua particolare forma degenerativa: il nepotismo - la tendenza a favorire in modo spudorato e massiccio i familiari -, un fenomeno che prosperò in particolare tra i Pontefici romani, a partire dall’anno Mille fino al tardo Cinquecento e che, per essere contenuto, richiedette una bolla pontificia, la Romanorum decet pontificem, del 1692. Degenerazioni che sembrava naturale potessero essere riassorbite con i regimi democratici.
Scrive il professor Campi: «Nelle democrazie l’eguaglianza formale non è mai riuscita a scalzare le diseguaglianze sostanziali», ma è altrettanto vero che dopo la Seconda guerra mondiale, assumendo una dimensione autenticamente di massa, i regimi democratici sono diventati «un formidabile ascensore politico-sociale», al punto che «la figlia di un droghiere, Margaret Thatcher, è diventata il primo ministro della più antica democrazia parlamentare». Eppure, il carattere oligarchico-verticistico dei regimi democratici, individuato dalla sociologia politica italiana del primo Novecento, ha via via lasciato spazio a una nuova competizione, quella tra esponenti di diversi gruppi famigliari.
I nomi che saltano subito alla mente sono i più noti. I Kennedy, i Bush, i Clinton negli Stati Uniti; i tre Le Pen e i coniugi Hollande in Francia; i Trudeau in Canada; i fratelli Miliband in Gran Bretagna; i gemelli Kaczynski in Polonia; i Gandhi-Nehru in India; i Papandreou e i Karamanlis in Grecia; i Berlinguer, i Segni, i Gava, i La Malfa, gli Amendola in Italia, per non parlare delle tantissime dinastie nel mondo asiatico, in Indonesia, Filippine, Thailandia, Corea. Per certi versi un fenomeno che segna una novità storica, eppure poco studiata, con storici e politologi che si sono soffermati finora su singoli episodi, senza ricerche comparative.
Un primo approccio, quello avviato dalla Rivista di Politica dimostra una grande varietà di esperienze, sensibilità così diverse da parte di ogni popolo da far immaginare quasi delle vie nazionali alla familiarizzazione del potere. Sostiene Campi: «Questo è un fenomeno nel quale noi europei vediamo una sorta di neo-feudalesimo e una logica familistica, ma altrove viene vissuto con una percezione diversa: negli Stati Uniti è interpretato come la perpetuazione di talenti sociali di cui sono depositarie le famiglie e quindi il figlio, proseguendo l’attività politica del padre, deve dimostrare di essere all’altezza di una responsabilità sociale. Mentre in Asia, la grande presenza di “dinastie” guidate da donne non sempre corrisponde a un fenomeno virtuoso».
Nella vicenda storica dell’India, come scrive Fabio Leone, «la politica dinastica è stata spesso stigmatizzata come arcaica, ma invece la famiglia Nehru-Gandhi ha svolto un ruolo tutt’altro che frenante nei processi di indipendenza e democratizzazione», mentre al contrario, nel saggio sulle «leadership femminili in Asia», Francesco Montessoro dimostra un fenomeno opposto. L’importante ruolo svolto negli ultimi decenni dalle donne, dall’Indonesia al Pakistan, dall’India al Giappone, dalle Filippine al Bangladesh corrisponde a personalità «che sono state e sono quasi sempre le madri, le figlie o le sorelle dei capiclan, di leader tragicamente scomparsi. Una forma di eredità che implica un elemento “tragico” in senso classico», ma che non sempre corrisponde a una volontà soggettiva di emancipazione femminile.
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