martedì 19 gennaio 2016
L'esplosione della disuguaglianza di classe e l'illusione di un capitalismo buono che si regola dall'interno
Si tratta di un articolo appartenente al genere letterario dell'utopia: si fa pensare che invece ci possa essere o ci sia stato un capitalismo etico, egualitario, ecc. ecc., laddove il miracolo del Welfare fu possibile solo grazie a una durissima lotta di classe fatta con le bombe atomiche [SGA].
Aumentano le disparità
supermiliardari possiedono quanto la metà più povera della popolazione globale Lo rivela un rapporto diffuso da Oxfam in vista del forum di Davos I62 padroni del mondo
di Enrico Franceschini Repubblica 19.1.16
LONDRA
UN GRUPPETTO di miliardari che potrebbero stare tutti in una stanza ha
un patrimonio più grande di quello della metà più povera della
popolazione della terra. Detto in cifre, 62 persone sono più ricche di 3
miliardi e 600 milioni di persone. È il dato più impressionante del
rapporto pubblicato ieri dalla Oxfam, una delle più importanti
organizzazioni umanitarie, sul gap tra ricchi e poveri nel nostro
pianeta. Il patrimonio dell’1 per cento più ricco della popolazione
mondiale ha superato nel 2015 quello del restante 99 per cento dei
terrestri, afferma il rapporto, fotografando una forbice di
diseguaglianza che si allarga sempre di più. E che riguarda anche il
nostro Paese: l’1 per cento più ricco degli italiani, secondo la stima
di Oxfam, possiede il 23,4 per cento della ricchezza nazionale.
L’evasione fiscale, in particolare la cosiddetta evasione legalizzata,
consentita da scappatoie nelle normative tributarie e dai paradisi
fiscali, viene indicata come una delle cause principali del fenomeno.
«Lo
scarto tra i super ricchi e il resto della popolazione si è accresciuto
in modo spettacolare negli ultimi dodici mesi», osserva il rapporto
intitolato
Un’economia al servizio dell’ 1 per cento. Usando la
classifica della rivista americana Forbes sui più ricchi della terra,
Oxfam ha calcolato che dal 2010 allo scorso anno i 62 super miliardari
in testa alla graduatoria, tra cui i giganti del web come Bill Gates di
Microsoft, Jeff Bezos di Amazon, Mark Zuckerberg di Facebook, Larry Page
di Google, e poi nuovi ricchi cinesi, sceicchi arabi, petrolieri russi
(e due italiani, Maria Franca Fissolo Ferrero, titolare dell’impero
della Nutella, e l’imprenditore di Luxottica Leonardo Del Vecchio),
hanno visto aumentare il proprio patrimonio collettivo di 500 miliardi
di dollari arrivando nel 2015 a un totale di 1.760 miliardi di dollari.
Nello stesso periodo, la ricchezza dei 3 miliardi e 600 milioni di
persone più poveri, ovvero metà della popolazione mondiale, è diminuita
di circa 1.000 miliardi di dollari, un calo del 41 per cento. Ricchi
sempre più ricchi e poveri sempre più poveri, un trend indicato anche da
un altro dato del rapporto: nel 2010 ci volevano i 388 più ricchi della
terra per ammassare un patrimonio pari a quello della metà più povera
della popolazione mondiale, nel 2011 ci volevano 177 ricchi, nel 2012 ne
erano necessari 159, nel 2013 ne bastavano 92, nel 2014 ne erano
sufficienti 80 e l’anno scorso appunto sono bastati 62 super ricchi a
pareggiare la bilancia con i 3 miliardi e 600 milioni di persone più
povere. La rosa dei più agiati, insomma, si restringe sempre di più.
Per
quel che riguarda il nostro Paese, il rapporto indica che l’1 per cento
più ricco degli italiani è in possesso di quasi un quarto della
ricchezza nazionale netta, una quota in assoluto pari a 39 volte la
ricchezza del 20 per cento più povero della popolazione. Lo studio di
Oxfam rileva inoltre che in Italia oltre la metà dell’incremento della
ricchezza è andato a beneficio del 10 per cento più ricco. «L’elusione
fiscale delle multinazionali ha un costo per i Paesi in via di sviluppo
stimato in 100 miliardi di dollari l’an- l’anno e per dare un’istruzione
scolastica a ogni bambino del continente nero.
L’allarme
sull’aumento della diseguaglianza non è una novità: rappresenta
l’aspetto centrale del bestseller dello scorso anno dell’economista
francese Tomas Piketty Il capitale nel 21esimo secolo.
Appelli ad
arginarla sono arrivati da papa Francesco e dalla direttrice del Fmi
Christine Lagarde. Allo stesso tempo, altri dati rivelano che la povertà
mondiale si sta riducendo: nel 2015, secondo cifre della Banca
Mondiale, è calata al suo minimo da quando si tengono simili
statistiche, scendendo a circa 700 milioni di persone, il 9,6 per cento
della popolazione globale, rispetto ai 900 milioni di persone in
condizioni di estrema povertà (condizione definibile come vivere con
meno di 1 dollaro e 90 centesimi al giorno) nel 2012. Dunque il gap
ricchi-poveri non è in contraddizione con una diminuzione della povertà
estrema: ma trasmette un segnale di ingiustizia che a sua volta produce
instabilità e secondo numerosi economisti minaccia la salute
dell’economia generale. Non a caso le cifre dimostrano no e ha un
impatto importante anche nei paesi come l’Italia», commenta Roberto
Barbieri, direttore generale di Oxfam Italia. «Il governo italiano può
agire per porre fine all’era dei paradisi fiscali, sostenendo a livello
nazionale e in Europa una serie di misure in tal senso». A questo scopo
il braccio italiano di Oxfam lancia la campagna “Sfida l’ingiustizia”,
per dire basta ai paradisi fiscali.
Non c’è dubbio che i paradisi
fiscali rappresentino un problema, come sottolinea un altro aspetto del
rapporto. Dal 2000 al 2014 gli investimenti mondiali offshore sono
quadruplicati: si ritiene che oggi 7600 miliardi di dollari di ricchezze
private siano depositate in “paradisi” dove sfuggono alla tassazione
nazionale. Se sul reddito generato da questa ricchezza venissero pagate
le tasse, i governi avrebbero a disposizione 190 miliardi di dollari in
più ogni anno. Oxfam stima che almeno un terzo della ricchezza
finanziaria dell’Africa sia nascosto in paradisi fiscali: la perdita di
14 miliardi di dollari di introiti basterebbe per creare strutture
sanitarie in grado di salvare la vita a 4 milioni di bambini africani
che i Paesi meno diseguali, come la Scandinavia, sono spesso i più
prosperi.
La Oxfam diffonde il suo rapporto alla vigilia del
summit di Davos, dove ogni anno si riuniscono i leader politici ed
economici della terra, per esortare la comunità internazionale a
intervenire. «È inaccettabile che la metà più povera della popolazione
del mondo possieda meno di un piccolo gruppo di super ricchi», afferma
Mark Goldring, presidente esecutivo dell’ong basata a Londra. «La
preoccupazione dei leader mondiali per l’aumento della diseguaglianza
non si è finora tradotta in azioni concrete». La Oxfam propone tre
iniziative: un giro di vite contro l’evasione fiscale, maggiori
investimenti nei servizi pubblici e salari più alti per i lavoratori a
basso reddito. «La diseguaglianza ha raggiunto livelli insopportabili »,
conclude Duncan Exley, direttore esecutivo dell’associazione. «Ormai è
noto che un vasto gap tra i ricchi e tutti gli altri fa male
all’economia e alla società. È necessario che i politici si sveglino e
affrontino questa pericolosa concentrazione di ricchezza e di potere
nelle mani di così pochi».
Ma quelle cifre sui patrimoni sono molto discutibili
di Ferdinando Giugliano Repubblica 19.1.16
Tra
i Paperoni in testa alla classifica, i giganti del web, ma anche due
italiani Una delle principali cause delle disuguaglianze è l’evasione
fiscale legalizzata
MISURARE LE diseguaglianze delle ricchezze è
un esercizio tanto affascinante quanto difficile. Nella maggior parte
dei Paesi del mondo non esistono infatti delle anagrafi patrimoniali, da
cui gli economisti possano attingere per calcolare questo tipo di
disparità. I dati sul reddito sono, invece, ben più semplici da trovare:
basta chiedere ai governi, che praticamente ovunque tassano i cittadini
sulla base di quanto guadagnano ogni anno.
Questo problema
metodologico ci deve rendere cauti quando ci avviciniamo a qualsiasi
studio che sostenga di aver registrato un nuovo record negli squilibri
patrimoniali tra l’ormai famigerato “1 per cento” e tutti gli altri. Dal
bestseller di Thomas Piketty, Il Capitale nel XXI secolo, che più di
ogni altro lavoro ha colto lo Zeitgeist egualitario della nostra epoca,
allo studio di Oxfam di questa settimana, non vi è ricerca che possa
dirsi immune da una sostanziale incertezza statistica.
L’ultimo
invito alla prudenza arriva da un lavoro di Luigi Guiso, professore di
economia all’Istituto Einaudi di Roma, e di tre suoi collaboratori,
presentato solo qualche settimana fa agli incontri di San Francisco
della American Economic Association, la più prestigiosa società
scientifica della disciplina.
Lo studio utilizza dati provenienti
dalla Norvegia, uno dei pochi Paesi del mondo a raccogliere informazioni
sia sul patrimonio sia sul reddito dei suoi cittadini. Questa
peculiarità permette a Guiso e colleghi di confrontare l’andamento
effettivo della diseguaglianza dei patrimoni con il trend che si ottiene
provando a ricostruire la ricchezza a partire dai dati sul reddito, una
strategia alternativa indiretta utilizzata in passato sia da Piketty,
sia da suoi collaboratori come Emmanuel Saez e Gabriel Zucman.
Lo
studio, di prossima pubblicazione per il National Bureau of Economic
Research, mostra come partire dai dati sui redditi possa portare a
sovrastimare le disparità. Per esempio, nel caso norvegese, si finisce
per attribuire all’1 per cento o al 5 per cento più ricco una quota del
patrimonio nazionale più alta di quella che realmente possiede. Altre
misure, per esempio quella relativa alla porzione di ricchezza dell’1
per mille più facoltoso, vengono invece sottostimate.
Non esistono
alternative perfette: le indagini campionarie, come quella condotta in
Gran Bretagna dall’Ufficio nazionale di statistica, tendono di solito a
minimizzare il gap. La ragione è semplice: i più ricchi tendono spesso a
mentire sulla reale entità del loro patrimonio, mentre i poveri sono
generalmente più onesti nel compilare il questionario.
Lo
scetticismo è pertanto d’obbligo, soprattutto quando si ha a che fare
con studi transnazionali come quello di Oxfam o che coprono lunghi
periodi storici come quello di Piketty. La diseguaglianza è un tema
troppo importante per essere ignorato, ma anche per essere discusso
tralasciando le difficoltà che esistono nel misurarla.
Costi molto alti gli italiani non si curano più
A lanciare l’allarme è il Parlamento. Un cittadino su sei rinuncia
alle terapie. E tra i poveri va ancora peggio Colpa dei reparti chiusi, dei medici che mancano. E dei ticket cresciuti del 20 per cento in pochi anni
di Roberto PetriniRepubblica 19.1.16
GLI
ITALIANI, CHE SECONDO un comune clichè sarebbero ipocondriaci e
ansiosi, stanno cambiando atteggiamento e hanno cominciato a trascurare
la propria salute. Colpa dei costi troppo alti dei ticket,
dell’eccessiva distanza dei presidi sanitari e delle liste d’attesa.
Esasperati dalla crisi e con sempre meno soldi in tasca rinunciano al
dentista. Tra le fasce più povere della popolazione fino al 15 per cento
degli italiani si priva delle cure.
A lanciare l’allarme non è un
semplice centro di studi sociologici e di monitoraggio delle tendenze
degli italiani, ma l’Ufficio parlamentare di bilancio, il ferreo
presidio di ricerca che ha il compito di fare da cane da guardia ai
conti pubblici sulla scorta delle regole europee. I dati riguardano il
2013, prima dell’esecutivo Renzi, e risentono soprattutto delle
politiche di austerità messe in atto da Monti tra il 2011 e il 2012, ma
suonano comunque come un monito rispetto ai potenziali effetti dei tagli
al Fondo sanitario nazionale praticati con la nuova legge di Stabilità
2016.
Dalle statistiche fornite dall’Upb, e firmate Eurostat, si
scopre che il 7,1 per cento degli italiani rinuncia a farsi visitare
perché – queste le motivazioni addotte – il costo della prestazione è
troppo alto, la lista d’attesa è troppo lunga oppure l’ospedale è troppo
distante. Con il diminuire del reddito il disagio cresce: la rinuncia
alla cura sale al 14,6 per cento nel caso in cui gli interpellati
appartengano al 20 per cento più po-vero della popolazione italiana.
Non
è sempre stato così. Prima della Grande crisi del 2007-2009 e della
Grande austerità europea del 2011-2012, gli italiani che facevano a meno
di curarsi erano in numero assai inferiore: nel 2004, ad esempio, solo
il 3,6 per cento rinunciava per eccesso di costi e si arrivava al 5,2
per cento considerando anche gli altri elementi di disagio, come la
distanza o la lista d’attesa. A preoccupare è anche il dato delle cure
dentistiche: il 18,6 per cento, circa un quinto dei più poveri, ha
dovuto scartare l’idea di farsi curare i denti.
Le spiegazioni che
gli italiani danno del proprio comportamento sono realistiche?
Purtroppo sì, e gli economisti dell’Upb confermano la correlazione tra
tagli alla sanità e aumento dei tassi di trascuratezza nei confronti
della salute. Già in termini generali la spesa corrente per la sanità
non è alta come comunemente si crede: siamo a due terzi di quella
tedesca, a tre quarti di quella francese e addirittura il 60 per cento
di quella Usa. Il rigore degli ultimi anni è stato pesante: la spesa
sanitaria corrente, che tra il 2003 e il 2006 cresceva in media del 5,8
per cento, tra il 2007 e il 2010 è salita solo del 2,8 e addirittura nel
periodo 2011-2014 è cresciuta a tasso “zero” (dati della Ragioneria
generale dello Stato).
A fare le spese dei tagli e della caccia
alle risorse ci sono proprio le voci che sembrano stare a monte del
disagio denunciato dai cittadini. Ad esempio il numero dei posti letto
negli ospedali è diminuito dal 4 per mille nel 2005 al 3,4 nel 2012
contro una media europea di 5,3 per mille. La riduzione delle degenze
avrebbe dovuto essere compensata dai day hospital, ma – come segnala il
rapporto Upb – è sempre di più la gente che si affida al pronto soccorso
per superare file e risparmiare. Contribuisce a limitare l’offerta
anche la riduzione del personale: è stata dell’1,8 per cento tra il 2007
e il 2013 e di un ulteriore 0,6 nei primi mesi del 2014. Vale la pena
citare le parole dell’Upb che sintetizzano il senso dello studio diffuso
nei giorni scorsi: «Emergono alcuni segni di limitazione dell’accesso
fisico (razionamento) ed economico (compartecipazioni) e tracce di una
tensione nell’organizzazione dei servizi, legata alla limitatezza delle
risorse finanziarie e umane, che potrebbero rive-larsi insostenibili se
prolungate nel tempo». Linguaggio tecnico, ma inequivocabile.
Gli
ampi passaggi dello studio degli uffici del Parlamento italiano, che
riguardano i ticket, confermano la situazione di allarme. L’Upb spiega
che per molte prestazioni l’aumento delle compartecipazioni ha «reso
conveniente optare per il settore privato ». Del resto il rincaro c’è
stato ed è evidente: i ticket sono aumentati del 33 per cento tra il
2010 e il 2014. Se si guarda alla sola spesa per ticket farmaceutici
l’aumento è stato del 50 per cento, mentre sulla specialista
ambulatoriale, a seguito del superticket da 10 euro per ricetta, è
salito al 19 per cento nel biennio 2001-2012.
Tagliare
ulteriormente e in modo indiscriminato può portare conseguenze
disastrose, se non si interviene sull’obiettivo principale: gli sprechi
che, come segnala opportunamente l’Ocse, non a caso citata nel rapporto
Upb. Basta guardare alla spesa per beni e servizi, prodotti farmaceutici
compresi, che è l’unica a continuare a correre. La spending review
dovrà servire anche per reindirizzare verso i servizi quello che oggi
ingrassa spesso rendita e malcostume.
Iscriviti a:
Commenti sul post (Atom)
Nessun commento:
Posta un commento