Più che il giorno della famiglia sabato scorso è il giorno del patrimonio familiare. Ovvero di una sua configurazione determinata, che legittimamente si
difende dall'avvento - irreversibile - di nuove configurazioni che
pretendono un altrettanto legittimo riconoscimento.
È normale poi
che quando si parla di proprietà, cioè del fondamento del legame
sociale, si tenda a spararla grossa, da una parte e dall'altra,
ammantando un conflitto di interessi con le cose più fantasiose, come
dio, la natura o la rivoluzione [SGA].
Johann Jakob Bachofen: Il Matriarcato. Ricerca sulla ginecocrazia del mondo antico nei suoi aspetti religiosi e giuridici, Einaudi
Risvolto
Il matriarcato è l'opera piú significativa e piú nota di
Johann Jakob Bachofen, un'indagine poderosa, fertile di spunti e
di motivi, con cui lo studioso svizzero ha acquisito un posto centrale
tra i fondatori della moderna antropologia.
Apprezzata da Marx
e Engels (che vi ravvedevano la transitorietà della vita borghese),
finita al centro di un vivace dibattito antropologico, amata da poeti
come Rilke e Hofmannsthal o da narratori come Broch, Hesse
e Thomas Mann, difesa da pensatori come Benjamin, Adorno
e Fromm, sovente ripresa dalla letteratura femminista, l'opera di
Bachofen resta, pur con tutte le sue ambivalenze, un seducente filo
di Arianna teso attraverso i regni del maschile e del femminile.
Anche se alcuni suoi dati possono risultare oggi superati o inesatti,
essa continua a restare l'esempio di un incontro straordinario
con una figura mitica, la mater, con cui ogni generazione si incontra
e si misura, come rileva Furio Jesi, iniziatore di questa traduzione,
nel saggio che accompagna il volume.
Johann Jakob Bachofen Il padre del matriarcato
La monumentale ricerca del giurista e antropologo svizzero torna in una nuova edizione senza perdere il suo fascino originario Tradusse
leggi, indagò miti, lesse documenti Così il genio di Bachofen svelò al
mondo l’antico diritto e il potere storico delle donne
di Emanuele Trevi Corriere La Lettura 31.1.16
Quando pubblicò Il matriarcato , nel 1861, Johann Jakob Bachofen,
svizzero di Basilea, aveva appena superato i quarantacinque anni: età
più considerevole ai suoi tempi che oggi, ma nemmeno a quei tempi
veneranda. Era il rampollo di una delle più insigni (e ricche) famiglie
patrizie della sua città, e fin da giovane si era consacrato a studi
severissimi, nelle migliori università tedesche ed europee, diventando
precocemente uno dei massimi esperti del diritto romano. Aveva a sua
volta insegnato, e ricoperto importanti cariche di magistrato, come
volevano le tradizioni del suo ceto. Ma era libero di vivere seguendo
esclusivamente le sue inclinazioni, e finì per dedicarsi esclusivamente
alla sua fame di sapere, e alla passione per i viaggi.
Spirito laborioso e metodico, la sua erudizione in fatto di storia
antica, archeologia, mitologia divenne immensa. I paesaggi della
campagna romana o del Peloponneso non erano diversivi turistici, ma
occasioni per affinare e precisare le sue conoscenze storiche. È
difficile fare illazioni sull’uomo capaci di perforare la severa dignità
delle apparenze. Che si sia sposato solo a cinquant’anni, dopo la morte
della madre amatissima, è un fatto che non può essere interpretato con i
maliziosi criteri odierni.
Anche a guardare i suoi ritratti, che sembrano l’esatto contrario
dell’immagine dell’artista romantico, sarebbe impossibile sospettare in
Bachofen uno spirito talmente geniale e visionario da rasentare la
follia. Di sicuro, durante la lunga fatica che doveva portarlo alla
pubblicazione del Matriarcato , il suo entusiasmo era nutrito dalla
consapevolezza di una scoperta capace di rivoluzionare tutto ciò che si
sapeva sulla storia del mondo greco-romano, e più in generale delle
antiche civiltà mediterranee. Non era il solo uomo del suo tempo ad
avere accumulato un sapere quasi inconcepibile per un singolo individuo.
Ma un erudito, di per sé, è solo il proprietario di un’immensa massa di
macerie, informe e tarlata di contraddizioni. Pochi sono in grado di
compiere quel salto mortale che solo può condurre dal sapere al
comprendere. E ancora minore è il numero di coloro a cui tocca in sorte
il pensare qualcosa che nessuno ha mai pensato prima.
Nonostante la compostezza dello stile, alieno da inutili effusioni,
queste emozioni trapelano nitidamente nelle prime righe del Matriarcato ,
ora riedito da Einaudi, che sono la promessa di un viaggio mai tentato
dallo spirito umano. «La presente opera affronta un fenomeno storico di
cui pochi tennero conto e di cui nessuno valutò a fondo la portata. Le
scienze che studiano l’antichità hanno continuato a ignorare fino ad
oggi il diritto materno: nuova è tale espressione, e sconosciuta è la
condizione familiare che essa designa».
Ecco l’oggetto misterioso, o meglio la chiave d’accesso al mistero che è
la nostra storia, quando cerchiamo di decifrarne le origini. Noi diamo
al capolavoro di Bachofen un titolo, Il matriarcato , che rende omaggio
alla sua idea più memorabile e affascinante. Ma il titolo originale è
Das Mutterrecht , ovvero il diritto materno. Il matriarcato o la
ginecocrazia, ovvero «il potere delle donne», non è un’oscura favola, ma
una fase capitale della storia umana. Un’epoca in cui la madre prevale
sul padre nel sentimento dell’esistenza, così come è testimoniato dai
miti, dai racconti degli storici, dalle leggi.
Per ricostruire quest’epoca dimenticata, Bachofen passa al vaglio, con
sovrumana pazienza, le migliaia di testimonianze che ha raccolto (a un
certo punto, appare anche una poesia del «conte Leopardi»!). Erodoto
racconta che gli abitanti della Licia ereditavano il nome della madre e
si trasmettevano i beni in linea femminile. Non è la notizia bizzarra di
uno storico curioso di costumi esotici, ma la tessera di un immenso
puzzle le cui tessere sono sparse su tutte le rive del Mediterraneo. Il
potere delle donne è un istituto giuridico e nello stesso tempo un
sistema simbolico, un’interpretazione totale della vita, una religione.
La mano sinistra prevale sulla destra, la notte sul giorno, la luna sul
sole. Dei fratelli, è l’ultimo nato il più importante. Tra gli esseri
viventi prevale un senso di pace e fratellanza, conseguenza della
consapevolezza di essere generati dalla stessa terra e di dover presto
ritornare, con la morte, nel suo grembo.
Bachofen immaginò quest’epoca della storia umana con tanta intensità che
ne immagino addirittura il paesaggio fisico, nel quale la vegetazione
palustre, simbolo della spontaneità della vita, soverchiava i campi
arati. Il fatto è che Bachofen, e proprio in questo consiste il fascino
indelebile delle sue pagine, non distingue un mito da una legge, la
testimonianza approvata di uno storico dalla decorazione di un vaso o di
una tomba. Non ci sono documenti antichi più o meno «veri» di altri.
Esistono solo modi diversi di tradurre la stessa esperienza umana. Anche
le parole di un eroe di Omero sono un documento storico.
In una pagina che meriterebbe di figurare in tutte le antologie della
prosa, Bachofen interpreta alla luce del diritto materno un bellissimo e
celebre episodio dell’ Iliade . Prima di affrontarlo in duello, il
greco Diomede chiede al suo avversario, Glauco, notizie sulla sua
stirpe. Diomede è un greco, figlio di una cultura patriarcale, fondata
sulla discendenza dai padri e sulla sottomissione della donna. Per lui è
naturale chiedere cavallerescamente al nemico chi sia suo padre. Ma
Glauco è un Licio. E gli risponde da Licio. In pratica, dichiara a
Diomede che la sua domanda è insensata, dal suo punto di vista. Non
esistono i padri e i figli, dice Glauco a Diomede, perché gli uomini
sono come le foglie. Nascono tutti dallo stesso tronco e quando viene il
loro momento cadono tutti a terra nello stesso modo. Nessuno discende
da nessuno.
Bachofen considera questi versi di Omero, sempre ammirati per la loro
bellezza, il riflesso di una condizione di esistenza, vale a dire di
qualcosa che ha avuto luogo nella realtà. Un’organizzazione sociale e
religiosa fondata sul predominio della madre e destinata a essere
soppiantata, non senza conflitti molto aspri, dal principio maschile e
paterno.
Distacchiamoci adesso dal grandioso scenario dipinto da Bachofen per
considerarne il totale insuccesso tra i contemporanei. Da un certo punto
di vista, il poderoso libro di Bachofen sembrava fatto apposta per non
essere letto da nessuno. Alla solita meditazione sulla genialità e la
solitudine bisogna aggiungere il ricordo ben più concreto di un
tipografo folle, che ebbe l’assurda idea di mescolare un testo già lungo
e impegnativo con le migliaia di note che dovevano corredarlo di tutte
le indicazioni bibliografiche ed erudite. Ne venne fuori quello che il
nostro più importante studioso di Bachofen, Furio Jesi, ha definito «un
orrido groviglio» stampato su due colonne. Poteva capitare che una
frase, cominciata a una data pagina, finisse soltanto a metà di quella
successiva.
Che cosa ne avrà pensato l’autore? In qualche modo, quella catastrofe
aveva qualcosa di simile alla sua mente poderosa e labirintica. Fatto
sta che quando, dopo la sua morte, la vedova e il figlio provvidero a
una ristampa, ripeterono la stessa assurdità, accompagnata questa volta
da un numero esorbitante di errori di stampa. Forse non erano del
mestiere, ma si sarebbero comportati così se Bachofen si fosse molto
lamentato della prima edizione?
Lui era morto a settantadue anni, nel 1887, nel più completo isolamento
intellettuale. Non cambiò mai idea, a quanto pare, su quella «poesia
della storia», come la definiva, che era l’epoca del potere femminile.
Sarebbe stato assurdo obiettargli che il matriarcato, come l’immane
guerra tra i sessi che ne aveva dichiarato la fine e instaurato il
potere del maschio, erano cose accadute solo nella sfera del mito e non
sul piano della realtà. Perché tutta l’impresa di Bachofen si basa su un
atto di fede fondamentale: il mito è realtà, traccia di una realtà
vissuta non meno di un utensile o delle rovine di un’abitazione o di una
norma giuridica. «Abbiamo di fronte a noi non finzioni, ma destini
vissuti», affermava con una certezza che si addice più al poeta
romantico che al filologo.
Ma la sorte del Matriarcato è tutt’altro che un argomento malinconico.
Semmai, è una lezione istruttiva sulla potenza delle grandi visioni,
che, come certi organismi naturali, resistono e si rafforzano nelle
condizioni avverse, sanno aspettare il loro momento. A volte bastano
dieci lettori per traghettare un capolavoro misconosciuto sulle acque
oscure della dimenticanza. Oggi Il matriarcato ci appare pienamente
comprensibile a un livello della verità che non è quello
dell’archeologia o della storia del diritto, ma quello delle opere
d’arte.
Più che a Friedrich Nietzsche, che non ne nutriva una grandissima stima,
Bachofen sembra accostabile all’altro grande profeta inascoltato del
suo tempo, Herman Melville. Potremmo affermare che Il matriarcato sta
alla storia antica come Moby Dick sta alla caccia alla balena. In
entrambi i casi, si tratta di una lettura indimenticabile, di quelle
capaci di trasformare la vita. In ogni forma di espressione umana, nel
romanzo come negli studi storici, esistono regole fondate sul buon senso
e su una certa dose di conformismo. Ma se in determinati momenti non
spuntassero fuori spiriti eretici e infiammati come Melville e Bachofen,
tutto il resto si ridurrebbe al ben misero bottino delle carriere
accademiche e dei premi letterari.
Massimo Cacciari “Il governo non si fermi le trincee vanno superate la società lo ha già fatto”
“Serve
realismo storico, ormai nella società le unioni civili sono un fatto
acquisito Ormai è impossibile ignorare le trasformazioni”
intervista di Paolo Berizzi Repubblica 1.2.16
MILANO Massimo Cacciari, il governo va avanti. Fa bene?
«Sì».
Anche dopo il Family day al Circo Massimo?
«La
manifestazione va rispettata e compresa. Esprime una sensibilità
diffusa. Ma è una piazza contro l’altra. Uno a uno e palla al centro».
E decide chi governa?
«Non
è questo il punto. Il punto è che ci vuole realismo storico. Ormai le
unioni civili sono una cosa acquisita, culturalmente parlando. Tutti i
paesi occidentali stanno andando in questa direzione: mi rendo conto che
è una straordinarietà, ma siamo di fronte a una trasformazione
radicale: sociale e culturale. Che non può essere ignorata».
Nessuno la ignora: è solo una questione di posizioni.
«Se
il senso comune e l’orientamento dominante hanno superato certi
steccati, dobbiamo adeguarci alla storia. Inutile star lì a chiedersi il
perché e il per come. Le leggi vanno di pari passo» .
Ma il problema, però, si pone: o no?
«Certo.
Capisco anche che si faccia fatica a accettare la velocità con la quale
la nostra civiltà cambia. Fino a 50 anni fa in Occidente era
impensabile ipotizzare gli scenari che oggi diamo per scontati. Sono un
dato di fatto. Non ci sono storie. Mi sembra incredibile con quanta
insostenibile leggerezza si affrontino problemi che riguardano sistemi
di civiltà. Qui non si tratta di leggi e leggine: è il concetto di
famiglia tradizionale che è stato ormai oltrepassato».
Può spiegare?
«Parlare
di famiglia così come era concepita un tempo significa difendere una
trincea ormai indifendibile. Questi arroccamenti sono persino patetici.
Se siamo arrivati al compimento di nuovi tipi di famiglia, vuol dire che
la storia ci ha portati fino qui. Sul piano politico e metodologico
siamo di fronte a una tendenza irreversibile. Poi ci saranno sedi
opportune nelle quali valutare caso per caso ».
Dal matrimonio all’unione civile.
«Il
termine matrimonio a questo punto andrebbe cambiato. Perché la parola
“matrimonio” presuppone la presenza di una donna e di un uomo. Ormai
anch’io che sono single sono una famiglia...».
Non le pare strano?
«Io
sono l’ultimo a poter giudicare. È chiaro che il tema non poteva e non
può essere affrontato così, alla leggera. Perché il fatto che qualsiasi
tipo di unione tra umani venga considerata famiglia, certo, è
sorprendente. Se ci pensiamo, da quando si ha memoria storica la
famiglia è formata da un uomo e una donna. Ma, ripeto, la storia va
avanti, e non rilevarne i segnali è impossibile ».
Sì alle unioni civili e sì, quindi, anche alle adozioni da parte delle “nuove famiglie”?
«Le
adozioni vanno di conseguenza. Se si va avanti si va avanti su tutto.
Una volta che hai riconosciuto legalmente che due uomini sono una
famiglia, a quel punto non puoi impedire loro di adottare. È una
questione di coerenza della politica rispetto all’evoluzione della
società».
I grandi marchi commerciali si sono messi in scia e ammiccano ai nuovi clienti...
«Normale. Se devi vendere segui l’andazzo. È la legge del marketing. Chi si sorprende è un ingenuo».
Anche il pressing sul “Renzi cattolico” è normale?
«Ormai
c’è poco da pressare. È cambiata, la situazione. Finiti i tempi in cui
la chiesa, o parte di essa, faceva pressione con la Dc sui temi sociali.
Con papa Francesco questi meccanismi sono venuti meno, l’ingerenza non
ha più senso. E comunque la risposta del governo dopo il Family day fa
capire che ormai le unioni civili diventeranno legge».
È solo il segno dell’evoluzione o anche un’opportunità da cogliere?
«Questo lo vedremo poi. Se e quali vantaggi porterà, sarà il tempo a stabilirlo».
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