domenica 17 gennaio 2016
Quando gli americani volevano convertire i musulmani in Medio Oriente
Christine Leigh Heyrman: American Apostles: When Evangelicals Entered the World of Islam, New York, Hill and Wang, pagg. 340, $ 30
Risvolto
The surprising tale of the first American Protestant missionaries to proselytize in the Muslim world
In American Apostles,
the Bancroft Prize-winning historian Christine Leigh Heyrman
brilliantly chronicles the first fateful collision between American
missionaries and the diverse religious cultures of the Levant. Pliny
Fisk, Levi Parsons, Jonas King: though virtually unknown today, these
three young New Englanders commanded attention across the United States
two hundred years ago. Poor boys steeped in the biblical prophecies of
evangelical Protestantism, they became the founding members of the
Palestine mission and ventured to Ottoman Turkey, Egypt, and Syria,
where they sought to expose the falsity of Muhammad's creed and to
restore these bastions of Islam to true Christianity. Not only among the
first Americans to travel throughout the Middle East, the Palestine
missionaries also played a crucial role in shaping their compatriots'
understanding of the Muslim world.
As Heyrman shows, the missionaries
thrilled their American readers with tales of crossing the Sinai on
camel, sailing a canal boat up the Nile, and exploring the ancient city
of Jerusalem. But their private journals and letters often tell a story
far removed from the tales they spun for home consumption, revealing
that their missions did not go according to plan. Instead of converting
the Middle East, the members of the Palestine mission themselves
experienced unforeseen spiritual challenges as they debated with
Muslims, Jews, and Eastern Christians and pursued an elusive Bostonian
convert to Islam. As events confounded their expectations, some of the
missionaries developed a cosmopolitan curiosity about-even an
appreciation of-Islam. But others devised images of Muslims for their
American audiences that would both fuel the first wave of Islamophobia
in the United States and forge the future character of evangelical
Protestantism itself.
American Apostles brings to life
evangelicals' first encounters with the Middle East and uncovers their
complicated legacy. The Palestine mission held the promise of
acquainting Americans with a fuller and more accurate understanding of
Islam, but ultimately it bolstered a more militant Christianity, one
that became the unofficial creed of the United States over the course of
the nineteenth century. The political and religious consequences of
that outcome endure to this day.
di Ermanno Bencivenga Il Sole Domenica 17.1.16
Un
gruppo di americani si avventura in Medio Oriente per debellare la
superstizione, il fanatismo e la violenza diffusi dalla religione
islamica e portarvi libertà, umanità e ragionevolezza; ma scopre, con
sua grande sorpresa, che i fortunati fruitori di questa colonizzazione
sono restii a rinnegare la propria fede e i propri costumi. Dopo qualche
anno di tentativi infruttuosi, muoiono o abbandonano l’impresa. Dove
collochereste, temporalmente, un simile episodio? Ma è ovvio: ai giorni
nostri, all’indomani del «secolo americano» (il Novecento) che ha visto
imporsi l’egemonia globale degli Stati Uniti e del gran botto che ha
aperto il nuovo secolo e minacciato quell’egemonia, provocando ogni
sorta di interventi civilizzatori e conseguenti ingloriose ritirate.
Giusto? Sbagliato.
L’avventura di cui sto parlando si svolse due
secoli fa, negli anni venti dell’Ottocento, quando gli Stati Uniti non
avevano mezzo secolo di vita e si estendevano per circa un quarto delle
loro dimensioni attuali. I suoi protagonisti non sono politici
illuminati o vittoriosi generali; sono invece missionari evangelici, e
non sono convinti che i popoli «liberati» getteranno fiori sui loro
cannoni ma, in termini meno bellicosi, che una religione primitiva e
grossolana si scioglierà come neve al sole davanti alla suprema lucidità
e saggezza della propria. Il tutto con una base chiaramente
riconoscibile come americana: organizzazione capillare di reperimento
dei fondi necessari; propaganda a tappeto sui mezzi di comunicazione
(giornali, soprattutto), con notizie vere o false a seconda dei casi, ma
sempre clamorose; fiducia incrollabile nel successo dell’operazione.
A
raccontarci questa vicenda, desumendola con cura da documenti originali
venuti da poco alla luce, è Christine Leigh Heyrman, professore di
storia americana all’Università del Delaware e autrice di American
Apostles, un libro che dimostra, una volta di più, come chi non conosca
la storia sia destinato a ripeterla. I personaggi che animano la sua
narrazione sono molti; ma qui varrà la pena di segnalarne un paio, due
estremi opposti per temperamento le cui peripezie finirono anche per
avere esiti opposti. Pliny Fisk e Jonas King provenivano entrambi da
famiglie povere del Massachusetts occidentale (lontano dalla costa, per
intenderci), e per entrambi la devozione al movimento evangelico
rappresentava qualcosa di più di un impegno spirituale: era pure un modo
per sfuggire all’isolamento, per ricevere un’educazione (in seminario),
forse, chissà, per farsi un nome. Fisk arrivò per primo in Medio
Oriente, a Smirne, nel 1820, con un compagno che sarebbe morto presto;
King si unì a lui nel 1822 e rimasero insieme fino al 1825, visitando
Damasco e Gerusalemme, Alessandria e Il Cairo, imparando l’arabo e
leggendo il Corano, distribuendo opuscoli e dialogando con eruditi, e
non riuscendo a convertire un singolo mussulmano.
Le loro reazioni
però, come accennavo, furono diverse, e nella loro diversità fecero
presagire un futuro di rapporti confusi e controversi fra la loro
nazione d’origine e l’ambiente in cui avevano scelto di lavorare. King,
estremamente sensibile all’immagine delle loro gesta trasmessa in
patria, si prodigò per apparire come un eroe che coraggiosamente
affrontava gravi pericoli pur di rafforzare la propria chiesa. Che si
trattasse perlopiù di fandonie non aveva importanza; quel che contava
era affermare una visione maschile dell’evangelismo, per porre riparo al
serio imbarazzo di una religione che i maschi americani non prendevano
sul serio, mentre i maschi islamici, pur se armati di pistole e
scimitarre, non mancavano mai di inchinarsi verso la Mecca cinque volte
al giorno per pregare.
Il messaggio «muscolare», da bullo di
periferia, di tanti predicatori di oggi deve parecchio, senza saperlo,
alle invenzioni di Jonas King. Fisk era più introverso, più attento, più
intellettuale, più fragile. Man mano che progrediva la sua conoscenza
degli «infedeli», si rendeva conto della faciloneria con cui erano
costruiti gli stereotipi dell’Islam e trovava sempre più difficile
sostenere con argomentazioni razionali la superiorità di un culto
fondato su un dio che ha un figlio, che s’incarna e muore, che compare
nel tempo e nel mondo umani, rispetto a un altro fondato su un dio
assolutamente e ineccepibilmente trascendente. Gli eruditi islamici,
insomma, gli davano un gran filo da torcere, mostrandosi ben differenti
dai bruti in cui aveva previsto di imbattersi. Non poteva durare. Fisk
morì a Beirut, di una febbre imprecisata, nello stesso 1825 in cui si
era separato da King. Il quale, per parte sua, lasciò il campo prima che
i pericoli si facessero reali, rivolse la sua veemenza contro i
cattolici e visse confortevolmente fino al 1869 insegnando e predicando
ad Atene. Archetipi, l’uno e l’altro, dell’eterna ambiguità americana
(o, forse, umana) nei confronti dello straniero: disprezzo o stima,
interesse o noncuranza, coinvolgimento o lotta?
Iscriviti a:
Commenti sul post (Atom)
Nessun commento:
Posta un commento