mercoledì 3 febbraio 2016

BHL profeta biblico del suprematismo occidentale giudaico-cristiano con le armi altrui



Io parlo ai nemici, come Giona 
Il Ruanda, l’Ucraina, il Medio Oriente: la filosofia morale di Bernard-Henri Lévy va sul campo 

dal nostro corrispondente Stefano Montefiori  3 feb 2016  Corriere della Sera
Da pagina 1 «In questo libro difendo l’umanesimo contro il comunitarismo. Sostengo che l’essere ebrei è rivolgersi agli altri uomini e mai restare chiusi in se stessi. Difendo una concezione aperta del giudaismo», dice al «Corriere» Bernard-Henri Lévy, alla vigilia dell’uscita in Francia del suo nuovo saggio L’esprit du judaïsme (Grasset). È un’opera filosofica e politica, un manifesto e un racconto personale. Sono 438 pagine che spiegano come sia stato inevitabile, per l’uomo che ha avuto la fortuna di conoscere Emmanuel Lévinas e diventarne allievo, sporcarsi le mani con la realtà. Difendere Israele, a partire dalla guerra dei Sei giorni fino a oggi. E accanto a questo, provare a modificare gli eventi e rifiutarsi di assistere all’orrore. Pensare, scrivere e agire, dal Bangladesh all’Ucraina, dal Darfur al Ruanda, dal Kurdistan alla Libia: cause teoricamente lontane, sentite come una chiamata individuale alla quale sarebbe stato illogico e ignobile resistere. 
«Il personaggio centrale del mio volume è il profeta Giona, l’unico che non parla ai suoi, ma che si rivolge al popolo più lontano, il più ostile. Ed è questo il suo dovere. Il libro di Giona è il mio libro preferito all’interno dell’Antico Testamento. Quello che nei viaggi ho portato sempre con me». Giona predica agli abitanti di Ninive, la capitale corrotta dei nemici, gli Assiri, sui quali sta per abbattersi la punizione divina. Giona parla ai nemici, e li salva. Oggi Ninive è Mosul, cuore dell’Isis in Iraq. «Sono stato a Ninive — scrive Lévy — non una ma molte volte. E ho passato una parte non trascurabile della mia vita ad agire in favore di popoli che non erano i miei, la cui sorte avrebbe potuto essermi indifferente e che erano talvolta, in potenza o in atto, i nemici di chi io sono». 
Oggi Ninive è anche la Libia. Nel 2011 Lévy si è impegnato di persona per convincere l’allora presidente francese Nicolas Sarkozy a intervenire in favore dei ribelli, per evitare il bagno di sangue promesso da Gheddafi. I raid aerei dell’Occidente fermarono i carri armati che stavano per compiere un massacro a Bengasi, Gheddafi è stato ucciso, ma le speranze di una primavera libica sono andate tradite, il Paese è in preda all’espansione dello Stato Islamico. Molti si indignano perché l’Occidente non è intervenuto in Siria e non ha salvato i siriani dalla furia di Assad, ma allo stesso tempo si rimpiange Gheddafi e la sua funzione stabilizzatrice. Si è pentito, Lévy, di avere aiutato i ribelli libici? 
«No, non ho cambiato opinione su quel che ho fatto in Libia e quel che continuerò a fare per tutta la mia vita — risponde —. Lo scontro tra democratici e fondamentalisti, tra moderati e integralisti è la battaglia della nostra epoca. Bisogna fare tutto il possibile per appoggiare coloro che, con molto coraggio, si battono all’interno dell’Islam contro la sua versione mortifera». Lévy crede nell’universalità dei diritti dell’uomo: è il suo spirito del giudaismo. «Niente di quel che ho fatto l’avrei fatto — dice —, se non fossi stato ebreo». 


Non credere, ma capire La missione degli ebrei 

3 feb 2016  Corriere della Sera di Bernard-Henri Lévy
Uno dei miei figli, cui faccio leggere qualche pagina di questo libro e che si meraviglia del mio modo di evocare, evitare, senza però invocarlo mai veramente, il nome del divino, mi pone la domanda che forse si porranno altri lettori: credi in Dio? 
A una domanda così diretta, rispondo altrettanto direttamente che non è lì il problema e che, in ogni caso, non si pone in quei termini. 
Infatti, se tutto quello che ho scritto finora è, se non vero, almeno sensato, se il genio di Rashi, di Maimonide o di Giona somiglia a ciò che asserisco, se il Talmud è proprio quel getto di scintille che continuano a sfavillare fra coloro che hanno mantenuto il gusto di accostarsi alla parola di Mosè accantonata e riattivata a colpi di enigmi, di paradossi, di parole limpide o ingannevoli, di sensi costruiti o decostruiti, di enunciati ben articolati o bruscamente aberranti, allora tutto questo significa che gli Ebrei sono venuti al mondo meno per credere che per studiare; non per adorare, ma per comprendere; e significa che il più alto compito al quale li convocano i libri santi non è di ardere d’amore, né di estasiarsi davanti all’infinito, ma di sapere e di insegnare. 
Ricordo i testi di Levinas che accompagnarono i miei primi passi e che insistevano sulla grande ostilità del pensiero ebraico al mistero, al sacro, alla mistica della presenza, alla religiosità. 
Ricordo i suoi ammonimenti, ripresi da Blanchot, contro il grande errore che sarebbe dare ai nostri doveri verso Dio la precedenza sugli obblighi verso gli altri, al punto di vista sull’etica, all’indiscrezione nei confronti del divino la precedenza sulla sollecitudine verso il prossimo. (...) 
Maimonide parla di veridicità, non di convinzione religiosa. Dice o, piuttosto, sotto-intende che la conoscenza, e la conoscenza solamente, di questo presupposto è il primo dei comandamenti. Senza retorica, senza parola di scongiuro, magica o mistica, insiste che l’edificio dei mondi riposa su un sapere originario, un pensiero, un da’at, mai su una fede iniziale. (...) 
E tutti i testi ebraici che conosco lo dicono e lo ripetono: l’uomo non può vedere e vivere; stare nello spazio e nel tempo significa condannare se stessi a non vedere colui che è fuori da questo spazio e da questo tempo; se lo si vedesse, se si rivelasse in un vero vedere, ecco che io stesso non sarei più né in questo spazio né in questo tempo. 
Ma soprattutto, mai e poi mai si tratta di crederci. 
Mai, da nessuna parte, è pronunciato il «credo in unum Deum» richiesto da coloro ai quali si domanda se «credono in Dio». 
La verità è che tutta questa storia del credere riguarda un’altra storia, molto bella, intensamente intrecciata nei cuori e negli affetti: è la storia della «fede che salva» dei paolini. Ma non è la storia di chi insiste nel dirsi ebreo... 
Il «credo quia absurdum», per esempio, la rinuncia a entrare nel mistero della tomba aperta il giorno di Pasqua che fa così bella la cieca preghiera di Agostino o di Claudel: nulla è più contrario alla non meno grande bellezza della volontà di capire che è al centro del giudaismo. (...) 
Sono lontano, molto lontano dall’essere all’altezza del nome ebreo e del mio nome. 
Ma questo io so e ripeto un’ultima volta: non viene chiesto all’Ebreo, dal più istruito al più ignorante, dal più grande (che è anche il più piccolo) al più piccolo (che è anche il più grande) di «credere in Dio». 
Il riferirsi a Dio come credenza è il punto di inizio, l’atto di nascita della religione, voglio dire del cristianesimo: ma per l’Ebreo può essere un errore; infatti l’abbandonarsi al cuore, il ricorrere alla fede dei semplici in nome dell’impossibilità del sapere, è un modo di differire l’intellezione che è ciò per cui, ancora un volta, l’Ebreo è giunto. 
E non significa offendere i cristiani, tutti i cristiani, quelli della comunione come quelli dell’amore per il debole, i cristiani della confessione come quelli del cuore, se ricordiamo che la loro teologia, nata da una relazione geniale e al tempo stesso tragica al testo ebraico e al suo uso non è il punto di partenza di tutti gli atteggiamenti umani e che ne resta uno, quello ebraico, che si ostina a dire questo: ciò che si sa, lo si sa; ciò che si sa e si conosce, non è necessario crederlo; e se lo si crede, significa che si è rinunciato a conoscerlo, che si è voluto guadagnare tempo, tentare un azzardo che abolisca non il caso, ma la necessità di ostinarsi nel pensiero: e questa impresa, questo salto al quale Pascal ha dato la carica esistenziale, emotiva, intellettuale più grande che si possa immaginare, questo salto che fece di lui un genio prodigioso e infelice, all’ebreo si chiede soprattutto di non compierlo.

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