mercoledì 27 gennaio 2016

Ma il Battista non ci sta!



ROUHANI E LE STATUE COPERTE LA LIBERTÀ NON SI CONTRATTA 
27 gen 2016  Corriere della Sera Pierluigi Battista
Da pagina 1 Speriamo che quelle statue vengano svestite al più presto. Restituite alla loro nudità. Che poi significa restituite alla loro libertà. Averle ricoperte per non offendere l’ospite, il presidente iraniano Rouhani, è stato un segno di cedimento culturale. Una macchia. Non abbiamo nulla di cui vergognarci. Non dobbiamo pensare che la nudità dell’arte sia qualcosa di spregevole o di vergognoso. Consideriamo giustamente ridicoli i braghettoni con cui in passato il bigottismo cercava di coprire il nudo delle statue. E quel nudo ci racconta che nel nostro «stile di vita» la libertà artistica è parte integrante e imprescindibile della libertà tout court. Chi chiede che le nostre stature siano coperte manifesta un’arroganza culturale che dovremmo respingere, una pretesa di superiorità morale che possiamo spedire tranquillamente al mittente. Invece ci mettiamo sempre in difesa. Ammettiamo che, certo, quei nudi possono rappresentare qualcosa di sconveniente. Che dovremmo nasconderli per non dare all’arcigno ospite una brutta impressione. Non vogliamo capire che la libertà d’espressione non è una cosa da maneggiare come fosse cosa impura. Non vogliamo capire che una battaglia culturale non è un atto bellicoso, ma un atto d’amore nei confronti di ciò che siamo e che siamo diventati pagando prezzi immensi. La libertà di vestirsi e di svestirsi, la libertà di comportarsi senza seguire i precetti e i dogmi, la libertà di separare politica e religione. Era lui, il presidente Rouhani, che avrebbe dovuto adattarsi per non offenderci, e non il contrario. E non dovrebbe essere un contratto in più, o una mossa diplomatica, a farci rinnegare, tra l’altro con modalità che sfiorano il ridicolo, quello che siamo, anche in manifestazioni estetiche apparentemente innocue. Senza sfregiare, sia pur simbolicamente, i monumenti di cui andiamo orgogliosi.

La scatola del ridicolo
di Silvia Ronchey Repubblica 28.1.16
NÉ il fatto che in alcune vetrine di Teheran i manichini femminili siano senza testa o che alcune donne girino velate dal niqab (molte altre no), né tanto meno l’idea erronea che l’antica tradizione islamica professi una teologia dell’immagine tout court ostile alla rappresentazione della figura umana (che proprio nella miniatura persiana ha avuto il suo massimo fulgore ed è peraltro ben presente nell’urbanistica odierna di Teheran, ad esempio nei grandi murales degli eroi della guerra antirachena) giustificano in alcun modo la risibile operazione di velatura, o copertura tramite pudichi separés, delle statue classiche dei musei Capitolini.
Il provvedimento, presentato come forma di attenzione alla sensibilità religiosa e artistica del presidente iraniano Hassan Rouhani in visita a Roma e giustificato, sia pure cautamente, da alcuni archeologi come «modo di dialogare, di venire incontro a culture diverse» (Carandini), o come diplomatico gesto «di opportunità politica» (La Regina), peraltro non risulta da Rouhani ufficialmente richiesto. Che sia stato o no sollecitato da Palazzo Chigi, come invocato dalla Sovrintendenza Capitolina, la piena responsabilità culturale della scelta, in ultima e onesta analisi, può andare solo a chi, innalzato a dirigere quegli importanti musei e a garantirne l’integrità, li ha degradati e mutilati in effigie, trasformando la visita di stato del leader di un Paese dalla tradizione artistica ancora più antica, ricca di esibite e non velate figurazioni archeologiche come le statue e i bassorilievi di Persepoli, in una simbolica e indimenticabile excusatio non petita della tradizione occidentale.
I viaggiatori islamici hanno ammirato per secoli le statue dell’antichità grecoromana. A Bisanzio, come previsto e descritto nel Libro delle cerimonie di Costantino Porfirogenito, i ludi in onore degli ambasciatori arabi si tenevano nell’Ippodromo, dove spiccavano, fra le altre, sculture classiche come l’Eracle di Lisippo. Le enumerò affascinato, intorno al 900 d. C., Harun ibn Yahya. Né certo le autorità bizantine si preoccuparono di coprire le statue bronzee dell’Anfitrite o dell’Atena Promachos, attribuita a Fidia, «dai seni ritti e dal corpo morbidamente flessuoso» secondo l’ekphrasis di Niceta Coniata. La sua presenza nel Foro di Costantino non fu messa in discussione dalla presunta iconoclastia di nessun illustre ospite islamico, ma dal fanatismo dei crociati latini, che la distrussero nel 1204. Ancora a metà del XVII secolo un ottomano religioso come Evliya Celebi, nel pieno fiorire dell’islam turco, esaltava la magia delle sculture di Costantinopoli e segnalava ai viaggiatori la bellezza della «figura femminile dalle graziose guance» che sovrastava la colonna di Arcadio.
La verità è che non mai esistita nell’Islam, in termini strettamente scritturali o teologici, ma neppure in termini pratici, una questione dell’immagine. La figuratività islamica, bene attestata anche per le immagini sacre, come dimostra la lunga e meravigliosa consuetudine di raffigurazione del viaggio notturno di Maometto verso Gerusalemme, della sua ascesa ai cieli e della sua visita al paradiso e all’inferno, è passata, dall’Ottocento ai giorni nostri, «dalla rarità alla profusione», per citare il libro di Silvia Naef su La questione dell’immagine nell’Islam (ObarraO Edizioni).
Ad avercela con l’immagine è solo l’esigenza di immagine che si è data l’Is, che ammanta di panni religiosi la violenza terrorista contro l’Occidente. Nascondere le nostre antichità significa sfregiare di nuovo quelle di Ninive, denigrare la millenaria tradizione che rappresentano e che per secoli e secoli l’islam ha preservato, oltraggiare il sacrificio di archeologi come Khaled Muhammad al-Asaad, il conservatore delle antichità della città di Palmira, che l’ha tutelata fino alla morte dalla furia di un esercito di vandali. Velare le statue capitoline di Roma, nasconderle come vergognose o timorose, è una gaffe anche verso l’antica cultura persiana e dunque verso Rohani stesso, se per una sfumatura minima può accomunare alla barbarie della sanguinaria ala estremista dell’Islam contemporaneo la grande e complessa tradizione che il suo Paese e la sua religione rappresentano.

Il coraggio dei simboli
di Stefano Folli Repubblica 28.1.16
NELLA storia delle statue inscatolate l’aspetto peggiore consiste nel mescolare tutto in un frullato mediatico in cui non si coglie più cosa è grave, cosa è ridicolo, cosa è semplicemente stupido. È ridicolo, ad esempio, mettere sullo stesso piano l’auto- censura per le opere d’arte e la mancanza di vino o altri alcolici a tavola. La prima, come si è detto e scritto in queste ore, è un’aberrazione; la seconda è solo un gesto di riguardo verso l’ospite. Lo si è sempre fatto, negli anni della prima come della seconda repubblica: niente bevande o cibi che possono urtare le sensibilità e i precetti religiosi dell’invitato. La laicità non si misura con un bicchiere di vino, né in Italia né altrove in Europa. Accade lo stesso quando in una casa privata viene a cena un vegetariano o un vegano: si evita di infliggergli ciò che non vuole o non può mangiare e bere.
È grave invece tutto ciò che descrive un cedimento morale e culturale all’ospite straniero nel tentativo di compiacerlo, magari in un eccesso di zelo. Quindi le statue coperte, certo: ma soprattutto in quanto simbolo del silenzio su temi imbarazzanti. Le vignette dei giornali ieri dicevano più di un editoriale, come si dice in questi casi. Una di Staino sul’Unità - il giornale del presidente del Consiglio - mostra due funzionari (di Palazzo Chigi, si suppone, visto che la Sovrintendenza si è chiamata fuori) alle prese con un grande pannello. Raffigura un impiccato che penzola dalla forca. E uno dei due personaggi dice all’altro: «Lo mettiamo davanti alle statue nude perché non si imbarazzi».
Forse sarebbe interessante sapere se e come la questione dei diritti umani in Iran - dove i gay vengono spesso giustiziati - è stata posta all’illustre ospite, al di là di qualche frase di circostanza. Anche questo, anzi soprattutto questo, è un modo per difendere l’identità culturale dell’Occidente e il nostro attaccamento ai diritti di libertà, a cominciare dalla libertà d’espressione. Perché se tali valori finiscono inscatolati non appena si profila l’opportunità di qualche buon affare economico, sia pure cospicuo, ecco che il problema non è più solo l’aver messo le mutande alle statue in omaggio a una teocrazia. E ciò vale per l’Iran come per il Qatar o l’Arabia Saudita. Discutere con gli integralisti è sempre pericoloso, se non si ha chiaro fin dove ci si può spingere nelle concessioni. Se poi il governo, nelle persone di Renzi e Franceschini, davvero non sapeva nulla dell’auto-censura, l’episodio finisce per sconfinare nel grottesco. Un pasticcio internazionale a Roma all’insaputa dell’autorità politica.
Laddove invece il Papa, come è ovvio, si è presentato davanti all’ospite iraniano con il crocefisso al collo. Inimmaginabile il contrario: ma quel crocefisso è il simbolo di un’identità, di una cultura, di una storia. Non sappiamo se Francesco abbia parlato a Rouhani di libertà civili: se lo ha fatto, le sue parole possono solo aver tratto forza da questa dichiarata consapevolezza di sé.
«Soprattutto mai troppo zelo» raccomandava Talleyrand, che pure sapeva come far piacere ai potenti. È un consiglio troppo spesso disatteso. Chi non ricorda la tenda beduina allestita per Gheddafi a Villa Pamphili al tempo del governo Berlusconi? Il libico non era un teocrate, tutt’altro: agiva nel solco laico di Nasser, come peraltro Saddam Hussein. Ma era un dittatore feroce a cui tendeva a inchinarsi l’Italia nelle sue varie espressioni politiche, come pure la Francia di Sarkozy che poi lo ha bombardato per sottrarre a Roma, senza riuscirci, i vantaggi economici. Anche Parigi aveva allestito una tenda per il capo libico e le sue amazzoni. A Gheddafi non interessavano le statue velate, ma era pronto a umiliare l’Italia - spesso con successo - proprio perché sapeva, dal pragmatico che era, che poi avrebbe negoziato gli affari. Allora come oggi, con i laici autoritari come con gli integralisti medioevali, il problema è sempre di chi si pone dall’altra parte del tavolo.

«Mostriamo i nudi persiani» Miniature, mosaici (e ironia)
La rivolta iraniana sui social contro la «censura» italiana di Viviana Mazza Corriere 28.1.16
«Sono sicuro che anche Rouhani è arrabbiato. Dopo tanto tempo, era finalmente arrivato a Roma, pronto a vederne le bellezze, e questi italiani gliel’hanno impedito», commenta divertito da Teheran Said Sadegh su Twitter. «Con gli affari che ci sono in ballo non mi sarei stupito se gli italiani avessero addirittura distrutto le statue», scrive in farsi un altro utente che si identifica solo come H.
An che i social media iraniani sono esplosi tra battute, parole critiche per la «censura» delle statue nei Musei Capitolini, vignette (una delle quali mostra la Monna Lisa con il velo di suora). Ma soprattutto, come ci spiega uno studente, da un paio di giorni «il Facebook persiano è nudo». Molti cioé stanno pubblicando le foto di statue, mosaici, miniature presenti in città e musei del Paese (ma anche esportati all’estero) che ritraggono donne e uomini senza veli.
C’è la statua di Ercole scolpita nella montagna di Behistun, a Kermanshah, ai tempi dell’impero seleucide: non indossa alcuna veste e tiene una coppa in mano (ma va detto che dopo la rivoluzione islamica del 1979 qualcuno gli ha tagliato il pene). C’è il dettaglio di una donna nuda e pensosa avvicinata da un cavaliere vestito di tutto punto, dipinta sopra la porta di Casa Borujerdi a Kashan. Ci sono gli affreschi della cattedrale armena di Vank a Isfahan (qui i nudi comunque sono anime in pena all’inferno). «Se gli ayatollah davvero non volessero vedere nudi è chiaro che opere come queste non sarebbero esposte», scrive su Facebook una studentessa di nome Setareh. Sulla sua pagina: una statuetta di terracotta maschile con generosi attributi tenuta nel Palazzo Saadabad a Teheran e un mosaico di stile greco-romano di una donna che suona l’arpa a seno scoperto emerso da scavi a Bishapur. Setareh se la prende con il governo italiano, accusandolo di trattare gli iraniani come «barbari incivili».
Altri sono furiosi sia con Roma che con Teheran: in una lettera agli italiani, le attiviste di «Stealthy Freedom» movimento dissidente che promulga la libertà delle donne di scoprirsi i capelli, scrive che la censura dei capolavori per compiacere la delegazione di Rouhani «offende milioni di iraniane che rischiano la vita per cambiare le leggi discriminatorie della Repubblica Islamica».
Sul fronte opposto, anche gli ultraconservatori comunque sono arrabbiati: la ragione è diversa, loro considerano un’offesa che l’incontro con Renzi si sia tenuto ai piedi della statua di Marco Aurelio, «imperatore che sconfisse gli iraniani», scrive l’agenzia Fars.
I più pragmatici, infine, si chiedono: «Ma perché fare la conferenza stampa proprio lì?»

Nessun commento: