domenica 17 gennaio 2016
Siderurgia & Aperitivo si toglie dagli zebedei. Sinistra Carina non durerà molto di più
Vendola: «Basta appelli all’alleanza. Il Pd ’renzizza’ le città»
Sinistra.
Vendola annuncia: Sel, stop al tesseramento, a febbraio nasce il nuovo
partito. Solo in autunno il congresso di scioglimento. Ma i malumori
sulla cosa rossa restano Nichi Vendola, ieri all'assemblea nazionale di Roma
di Daniela Preziosi il manifesto 17.1.16
Il
Pd fa la mozione degli affetti e declama ’il centrosinistra, il
centrosinistra’. Ma poi governa con la destra e fa scelte che portano a
compimento il programma di Berlusconi. Il centrosinistra o è una cosa
seria oppure è una barzelletta». Nichi Vendola attacca Renzi per il
litigio con il presidente della commissione Junker («Allora perché lo ha
votato?»), avverte il governo sulle unioni civili («La legge Cirinnà
per noi è il minimo sindacale»), ma soprattutto mette una pietra tombale
sulla questione delle alleanze che in questi giorni ha tormentato il
suo partito.
All’assemblea nazionale, ieri a Roma, il presidente
di Sel, dopo un mese di quasi-silenzio, durante il quale i suoi si sono
scornati sulla fine del centrosinistra e sull’inizio del nuovo partito
politico, torna in campo e mette il suo peso su un piatto della
bilancia. Quello sinistro. Per prima cosa benedice tutte le liste
«autonome» (dal Pd) in gestazione nelle città (Torino, Bologna, Roma,
Napoli) in vista delle amministrative di giugno. Tutte tranne Milano e
Cagliari. Perché a Milano «un gruppo dirigente intelligente difende
giorno per giorno l’eredità del miglior sindaco d’Italia, Pisapia»,
tradotto partecipa alle primarie con il Pd e poi se vince il candidato
renziano Sala si vedrà; e invece a Cagliari il sindaco Massimo Zedda, di
Sel, si ripresenta con tutta la coalizione. «Le primarie presuppongono
una comunità di sentimento, e oggi il centrosinistra non c’è più»,
spiega. Ma appunto la regola non vale ovunque, nonostante gli appelli in
tandem del duo Civati-Ferrero.
In tutte le altre i malpancisti se
ne facciano una ragione. A Roma Sel sostiene Stefano Fassina. Il Pd
finge di riaprire un dialogo ma parla, per Vendola, «con la spocchia di
Orfini e con la renzizzazione della città con Giachetti». E ai non pochi
che invece vorrebbero «non regalare tutto il campo a Renzi»
(Massimiliano Smeriglio), «non far chiudere il cerchio del partito della
nazione» (Cecilia D’Elia), «non fare politica per vendicarci del Pd»
(Peciola) Vendola stavolta risponde con un «equanime» bilancio sulle
amministrazioni di centrosinistra e del Pd. Che però è molto duro:
«Dalla deriva trasformistica della Puglia, che è stato un laboratorio di
cambiamento, alle scelte del Pd alla Regione Sicilia e e Campania, del
Molise, del’Abruzzo». Salva solo l’esperienza «positiva» del Lazio.
Quella piemontese, con Sergio Chiamparino, dove formalmente Sel è ancora
in giunta, viene liquidata con una battuta. È un passaggio serio: suona
come l’ammissione del fallimento della missione di Sel.
Fallita o
no, comunque Sel è finita. Nata nel 2009 per essere il «lievito» del
centrosinistra, nel 2016 chiuderà i battenti per essere il «lievito»
della nuova ’cosa’. Il calcio d’avvio, a lungo rimandato causa continue
risse fra i soggetti che avevano tentato una strada unitaria, sarà dato
al Palazzo dei Congressi dal 19 al 21 febbraio. Promuove il gruppo dei
firmatari dell’appello #perlasinistraditutti, c’è un già un gruppo di
trentenni che si scalda a bordo campo. Sel ci sarà, il Prc no, Civati ma
solo per ascoltare, l’Altra Europa deciderà oggi. La ’cosa’ non ha
ancora un nome. In Sel c’è chi spinge perché si chiami «Sinistra
italiana», chiaro e tondo come il nuovo gruppo parlamentare nato
dall’innesto con gli ex Pd; ma anche chi invece frena (Ciccone:
«Stabilizzare il nome non darebbe l’idea del percorso); e chi invece
chiede che sia la platea all’assemblea a scegliere con il voto.
Il
coordinatore Nicola Fratoianni, braccio destro di Vendola — sarebbe
meglio dire sinistro — propone «la fine del tesseramento in attesa della
partenza del ’pretesseramento’ del nuovo soggetto». Sì unanime, anzi
c’è un no, questo è quanto. Il congresso di scioglimento «non sarà un
atto burocratico, sarà una verifica della qualità del processo, della
sua capacità di radicamento», rassicura Vendola. Speriamo che vada tutto
bene perché comunque si terrà in autunno, a scioglimento ormai
consumato, quel che sarà fatto sarà fatto. Sel da febbraio si estingue
nel «nuovo soggetto», «più grande», si augura Vendola. A patto che «non
perda persone alla prima curva, magari chi abbiamo considerato nostro
fiore all’occhiello», si preoccupa Franco Giordano. «Tutti vogliamo una
cosa più grande», replica Luca Casarini.
Infatti il tema degli
abbandoni c’è. «Non ci saranno surrogati di disciplina», promette
Vendola, ma non ce n’è bisogno: nelle città delle liste autonome alcuni
amministratori lasciano già alla spicciolata. Il passaggio difficile non
si può negare ma neanche aggirare. Vendola ancora una volta cerca di
comprendere tutti con i suoi evergreen: «Serve una sinistra radicale ma
non estrema», «c’è la subalternità del poltronismo ma anche la
subalternità della declamazione. A nessuno di noi interessa la ridotta
della testimonianza». Tempi difficili ma di passaggio, giura con
Pasolini: «Piange ciò che muta per farsi migliore».
Duello Vendola-Orfini, a Roma il centrosinistra si rompe
Il leader di Sel: no a Giachetti candidato. Il commissario pd: avete paura dei gazebo, ci vediamo alle urne L’ex vice sindaco dem Walter Tocci propone una lista civica pd senza simbolo. La replica: mai
di Monica Guerzoni Corriere 17.1.16
ROMA
Vendola che ironizza sulla «spocchia» di Orfini e accusa il premier di
aver «renzizzato» Roma con Roberto Giachetti, visto da sinistra come il
candidato del Partito della nazione. Orfini che replica via Twitter: «Tu
puoi scegliere il candidato nel chiuso di una stanza, mentre chi fa le
primarie divide?». E il leader di Sel: «Voi nel chiuso di una stanza
avete cacciato Marino».
Da alleati a nemici giurati. La sfida per
il Campidoglio parte con uno scontro a sinistra, gravido di
ripercussioni sul piano nazionale. Giachetti ha ceduto al pressing di
Renzi e ha accettato l’«impegno immenso e gravoso» di correre alle
primarie. In «splendida» solitudine, per ora, visto che Stefano Fassina
non si presenterà il 6 marzo ai gazebo del centrosinistra. «Non ci sono
le condizioni», chiude Nicola Fratoianni. Per Renzi la tela delle
alleanze è ancora tutta da tessere e dal gioco del cerino rischia di
divampare un incendio. Di chi è la colpa, se la coalizione è finita in
pezzi? «Noi abbiamo lasciato le porte aperte — attacca Orfini — Se
Fassina ha paura, in bocca al lupo. Ci vedremo alle elezioni». Ma se al
ballottaggio Fassina tifasse per il candidato dei Cinquestelle? Al
culmine di una giornata di accuse tra fratelli coltelli, il candidato
della sinistra avvisa i naviganti: «Una fetta consistente del popolo dem
non vota Pd. Noi vogliamo evitare che un pezzo del nostro mondo si
rassegni, confinandosi nell’astensione o scegliendo altre strade».
A
innescare la lite è il documento con cui Walter Tocci, l’ex vicesindaco
di Rutelli molto corteggiato da un pezzo di sinistra romana, ha
rilanciato la suggestione di una lista civica senza i vessilli del Pd.
«È una cosa irricevibile e priva di senso politico — si indigna Orfini
—. Il Pd si presenta col suo simbolo, orgoglioso di esporlo». Aspra la
replica di Fassina, pronto a farsi da parte per il «lodo» Tocci: «La
responsabilità della rottura è del Pd, che invoca alleanze e tace sul
programma». Quanto a Giachetti, Fassina lo vede come «un ultras del Jobs
act, della scuola, delle trivelle, dell’Italicum, della revisione del
Senato».
E c’è un altro interrogativo che tormenta i dem. Cosa
farà Ignazio Marino? La lista personale sembra tramontata, ma l’ex
sindaco può ancora candidarsi alle primarie. Il resto della tensione
l’ha innescata Tocci sul suo blog. Il senatore assicura che la sua
candidatura «non è mai esistita», però sprona Renzi ad affrontare la
questione romana con «umiltà e coraggio». Lamenta l’assenza di un
«programma credibile», chiede al Pd di metter fine al commissariamento,
invoca il congresso e chiude con un cattivo presagio: «Sono gli stessi
errori del 2013».
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