sabato 27 febbraio 2016

Billary pericolo supremo per la pace e l'umanità e le consuete ambiguità del Mito Transpolitico

Testi come questo sono sempre animati da una costitutiva ambiguità. Non si capisce cioè se il loro obiettivo è quello di denunciare la scarsa attenzione della sinistra verso i diritti sostanziali e la sua dedizione totale, unilaterale e corruttiva a quelli formali, come è sacrosanto; oppure se effettivamente questi diritti formali sono deplorati, perché consustanziali alla cospirazione mondialista o perché roba da froci e così via.
L'ambiguità è costitutiva, dicevo, e dunque strutturale e ineliminabile, perché consente a ciascuno - del resto si pretende proprio di andare oltre la destra e la sinistra - di leggere in essi ciò che dall'inizio vuole leggere.
E' una strategia retorica precisa e antica, che vorrebbe essere astuta. In questa maniera invece viene vanificato tutto il lavoro positivo che pure è presente, perché se gli allocchi abboccano, la tesi è irricevibile da chi ha un minimo di scuole.

Ad esempio, si dice che:

"... In Europa, fatta eccezione per le questioni legate all’ambiente quale l’opposizione agli organismi geneticamente modificati, la difesa degli immigrati privi di documenti costituisce praticamente la
sola causa in grado di suscitare proteste attive da parte della sinistra. Per alcuni piccoli gruppi anarchici dell’ultra-sinistra, la prospettiva a lungo termine è un mondo senza frontiere, in cui ciascuno sarà libero di spostarsi ovunque. I confini nazionali e gli stati-nazione scompariranno.
Questi gruppi si considerano radicalmente anti-capitalisti, ma il loro ideale è identico a quello dei fautori della globalizzazione capitalista, che vedono più lontano: in assenza di stati-nazione, le corporation private e gli interessi finanziari potranno dominare il mondo indisturbati. La differenza tra gli anarchici e i capitalisti globalizzatori sta nella percezione dei rapporti di forza: i primi li
ignorano, mentre i secondi li modellano attivamente.
L’ideale “multiculturale” globalista vorrebbe trasformare ogni paese in una miscela di identità. Ciascuna di queste identità sarebbe dispersa attraverso più paesi e nutrirebbe maggiore lealtà verso se stessa che verso qualunque Stato...".

L'ambiguità di cui parlavo qui è all'opera in maniera evidente. Si tratta di sollecitare la sinistra a difendere anche le classi subalterne indigene assieme ai migranti? Oppure la difesa dei migranti e quella delle classi subalterne sono viste in contraddizione? Oppure ancora si dice che bisogna sigillare i confini e affondare i negri in mare aperto?
Ciascuno può leggervi ciò che vuole. In ogni caso, come si evince dall'idea complottarda della globalizzazione, ogni equilibrio tra critica e riconoscimento della modernità è saltato [SGA].


Diana Johnstone, Hillary Clinton. Regina del caos, Zambon, 2016

Risvolto
Le guerre degli Stati Uniti stanno diventando ripetitive. Sempre il solito vecchio copione: i media mainstream allarmano l'opinione pubblica sul cattivo di turno e di come costui massacri il proprio popolo. Gli Stati Uniti lo massacrano a loro volta usando droni e missili. Il cattivo è presto dimenticato e il paese viene lasciato in balìa di fazioni opposte che cercano di dominare il caos...
C'e' bisogno di un cambiamento: che ne dite di un presidente donna? Hillary Rodham Clinton si è sacrificata al massimo per raggiungere lo scopo: la sua carriera come Segretario di Stato dimostra quanto sia qualificata per diventare la madre di tutti i droni o addirittura della Terza Guerra Mondiale.

Oscura silhouette del potere 
STATI UNITI. Missili, droni e guerre varie ne fanno una figura interventista fin dalla carica di Segretaria di Stato nel governo Obama. Il saggio di Diane Johnstone, «Hillary Clinton. Regina del caos» (Zambon editore), si sofferma sulle contraddizioni della candidata democratica alla Casa Bianca La fisionomia politica del capitalismo finanziario alimenta e avalla il disordine strutturale e culturale
Fabrizio Tonello Manifesto 26.5.2016, 0:05 
Anche se Bernie Sanders continuerà la sua battaglia politica fino alla convenzione democratica, ormai sappiamo che alle elezioni presidenziali del prossimo novembre negli Stati Uniti saranno in campo una candidata «repubblicana» e uno indipendente: la repubblicana è Hillary Clinton e l’indipendente è Donald Trump. Certo, la prima correrà sotto le bandiere del partito democratico e il secondo sotto quelle del partito repubblicano ma le etichette contano poco. 
In sostanza, sulla scheda ci sarà una candidata interventista, decisa a mantenere la supremazia americana nel mondo, sostenitrice di una nuova guerra fredda e delle alleanze tradizionali come la Nato: Clinton.
L’altro candidato, Donald Trump, torna indietro nel tempo al movimento degli anni Trenta, America First: protezionismo commerciale, niente alleanze permanenti, interventi militari solo quando è strettamente necessario per la sicurezza nazionale, xenofobia. 
A larga maggioranza 
Erano le posizioni dei repubblicani del Midwest, abbandonate dal 1945 in poi in nome della guerra fredda contro l’Unione Sovietica e oggi resuscitate. Come si è capito nella stagione delle primarie, Trump non è un repubblicano, ha conquistato dall’esterno il partito repubblicano, con quella che in Borsa sarebbe definita un’Opa, un’offerta pubblica di acquisto ostile nei confronti dei dirigenti in carica.
Ciò che merita attenzione è il fatto che questa operazione di conquista dall’esterno è avvenuta esplicitamente contro l’establishment repubblicano e ha avuto successo, tra le altre cose, perché «Gli Stati uniti sono stanchi del mondo», come ha scritto «Le Monde diplomatique». È l’opinione pubblica che, a larga maggioranza, oggi vorrebbe dedicarsi alla ricostruzione del paese dopo 14 anni di guerra in Iraq e in Afghanistan: Trump si fa interprete di esigenze largamente diffuse quando dichiara: «Spendiamo migliaia di miliardi di dollari in Medio Oriente mentre le infrastrutture del nostro paese si disintegrano». 
Profonde scomuniche 
Questo non significa che le elite di Washington siano pronte ad accettare una svolta in politica estera che metterebbe a rischio il loro potere, le loro carriere, il loro status sociale.
L’attacco più duro contro Trump è venuto da 121 membri della nomenklatura repubblicana, che in superficie gli rimproveravano il suo razzismo e i suoi insulti verso gli alleati ma in profondità lo scomunicavano per il suo rifiuto degli interventi militari nel mondo ad ogni pretesto, della Nato e dei trattati di libero scambio. 
Qualche giorno fa Eliot Cohen, una figura di punta tra i neoconservatori, ha addirittura proposto di fondare un terzo partito.
Non se ne farà nulla, ovviamente: neppure Theodore Roosevelt ebbe successo come candidato indipendente, nel 1912, ma il solo fatto che la possibilità venga evocata rivela quanto avanzato sia lo stato di disgregazione del tradizionale sistema politico basato su democratici e repubblicani. 
Ciò che terrà insieme il sistema, almeno per un po’, è il fatto che in politica estera i repubblicani in fondo un candidato ce l’hanno, ed è Clinton. Arriva quindi a proposito il libro di Diane Johnstone Hillary Clinton. Regina del caos (Zambon editore, pp. 248, euro 15, traduzione di Cristiano Screm). 
Nella storia americana, il Segretario di Stato era tradizionalmente la persona più potente nel governo dopo il presidente e godeva di larghi margini di autonomia, spesso era stato lui stesso un potenziale candidato del partito alla presidenza, come William Seward, rivale sconfitto di Lincoln nel 1860.
Nel caso di Hillary Clinton, invece, la sua nomina a Segretario di Stato non le ha dato un ruolo determinante nella politica estera, su cui Obama aveva ben chiaro quale fosse il suo mandato: districare gli Stati Uniti dalle guerre in Iraq e in Afghanistan. Non c’è riuscito, ma la volontà c’era e discendeva da una visione articolata del ruolo degli Stati Uniti nel mondo. 
In sostanza Obama, già nel suo primo mandato, aveva preso atto dei limiti della potenza americana. Forse non aveva letto il vecchio libro di Gabriel Kolko che porta appunto questo titolo, ma sicuramente gli era familiare il libro di Michael Mandelbaum The Frugal Superpower, che spiegava come le follie di George W. Bush non potessero durare a lungo, semplicemente perché le risorse non c’erano. 
Appetiti neocoloniali 
Gli Stati Uniti sono un paese pesantemente indebitato, in particolare nei confronti di un potenziale rivale come la Cina. A Clinton, che aveva idee diverse, fu lasciata la gestione della macchina burocratica della diplomazia, incaricata di gestire i rapporti con gli amici nel mondo.
Le differenze di approccio si videro nel 2011, quando scoppiarono le primavere arabe: in Egitto Hillary Clinton sostenne fino all’ultimo Mubarak, proponendo poi di sostituirlo con il suo vice Omar Suleiman (ex capo dei servizi segreti). Fu Obama a dare il via libera alla transizione pacifica che sarebbe sfociata nella presidenza di Mohammed Morsi, poi eliminato da un colpo di stato militare nel 2013.
Negli stessi giorni scoppiò la rivolta in Libia, con uno sviluppo del tutto diverso. Come racconta Diana Johnstone, l’occasione per eliminare l’odiato Gheddafi era troppo favorevole: gli appetiti neocoloniali di Francia e Inghilterra trovarono una sponda a Washingon in Hillary Clinton. 

Fu una «guerra tutta per lei», Obama era contrario ma alla fine cedette alle pressioni, come ha fatto sapere anche recentemente in una lunga intervista a «The Atlantic» (The Obama Doctrine). Gheddafi fu eliminato, la nuova Libia democratica e filoccidentale però non nacque affatto: al suo posto si installò il caos, tagliagole dell’Isis compresi.
Oggi, il Medio Oriente autoritario ma stabile del 2001 è stato sostituito da un arcipelago di stati falliti, dove c’è la guerra civile (Siria e Iraq), dittature militari, o islamiste, ogni giorno più violente (rispettivamente Egitto e Turchia), una spartizione di fatto del territorio tra milizie (Libia). 
L’unico paese dove c’è un’apparenza di tranquillità è la Tunisia. Questa situazione sembra la prova dell’avventurismo dell’amministrazione Bush prima e dell’incertezza strategica dell’amministrazione Obama dopo: 15 anni di errori che sfociano nel caos attuale, particolarmente pericoloso per l’Europa.
Un’altra interpretazione è però possibile: e se il caos fosse voluto? Se l’instabilità, l’assenza di governi legittimi, le guerre dei droni fossero le condizioni migliori per la sopravvivenza di un imperialismo in fase declinante? 
Questa è l’interpretazione di Diane Johnstone, che personifica in Hillary Clinton una linea di politica estera aggressiva e cinica dietro la quale vi sono potenti forze economiche e politiche degli Stati Uniti, che non si rassegnano alla fine del mondo «unipolare» nato nel 1991 con la dissoluzione dell’Unione Sovietica. 
Storture espansive 
Si tratta di un’idea non nuova, avanzata già 24 anni fa da Samir Amin, il cui libro del 1992 si intitolava non a caso Empire of Chaos. Il celebre economista marxista dava una spiegazione teorica delle esplosioni di violenza che vediamo ormai ogni sera nei telegiornali: «Il caos risulta da una mancanza di corrispondenza tra la geografia del potere da una parte e gli effetti dell’espansione globale del capitale dall’altra».
In altre parole, l’inclusione dell’intero pianeta nella sfera d’azione del capitalismo finanziario si traduce in operazioni di rapina sempre più a breve termine, le cui conseguenze sulle società locali, siano esse i ghetti di Baltimora o le periferie dello Yemen, sono del tutto indifferenti a chi lavora a Wall Street ma suscitano reazioni disperate e violente.
Il libro di Diane Johnstone ci avvisa che la prossima presidente degli Stati Uniti (Trump non ha realistiche chances di prevalere) sarà l’espressione di una coalizione politico-culturale che non porterà certo la pace nel mondo.

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