Giulia Galeotti: Il velo. Significati di un copricapo femminile, Edizioni Dehoniane; pagine 228; euro 16,50
Risvolto
Per capire il velo e l’iconoclastia
di Maria Bettetini Il Sole Domenica 31.1.16
Forse anche la bellezza, ma sicuramente sarà la sapienza a salvare il mondo. Sarà la lotta all’ignoranza, guerra che senza droni e con poca spesa darebbe vita a un’umanità non peggiore, più sana di quella che oggi si massacra. Una guerra che comincia a casa. Sappiamo poco di Islam, e ne parliamo come se sapessimo, emaniamo giudizi secondi solo, per quantità, a quelli sulla formazione della Nazionale per gli Europei. D’altra parte, non ha senso iniziare la lettura del Corano, che parla un linguaggio sacro lontano dalla sensibilità del contemporaneo. Può essere utile, al contrario, cercarvi citazioni, una volta raggiunta la chiave di lettura di un concetto, ricordando che andrebbe comunque letto in lingua originale. Nella messe di pubblicazioni, soprattutto instant-book, di questi ultimi mesi tristemente costellati da assassinii e brutture in nome di un Dio poco noto all’Occidente, scegliamo alcuni volumi che permettono profondità. Il primo tocca un argomento sul quale pensiamo, di nuovo, di sapere tutto: il velo, che certo non è prescritto dal Corano, vero? In un certo senso sì, in un altro no. Bruno Nassim Aboudrar, professore di Estetica a Parigi, presenta una sorta di “storia del velo” ricca di sorprese, per noi che tanto ignoriamo. In principio, infatti scopriamo che il velo fu imposto alle donne da San Paolo, nella prima lettera ai Corinzi: in chiesa le donne devono portare i capelli o rasati (ma è vergogna) o velati. Nel mondo dell’Antico Testamento, infatti, solo gli uomini si coprivano la testa, durante la preghiera. A Roma era velata la sposa durante il rito (civile, mai religioso) del matrimonio, per richiamare la verginità delle Vestali, secondo Aboudrar unico esempio nel mondo antico di associazione tra velo e castità. Nel mondo cristiano, invece, seguendo Paolo, il velo indica fin dai Padri la prudenza della donna che non provoca gli uomini e insieme li tiene lontani, si difende. Il valore aggiunto sarà quello della sottomissione, che piacerà anche a Calvino: nel commentare Paolo, il riformatore dirà che sebbene siamo tutti fratelli, per l’ordine civile è necessario che l’uomo domini la donna, e quindi questa deve coprirsi il capo. Viceversa, il Corano accenna solo in due sure a questo tema: nella 24 si raccomanda alle donne di coprirsi il seno e di non mostrare le caviglie se non davanti al marito, ai famigliari e ai servi eunuchi. Nella 33 si parla delle mogli del Profeta, diverse dalle altre donne: a loro è opportuno parlare restando dietro a un velo (una tenda?), solo loro non si possono risposare, loro portano il velo per scoraggiare le avances e per farsi riconoscere come donne libere e di rango. Il Corano solo qui invita il Profeta a dire alle donne della sua famiglia «e alle donne dei credenti» di velarsi «per distinguersi dalle altre e per evitare che subiscano offese», motivi, come sopra, di convivenza civile, senza cenni alla religione. La storia, però, ha deciso diversamente. Nei paesi musulmani il velo da segno di distinzione è diventato strumento di sottomissione della donna all’uomo, obbligatorio per legge. Paradossalmente, poi, il Novecento ha assistito a due capovolgimenti: dapprima, i tentativi di occidentalizzazione delle colonie, che hanno portato ad abbandonare il velo in Turchia, Iran, Egitto. Poi, invece, la ribellione all’Occidente, il potere dei capi religiosi e la trasformazione del velo (come della barba per l’uomo) in una bandiera dell’ortodossia, della sottomissione, della distinzione dalle donne occidentali. Forse quest’ultimo è il motivo che porta le musulmane di oggi a “scegliere” il velo da ragazzine, come segno di appartenenza alla comunità, con tanta maggior forza se si vive in Europa o negli Stati Uniti. Un certo Islam, infatti, desidera distinguersi da tutte le altre religioni e civiltà, contemporanee o antiche, a qualunque costo. Trovando la scusa per operare le distruzioni dei tesori antichi di Ninive, Mosul, Palmira, la tortura e l’uccisione dell’amorevole custode di questa, l’anziano archeologo Khaled al-Asaad. Alla sua memoria sono dedicati due libri utili a capire il momento. Viviano Domenici, con vivace taglio giornalistico, fa il punto sulle distruzioni compiute dall’Islam «contro l’idolatria», dai Buddha di Bamiyan del 2011 fino al disastroso 2015. Si legge bene, anche se gli ultimi capitoli, uno sguardo generale sull’iconoclastia, affrontano temi che chiederebbero qualche riflessione in più. L’archeologo “militante” Paolo Matthiae compie un’operazione ancora diversa, affidando alle pagine un disperato e coltissimo sfogo personale: dopo la Seconda Guerra Mondiale, chi avrebbe pensato di trovare ancora uomini che attentano deliberatamente al patrimonio della stessa umanità? Il noto archeologo percorre una storia dei saccheggi perpetrati spesso per damnatio memoriae, fino a quando l’umanità sembrava avere compreso il valore delle reliquie del passato. Nacque l’archeologia, l’idea del recupero, perfino l’accettazione di forme diverse di bellezza, di arte e civiltà, con i conseguenti sforzi di comprensione. Sembrava si fosse tutti d’accordo sul valore di un passato comune. Ma alcuni hanno voluto essere «più uguali degli altri», per dirlo con Orwell. E si sono permessi di rovinare e rivendere il patrimonio di famiglia, come figli scapestrati. Infine, ecco un libro che ci libera da altri pregiudizi. A scuola abbiamo sentito parlare della teoria della doppia verità, attribuita al medico e filosofo islamico Averroè, ossia Ibn Rushd (Cordova 1126 - Marrakech 1198). Si tratterebbe della dichiarazione di due modi diversi di arrivare a due verità “diverse”: la fede e il Corano porterebbero alla verità religiosa, la razionalità e la scienza a quella intellettuale, Averroè sarebbe stato perseguitato per aver parlato di una verità diversa dal contenuto del Corano. Ma Averroè non ha mai espresso questa opinione. Come chiarisce Massimo Campanini nella nuova introduzione al Trattato decisivo, ripubblicato dopo una ventina d’anni, «la romantica interpretazione di un Averroè martire del libero pensiero» deve essere abbandonata o almeno sfumata. L’intellettuale inserito a corte, poi caduto in disgrazia e poi a breve riabilitato, non è un razionalista, né una sorta di illuminista ante litteram. La verità è una sola, quella scritta nel Corano, a cui tutti devono credere. La filosofia, invece, è un’attività svolta dal fedele, che non per questo smette di essere tale. Tra religione e filosofia non c’è “armonia”, che fa pensare a un possibile scambio di una con l’altra, ma “connessione”, sono realtà parallele e non contraddittorie. Il tentativo è quello di permettere al fedele di essere filosofo, perché la sua ricerca non potrà che trovare la verità cui crede per fede. La storia dell’Islam non ha poi incoraggiato l’attività filosofica, né ha ripetuto lo splendore di attività scientifiche che fervevano nelle corti dei califfi. Finora. Perché è bello pensare che ciò che è avvenuto potrebbe ripetersi.
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