domenica 31 gennaio 2016
Il trattato di Plotino sulla felicità
La felicità in comune
Una nuova
edizione del filosofo Plotino, un saggio della psicologa Boniwell ma
anche il nostro continuo oscillare tra appagamento e privazione ci
portano alla radice del sentimento più desiderato: la condivisione del
Bene La ricerca conduce alla consapevolezza che non c’è nulla di meglio dello stare insieme. Leggere (e vivere) per credere
di Giorgio Montefoschi Corriere La Lettura 31.1.16
«Le famiglie felici si rassomigliano tutte. Ogni famiglia infelice,
invece, lo è a modo suo». È l’incipit di Anna Karenina , il romanzo di
Lev Tolstoj. Sarà vero? Chi lo sa! Ma perché la famiglia? Perché se è
vero che la felicità sta nella condivisione del Bene, nell’incontro,
insomma negli altri, è altrettanto vero che la famiglia, comunque essa
sia costituita, è un bell’inciampo, con il quale, volenti o nolenti,
dobbiamo fare i conti. Se ne parla tanto, in questi giorni di
«battaglie» e di raduni.
Ma prima rileggiamo Plotino, di cui esce il 23 febbraio una nuova
edizione del trattato Sulla felicità , curato da Mauro Bonazzi
(Einaudi). «Vivere bene — scrive il filosofo vissuto ad Alessandria nel
III secolo dopo Cristo —, essere felici: se li mettiamo insieme, non ne
faremo partecipi anche gli altri esseri viventi? Se infatti anche per
questi ultimi si dà la possibilità di condurre senza impedimenti la vita
che è loro propria per natura, perché negare che anch’essi si trovano
in una buona condizione di vita? In effetti, sia che uno ponga la vita
buona in una condizione di benessere, sia che la ponga nella
realizzazione compiuta della funzione propria, in entrambi i casi questo
vale anche per gli altri esseri viventi».
Nel suo libro, molto scientifico e da un côté strettamente psicologico,
soprattutto quando descrive i vari tipi d’amore, Ilona Boniwell ( La
scienza della felicità , il Mulino) gli sta da presso. In realtà i
Vangeli avevano anticipato tutti.
L’inverno di Tolstoj
Una volta, durante un inverno gelido, talmente gelido che non ci si
poteva togliere i guanti (né sopravvivere senza tirar fuori, a
intervalli sempre più ravvicinati, dalla tasca della pelliccia, la
bottiglia della vodka... sì, indossavo una pelliccia, di lupo,
prestatami dal professor Mario Levi), visitai a Mosca la casa di
Tolstoj. Una esperienza incredibile. Non tanto per l’emozione, che pure
ci fu, di stare in piedi dietro alla scrivania sulla quale lo scrittore
lavorava, guardando, attraverso i vetri, il parco avvolto nella neve
dell’ospedale psichiatrico che guardava Tolstoj (in quella stanzetta del
mezzanino nella quale aveva stabilito il suo studio — per umiliarsi,
certo, ultima dopo gli alloggi delle fantesche...); quanto per l’idea
folle di famiglia che si respirava in quel palazzotto confortevole, e
tuttavia ben diverso dai lussi della famiglia Rostov.
Entravi, e subito a destra dell’ingresso, c’era la sala da pranzo,
ancora apparecchiata perfettamente, come se i commensali dovessero
entrarvi da un momento all’altro. Poi, confinante con la sala da pranzo,
la camera da letto dei coniugi Tolstoj. Qui, oltre alla imponente stufa
maiolicata e al letto e al comodino, lo sguardo cadeva su un paravento.
Quello era il paravento dietro il quale, quando Sonja riceveva le
amiche, Lev si sedeva ad ascoltarle. Eppure, nei Diari , una volta
scrisse: «Stanotte ho sognato che mia moglie mi ama». Doveva sognarla la
vera felicità, prima di scappare dalla famiglia e andarsene a morire da
solo nella stazioncina ferroviaria?
L’appartamento di Scola
Ho amato un bellissimo film del 1987 di Ettore Scola intitolato La
famiglia , nel quale si raccontano le vicende di una famiglia della
media borghesia romana dal 1906 al 1986: ottanta anni. Il film si svolge
interamente in un appartamento tipico del quartiere Prati — identico
all’appartamento in cui viveva un mio amico sempre da quelle parti, nel
quale io avevo ambientato il mio terzo romanzo, La felicità coniugale
(un titolo, rispetto al quale, chi poi leggeva scopriva che il libro
raccontava tutto il contrario).
Sono appartamenti costituiti da un lungo corridoio sul quale si aprono
le stanze — quelle da letto, quella da pranzo, il bagno, il salotto — in
una sorta di democratica equiparazione dei locali: perché le porte sono
tutte uguali e abbastanza uguali le dimensioni delle stanze, e questo
significa che mangiare, dormire, fare l’amore, parlare, leggere dei
libri o il giornale hanno paritaria importanza e diritti, formano un
corpo solo ai due lati di quel corridoio che il regista non finisce mai
di esplorare con i suoi lenti, dolorosi camera-car.
Carlo, interpretato in maniera superba da Vittorio Gassman, è un
professore di lettere appena andato in pensione, ha una moglie adorabile
e alla quale vuol bene, interpretata da Stefania Sandrelli, un fratello
grullo (interpretato nello scorrere degli anni dai due Dapporto, padre e
figlio), la famiglia numerosa e bella. Ma è sull’orlo dell’età
difficile che anticipa l’autunno; i suoi occhi neri, inquieti, a tratti
si perdono; la felicità costruita con tanta perseveranza dentro quella
casa che molti possono riconoscere, sembra sparita. Finché un giorno,
dalla Francia, insieme al marito, ritorna la cognata di Carlo: nel film,
Fanny Ardant. Era una sua vecchia passione. La passione si riaccende. E
così scoppia il dramma. È una sofferenza. Ma come si amano, soffrendo —
tutti — ora che la felicità sembra sparita da quella casa.
Le chiacchiere dell’ospedale
Poco più di due anni fa, nel mese di novembre, fui ricoverato in tutta
fretta, con l’ambulanza, in un grande ospedale romano. Avevo ripetuto,
già sentendomi male, un capitolo dei Promessi sposi con mio nipote
Pietro: uno strazio. Poi, prima di entrare al concerto dell’Accademia di
Santa Cecilia, avevo vomitato due litri di sangue. Nell’autoambulanza
pensavo di morire. Passai al Pronto Soccorso con il codice rosso; mi
visitarono; mi misero in una stanzetta nella quale c’era un ragazzo
preoccupatissimo per il suo cuore; all’una di notte, visto che le cose
non andavano bene per niente, mi portarono in sala operatoria dove mi
fecero una gastroscopia e insieme cauterizzarono la ferita che m’ero
procurato per uno sconsiderato uso di antinfiammatori senza la
protezione dello stomaco. Uscito dalla camera operatoria infilarono il
mio letto-barella in una rientranza del corridoio nella quale di
continuo entravano e uscivano barelle. Alla mia sinistra avevo un
vecchietto mezzo moribondo; alla mia destra una cicciona che assisteva
la madre e non stava zitta un minuto («proprio adesso che me so’
comprata le scarpe nove e iscritta a ginnastica...»). Ero vigile. Non
avevo più paura di morire.
A un certo punto, non lontano da me, accanto alla parete, venne
sistemato il letto di una donna magrissima, con dei lunghi capelli
biondi, che un tempo doveva essere stata bella. La accompagnavano due
ragazze fra i trenta e i trentacinque anni, entrambe molto carine.
Stavano sedute accanto al letto, discrete, e a bassa voce — non tanto
bassa perché non potessi udirle — parlavano fra di loro, e con quella
che io stabilii subito che fosse la madre, alternando l’italiano a un
inglese perfetto.
Solo chi ha trascorso una notte in un Pronto Soccorso sa cos’è
quell’inferno: urla, lamenti, imprecazioni. Le due figlie facevano la
guardia. Anche a me. Perché in fondo al letto avevo il loden e siccome
sono uno che si muove parecchio, ogni tanto scivolava giù. Allora, una
delle due ragazze si alzava e me lo rimetteva a posto. Pensavo:
italiano, inglese, lei ex bella ora anoressica. Chissà che famiglia.
Forse c’è un ex marito inglese che ha fatto le due figlie e se l’è data a
gambe. O c’è un secondo marito? Loro vivono sole o con lei? Poi venne
l’alba: il momento del sollievo. E spuntò una terza figlia, diversa
dalle altre due (infatti avrei voluto scrivere un racconto intitolato
Tre figlie ) dicendo che aveva dormito benissimo e ora era il suo turno.
Ma proprio mentre lo diceva — e io allargavo la trama — arrivarono
degli infermieri e la madre, che intanto fumava una finta sigaretta, e
le tre ragazze passarono in un altro reparto. Mi dispiaceva, perché in
quella brutta notte interminabile eravamo stati insieme. E la felicità,
credo davvero, è stare insieme. Ora. E anche dopo, magari. Ma quello non
lo sa nessuno.
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