Gotor: “Questi risultati aprono la strada al trasformismo”
I renziani: “Mancavano cinque senatori che avrebbero votato con noi”
I sì sono 180 ma la maggioranza è sotto quota 161. A favore anche due di Fi Renzi: “Il referendum dirà con chi sta il popolo”. Sinistra Pd in allarme
di Silvio Buzzanca Repubblica 21.1.16
ROMA. Centottanta sì. Centottanta senatori hanno votato a favore della riforma costituzionale che porta il nome di Maria Elena Boschi. Una riforma che Matteo Renzi ha voluto salutare ed esaltare presentandosi nell’aula di Palazzo Madama per replicare alle ore e ore di interventi e accuse che le opposizioni hanno rovesciato su di lui e la maggioranza.
Un risultato largo; 19 voti in più dei 161 richiesti dalla maggioranza assoluta prevista dall’articolo 138 della Costituzione per il secondo voto sulle riforme costituzionali. Ma politicamente pesano moltissimo i 17 voti arrivati dal gruppo verdiniano di Ala. A questi bisogna sommare 2 voti forzisti, Riccardo Villari e Bernabò Bocca e 3 voti delle senatrici di Fare, vicine a Flavio Tosi. E questo fa discutere, perché la maggioranza si è fermata sotto quota 161. Anche se Luca Lotti fa notare che nella maggioranza c’erano 5 assenti.
Miguel Gotor, minoranza dem, però guarda i tabulati. i voti di Ala, e dice: «Questi risultati aprono la strada a una stagione di trasformismo e annunciano una lunga palude in cui il Pd non può e non deve smarrire la propria identità riformista di forza di centrosinistra ». Dalla maggioranza dem rifanno i conti e dicono che per motivi vari mancavano cinque della maggioranza e quindi con loro il testo sarebbe passato lo stesso. Le opposizioni, invece, che hanno scelto di restare in aula rinunciando all’Aventino, si sono fermate a quota 112. Una sola astenuta, la senatrice a vita Elena Cattaneo.
Comunque l’obiettivo delle opposizioni ormai è il referendum. E quindi in aula qualche cartello, qualche brusio, ma niente di eclatante. Toni duri certamente: «Siamo chiamati a ratificare lo scippo ai danni dei cittadini», dice la senatrice Cinzia Bonfrisco, Conservatori riformisti.
Il referendum però, dicono voci insistenti, Palazzo Chigi starebbe tentando di anticiparlo all’estate, accorpandolo con le elezioni amministrative. Una missione che sarebbe stata affidata al segretario generale di Palazzo Chigi Paolo Aquilanti.
Nel frattempo Renzi esulta. Il premier si è presentato in aula per rivendicare il momento storico e lanciare il guanto di sfida sul referendum: «Andiamo a vedere da che parte sta il popolo su questa riforma, se i cittadini la pensano come coloro che urlano per il fallimento o per chi scommette sul futuro dell’Italia. Sono gli italiani il nostro punto di riferimento». Il premier ha anche ribadito che in caso di sconfitta è pronto a lasciare poltrona e politica.
I suoi sostenitori, invece, fanno pesare i loro voti. Centristi e alfaniani già pensano alle nomine nelle commissioni e al rimpasto di governo. Gli uomini di Verdini dicono che adesso bisogna rimettere mano all’Itali-cum. Perché i voti del premio di maggioranza, spiegano sono troppo pochi e non assicurano la governabilità. Ma forse il problema è trovare il mezzo più adatto per la loro affiliazione alla maggioranza. Si rifà viva anche la minoranza dem. Il senatore Federico Fornaro e altri colleghi hanno presentato una proposta per l’elezione diretta dei futuri senatori secondo i nuovi meccanismi costituzionali. Ma Fornaro avverte Renzi: abbiamo detto sì in aula, ma se non si fa presto questa legge, non è detto che noi votiamo sì al referendum.
Nell’aula di palazzo Madama, foderata come da decenni di velluto rosso e mogano chiaro, mancano pochi minuti al momento «storico», quello nel quale i senatori voteranno per la propria cancellazione e dunque il presidente del Consiglio sta intervenendo per provare a conferire solennità al passaggio. Dice Matteo Renzi, per una volta attingendo da appunti scritti: «La decisione di oggi non ha eguali nella storia delle istituzioni europee», «questo è il giorno che non doveva arrivare mai, questo è il giorno in cui nessuno credeva», «se il Senato è capace di superare se stesso significa che niente è impossibile per l’Italia», «la storia si occuperà di voi», «dopo anni di subalternità, la politica ha ripreso il primo posto». Il messaggio all’opinione pubblica, il lancio della campagna referendaria: «Sono gli italiani che chiameremo ai seggi, andremo casa per casa» e «sarà interessante vedere le facce gaudenti di oggi dopo il referendum, quando i cittadini con la riforma avranno detto da che parte stanno».
Ma il tono «alto» di Renzi - oramai replicato quasi ogni ora da due anni e su qualsiasi argomento - proprio nel giorno in cui era giustificato, non ha retto l’impatto con l’aula e anzi le continue ed irridenti interruzioni al presidente del Consiglio raccontano un fenomeno nuovo, finora mai sperimentato, una certa caduta nel carisma parlamentare del capo del governo. Come dimostra la sequenza che precede il voto finale. Dice il presidente del Consiglio: «Andiamo a vedere da che parte sta il popolo!» e il senatore Airola, dei Cinque Stelle: «Dai, non urlare». Ancora Renzi: «Nel caso in cui perdessi il referendum, considererei conclusa la mia esperienza politica!». Il senatore Nugnes: «Bravo, bravo!», con risate tra i banchi grillini e leghisti. Ancora Renzi: «Il mondo scout dice: Pongo onore nel meritare fiducia». Crimi: «Ti prego, dai!».
Alla fine del suo intervento Matteo Renzi viene salutato da un caldo e prolungato battimani che dura 30 secondi e a conclusione del dibattito, le previsioni della vigilia sono confermate: il ddl di riforma costituzionale è approvato dai senatori con 180 sì, 112 no e dunque con ben 19 voti sopra il quorum obbligatorio, fissato a quota 161. Se i sì, per quanto maggioritari, fossero restati sotto questo tetto, la riforma sarebbe stata bocciata. Ma la vigilia era trascorsa senza alcun pathos: oramai ai 158 senatori del Pd, dell’Area popolare (Ncd-Udc) e socialisti, Svp da tempo si aggiungono puntualmente, e anche stavolta, i senatori di Denis Verdini e di altri gruppetti a suo tempo eletti nel centrodestra, che nel loro complesso sono risultati determinanti. Senza i «transfughi», la storia riforma non sarebbe passata.
Ma di là della contabilità, l’indubitabile portata storica della votazione si è accompagnata ad una precisa volontà di Renzi, quella di lanciare la campagna referendaria. Con un approccio che è stato definito plebiscitario, perché in Costituzione è prevista la possibilità di ricorrere ad un referendum confermativo, ma con lo spirito di concedere questa opportunità a chi è contrario alle innovazioni costituzionali. Renzi invece lo «promuove» lui il referendum. «Chiameremo al voto gli italiani: questa è considerata una minaccia da chi non ha esperienza di voti popolare». E ancora: «Come è possibile andare al referendum sulla madre di tutte le riforme e non trarne le conseguenze?». E poi, in un crescendo di compiacimento: «Ci hanno dato dei dilettanti ma a me piace ricordare che i dilettanti hanno fatto l’arca di Noè mentre i professionisti hanno fatto il Titanic». E poi a voto concluso, il tocco di enfasi finale: «Oggi è il giorno in cui ciò che sembrava impossibile diventa possibile».
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